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23 maggio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Un’annotazione prima di incominciare. Consideriamo la struttura del linguaggio così come la pone Peirce, come una semiosi infinita, cioè come la parola presa in una deriva. Il problema è che questa deriva infinita potrebbe comportare l’impossibilità di parlare, perché è come se ciascuna parola non fosse mai quella che è e, quindi, non è utilizzabile. Ciò che pone rimedio a questo è la metafisica, che consente l’arresto di questa deriva infinita, consentendo quindi di utilizzare un termine. È per questo che dicevamo che la metafisica è la stessa struttura del linguaggio, è qualcosa che di fatto fa funzionare il linguaggio, perché la semiosi infinita, tecnicamente, è ciò che non lo farebbe funzionare, appunto perché è una deriva senza fine. La metafisica arresta sul concetto e, per arrestare sul concetto, deve universalizzare. A pag. 74. Suarez spiega l’espressione “metafisica” in un senso che diverge dalla spiegazione di Tommaso, e si avvicina a un altro punto di vista, che nella storia della metafisica ha il suo rilievo: de his rebus, quae scientias seu res naturales consequuntur. Si occupa, cioè, delle cose derivanti dalla scienza della natura. È ciò che segue alle cose naturali, quindi, pone la metafisica non più in senso tecnico ma consequenziale. La metafisica è ciò che va oltre le cose della natura. La metafisica tratta i quanto segue alle cose naturali… … La “metafisica” non riguarda dunque i libri che vengono dopo rispetto a quelli sulla fisica, bensì il venire-dopo è ora inteso in un senso contenutistico: la conoscenza del sovrasensibile è posteriore a quella del sensibile. La conoscenza metafisica è posposta a quella della fisica quanto al succedersi dell’acquisizione e del sorgere della conoscenza del sovrasensibile, e quanto alla sequenza dell’indagine. C’è prima l’immediata conoscenza, l’elemento sensibile, la percezione; dopo la percezione c’è la riflessione intorno a ciò che viene percepito: cos’è quella cosa che sto guardando? Però, per fare questo ci deve essere quella cosa che sto guardando; sarebbe il “quale” di cui parlava Peirce, la “qualità”: c’è la qualità che poi comporta metafisicamente l’apertura al concetto, concetto che dice che cosa è quella cosa lì. Dico metafisicamente perché sta lì, come dicevamo, tutta la questione della metafisica. Questa “è”, la copula, generalmente non viene considerata propriamente come una questione metafisica, però, è da considerare bene la questione, perché ogni volta che si dice che a è b si sta compiendo un’operazione metafisica: si dice che cosa è una certa cosa. Quindi, quella certa cosa la si blocca in una sorta di universale, in un concetto; poi, è il concetto che rende tale il percepito, se non ci fosse questo secondo passaggio nemmeno il primo ci sarebbe, sarebbe niente. Dire che c’è la percezione e poi c’è la riflessione vale fino a un certo punto, perché se non ci fosse la conoscenza anche la percezione, di che cosa sarebbe percezione? Non ci sarebbe neanche percezione, anche perché sapere che percepisco qualche cosa occorre che questa percezione sia già all’interno di una conoscenza. A pag. 75. Suarez mantiene il μετά nel significato di post e intendo questo post nel senso della gerarchia della conoscenza, a partire dal sensibile per arrivare al sovrasensibile. Allo stesso tempo però conferisce a questa interpretazione un significato contenutistico: μετά, dopo, ciò-che-sta-dopo, ciò che è superiore al sensibile. … Per evitare malintesi, e allo stesso tempo per preparare ciò che seguirà, espongo brevemente il carattere fondamentale della metafisica moderna. Se tentiamo di caratterizzare la filosofia moderna in modo analogo a quanto abbiamo fatto per l’antichità e per il Medioevo, ci troviamo di fronte al fatto che, se da una parte il concetto di metafisica si è consolidato, viene anche a compiersi, in effetti, qualcosa di nuovo. Se questa novità è tale da far parte della metafisica, e non della cosiddetta teoria della conoscenza, bisogna domandarsi: quale carattere metafisico ha per la metafisica questa novità che ha inizio con la filosofia moderna? Da tale questione potete vedere che noi dovremmo già essere in possesso della problematica della metafisica in modo vivo e vitale, mentre per il momento possiamo dire soltanto, in forma meramente affermativa, che il pensiero metafisico è un interrogare concettualmente totalizzante in duplice senso: perché si interroga intorno all’ente nella sua totalità, e perché in tale ente è sempre concettualmente coinvolto l’interrogante stesso. Il fatto che nell’antichità, così come nella filosofia medievale, ci si interroghi intorno all’ente nella sua totalità, dovrebbe essere divenuto più o meno chiaro. Molto più incerto e quasi inafferrabile è invece il secondo momento, cioè in che modo nella filosofia antica colui che si interroga metafisicamente venga egli stesso posto in questione da questo interrogare. Ma proprio questo momento, nel quale l’interrogare concettualmente totalizzante coinvolge concettualmente in sé l’interrogante, è quanto ci dà la possibilità di comprendere la novità della metafisica moderna nel suo contenuto metafisico. Qual è il tratto fondamentale della metafisica moderna? La metafisica moderna è caratterizzata dal fatto che l’intero complesso della problematica tradizionale viene a trovarsi sotto il punto di vista di una nuova scienza, che è rappresentata dalla scienza matematica della natura. Questa è stata la novità: la metafisica è diventata paradossalmente la fisica, fisica nell’accezione nostra, non in quella di Aristotele. Il ragionamento, per lo più non esplicito, è il seguente: se la metafisica si interroga intorno alle cause prime, al senso universalissimo e supremo dell’ente, in breve intorno a quanto è supremo, ultimo e sommo, questa specie di sapere deve essere conforme a ciò intorno a cui si interroga, ma questo significa che essa stessa deve essere assolutamente certa. La metafisica è diventata la fisica, la matematica, per questa esigenza di assoluta certezza. Così, seguendo il filo conduttore dell’idea matematica di conoscenza, l’intera problematica della metafisica tradizionale viene a trovarsi di fronte al compito di realizzare ciò in senso rigoroso ed elevare così la metafisica, in senso contenutistico, anche al grado formale di una scienza assoluta. Questo è stato il progetto, vigente a tutt’oggi. Ovviamente, in questo progetto ciò che viene abbandonato è quell’aspetto che Heidegger sottolineava come importantissimo, e cioè il fatto che in questo conoscere metafisico io stesso sono messo in gioco. Questo nella matematica e nella fisica non c’è: nessun matematico o fisico è messo in gioco in quanto interrogante in ciò che interroga. Se io scrivo 2 x 2 = 4 non sono per niente in gioco. Quindi, l’idea di certezza assoluta, come obiettivo della metafisica, va a scapito del coinvolgimento dell’interrogante in ciò che sta interrogando. Il problema della certezza assoluta è soprattutto il problema fondamentale della filosofia moderna, non nel senso di una teoria della conoscenza, ma in quanto sostenuto e guidato dalla problematica contenutistica della metafisica stessa. Questo fatto lo vediamo in modo chiarissimo dove ha esplicitamente inizio la filosofia moderna, in Cartesio, ma in modo particolare in Fichte. L’opera fondamentale di Fichte ha per titolo Dottrina della scienza. È la scienza che ha per oggetto la scienza in senso assoluto, e che dà quindi fondazione alla metafisica. Lo sviluppo della metafisica moderna è sostenuto da questo primato del problema della certezza per quanto concerne la conoscenza metafisica. A partire da questo punto si compie la modificazione del complesso dei problemi e delle discipline. In effetti, se voi leggete i testi contemporanei di metafisica, vi accorgete che sono testi di filosofia analitica, cioè, di filosofia del linguaggio, dove si tenta di stabilire con assoluta certezza, attraverso per esempio il calcolo proposizionale, l’esistenza di una certa cosa. Potremmo dire che, oggi, l’ultimo risvolto della metafisica sta proprio nella filosofia analitica. Ma se consideriamo le cose in questo modo, non abbiamo ancora la comprensione autentica di ciò che si svolge in questo sforzo di raggiungere la certezza assoluta della metafisica. Ciò che è ultimo, deve anche poter essere conosciuto in senso ultimo. … Si è soliti citare come segno caratteristico il fatto che l’età moderna, a partire da Cartesio, non prende più le mosse dall’esistenza di Dio e dalle dimostrazioni della sua esistenza, bensì dalla coscienza, dall’io. Vediamo come l’io, la coscienza, la ragione, la persona, lo spirito, si trovino effettivamente al centro della problematica. Ricordate che Cartesio ha messo l’io come garanzia della conoscenza: io posso dubitare di tutto ma non posso dubitare del fatto che sto dubitando. Quindi, questo io viene presupposto, ovviamente. Se consideriamo tali dati di fatto e ci chiediamo se, in definitiva, in questa collocazione centrale dell’io e dell’autocoscienza si esprima il fatto che nella filosofia moderna l’io interrogante viene posto anch’esso in questione, dobbiamo rispondere: in effetti è così, ma in una maniera peculiare. Infatti l’io, la coscienza, la persona vengono assunti nella metafisica in modo tale che questo io non viene posto affatto in questione. È questa la differenza tra la metafisica, ormai diventata filosofia analitica, e la metafisica così come Heidegger ce la sta, in qualche modo, aprendo, cioè, l’io, che è alla base di tutto, non viene mai posto in questione. Ciò non significa che venga semplicemente tralasciata la sua messa in questione, bensì significa che proprio l’io e la coscienza vengono posti alla base di questa metafisica come il fondamento più sicuro, indubitabile, cosicché nella metafisica moderna viene alla luce un ben determinato interrogare concettualmente totalizzante, un coinvolgere concettualmente l’interrogante in senso negativo, in modo tale che l’io stesso diviene il fondamento di ogni ulteriore interrogare. Viene posto in modo negativo, cioè, è ciò che per esempio la fisica cerca assolutamente di fare. Quando il fisico fa di tutto per evitare di influenzare i suoi esperimenti, cioè, lui, interrogante, deve assolutamente scomparire. Questa è l’intrinseca connessione che vincola il primato del problema del soggetto e la questione della certezza al problema di contenuto della metafisica tradizionale. Questo è il problema: nella metafisica moderna, nella fisica, l’interrogante viene cancellato. A pag. 79. Dobbiamo ammetterlo: pur avendo trattato direttamente della filosofia, o meglio proprio per questo, ce ne siamo allontanati. Ciò è però avvenuto in modo nascosto, ambiguo. È vero che non abbiamo parlato di altro, di scienza, di arte e di religione, bensì della filosofia, ma non abbiamo parlato in modo immediato e concreto a partire da essa, bensì su di essa. Questa è una finezza interessante. Dice che abbiamo parlato della filosofia come se fosse un qualche cosa che non ci riguarda, un qualche cosa dove l’interrogante non c’è. L’abbiamo presa come un parlare di biologia, di botanica, ecc., cioè, come un qualche cosa rispetto a cui io sono estraneo. A partire da essa parleremo soltanto se preliminarmente ci muoveremo all’interno di un interrogare metafisico. Ma questo non è avvenuto affatto. Abbiamo soltanto fatto delle affermazioni su questo interrogare, dicendo che è concettualmente totalizzante, cioè un interrogare tale che in ogni questione include concettualmente sempre la totalità dell’ente, e assume nella questione l’interrogante stesso e lo pone in questione. Ma fintantoché non ci faremo realmente porre in questione da un vero interrogare rivolto alla totalità, non avremo compreso che l’interrogare metafisico è un interrogare concettualmente totalizzante. Sta dicendo che, sì, la metafisica si occupa di concettualizzare l’ente in modo totalizzante, ponendo l’ente come un tutto, questo è vero, ma in questo tutto ci sono anch’io, cosa che invece la metafisica non ha mai considerato. La metafisica pone, sì, l’ente come un tutto, ma in questo tutto ci sono anch’io. Questo tutto sarebbe il mondo, di cui Heidegger parla ovunque. Abbiamo già fatto cenno alle seguenti questioni: cos’è mondo? Cos’è finitezza? Cos’è isolamento? Sono i tre concetti fondamentali della metafisica? Ma tali questioni sono state enunciate in modo quasi casuale; appaiono arbitrarie, e ciò è innegabile. E qui si pone una serie di domande. Non si tratta di sviluppare tali questioni da un punto di vista teoretico, e di suscitare uno stato d’animo per esse e accanto ad esse, bensì, al contrario, di far sorgere tali questioni nella loro necessità e possibilità a partire da uno stato d’animo fondamentale, e cercare di custodirle nella loro autonomia e inequivocità. Di conseguenza compiremo autenticamente questo interrogare, se inizieremo a destare uno stato d’animo fondamentale del nostro filosofare. Questo è il primo e autentico compito fondamentale del nostro corso, o l’inizio di un filosofare effettivo e vitale.  Perché dice questo? Nelle righe prima… ma a questo punto le leggiamo adesso. Ma se pure siamo disposti ad ammettere che tali questioni siano metafisiche, non sono forse vuote e generiche, tanto indeterminate che c lasciano indifferenti, che in sostanza non ci toccano o tanto meno ci afferrano? O forse dobbiamo prima sviluppare tali questioni, perché poi esse ci afferrino, perché poi compaia l’essere-afferrati richiesto? Dobbiamo dunque porre le questioni o procurarci uno stato d’animo adeguato ad esse? Se volessimo procedere in questo modo, ricadremmo allora semplicemente nel contesto che vogliamo e dobbiamo abbandonare. E, cioè, considerare le cose fuori di me. Invece, bisogna considerarle a partire da uno stato d’animo, secondo lui, necessario perché si destino queste domande, perché sia possibile incominciare a pensare. Ci sta dicendo che per pensare occorre uno stato d’animo; non solo, ma che comunque il pensiero è sempre preso in un particolare stato d’animo. Qualunque cosa accada, qualunque cosa io pensi, dica, ecc., è sempre in uno stato d’animo. Non esiste lo stato d’animo indifferente, è sempre e comunque preso da qualche cosa. Potremmo anche dire che lo stato d’animo è determinato dalla relazione che ho con l’utilizzabile, con ciò che rientra nel mio progetto, e il mio progetto, come sappiamo, è sempre determinato dalla volontà di potenza. Si tratta, quindi, di tenere sempre ben presenti questi aspetti mentre si ragiona con Heidegger. Siamo a pag. 81. Parte prima. Il destare uno stato d’animo fondamentale del nostro filosofare. Capitolo primo. Il compito di destare uno stato d’animo fondamentale e l’indicazione di uno stato d’animo fondamentale nascosto del nostro esserci odierno. § 16. Intesa preliminare sul senso del destare uno stato d’animo fondamentale. Sottoparagrafo a) Destare: non la constatazione di qualcosa che sussiste, bensì un far svegliare ciò che dorme. Questa è una cosa importante in Heidegger: destare uno stato d’animo. Ma, dice lui, questo destare è un destare uno stato d’animo particolare, come dire che è qualcosa che c’è ma di cui non siamo consapevoli. Infatti, a un certo punto, fa un parallelo con la psicoanalisi, con l’inconscio, che non è che non c’è, non ne sono consapevole ma c’è. È per questo che dice che si tratta di risvegliare qualcosa che sta dormendo, che bisogna destare; quindi, c’è ma non è consapevole. Questo serve a lui per dire che perché possa accadere questo destarsi dello stato d’animo occorrono certe condizioni; questo risvegliare comporta a sua volta anche qui uno stato d’animo, non si risveglia una cosa così, dal niente, ma occorre che ci sia un qualche cosa che mi muove a fare una certa operazione. Stati d’animo – non sono esattamente qualcosa che si possa inventare, ma qualcosa che ci viene incontro, che non possiamo imporre, che si sviluppa da sé, che non si può conseguire con la forza e in cui, al contrario, incorriamo? Non si può imporre, non si può imporre a qualcuno di essere triste, di essere felice, ecc., può suscitare questo stato d’animo ma non può imporlo. Se lasciamo che tale stato d’animo sia uno stato d’animo, non ci è dunque possibile né lecito conseguirlo con la forza, in modo artificioso e arbitrario. Deve esserci già. Questo è ciò che dice Heidegger: quando io suscito la rabbia in qualcuno, questa rabbia in qualche modo c’è già, io la suscito ma c’è già, è già presente in lui, non la creo ex nihilo. Ma come constateremo uno stato d’animo fondamentale del filosofare? Tutto quello che possiamo fare, rispetto a uno stato d’animo, è constatarlo; constatiamo che è presente, che è in atto. E, quindi, come constateremo uno stato d’animo fondamentale del filosofare? Da che cosa? Se uno è arrabbiato lo vedo, se è triste lo vedo, ma uno stato d’animo del filosofare come si manifesta? Dice che però questo constatare è un problema perché c’è una difficoltà di constatare uno stato d’animo e, quindi, abbandona questo termie constatare a favore di un destare uno stato d’animo. Dice, a pag. 83, Destare è un rendere-sveglio, un far-svegliare ciò che dorme. … “Ciò che dorme” è, in una maniera particolare, assente, eppure c’è. Se destiamo uno stato d’animo fondamentale, vuol dire che c’è già. Ma ciò significa anche che, in un certo senso, non c’è. Singolare: lo stato d’animo è qualcosa che c’è e al tempo stesso non c’è. Se volessimo continuare a filosofare formalmente nel senso consueto, potremmo subito dire: una cosa che al tempo stesso c’è e non c’è, ha un essere tale che si contraddice intimamente. Esser-ci e non esser-ci è infatti una contraddizione pura e semplice. Ma quanto si contraddice non può esistere… Questo viene da Kant. …è in se stesso impossibile, così come non può esistere un quadrato rotondo – questo è un principio della metafisica tradizionale. … Una cosa sussiste o non sussiste. Vale anche per l’uomo? Certo: uno c’è oppure non c’è. Nel contempo si rammenterà però che qui la situazione è diversa rispetto a una pietra. Sappiamo infatti, per l’esperienza che facciamo di noi stessi in quanto uomini, che in noi qualcosa può sussistere e tuttavia non sussistere, che vi sono processi che fanno parte di noi e tuttavia non affiorano nella nostra coscienza. Qui cita lo psichico, la differenza tra conscio e inconscio. A pag. 84. Si rivela così che con la distinzione tra “inconscio” e “conscio” non risolviamo i nostri problemi. Destare uno stato d’animo non può significare semplicemente renderlo conscio da inconscio che era. Destare uno stato d’animo vuol dire farlo divenir-sveglio e lasciarlo essere come tale. Ma se rendiamo conscio uno stato d’animo, per conoscerlo e farlo divenire propriamente oggetto del sapere, otteniamo il contrario di un destare. In tal modo viene distrutto, o quanto meno non rafforzato, bensì indebolito e alterato. Heidegger non conosceva ovviamente la psicoanalisi, se non in modo molto sommario, però questo era esattamente ciò che voleva fare Freud, e cioè rilevare un elemento inconscio e farlo sopraggiungere alla coscienza, sapendo bene che, sopraggiungendo alla coscienza, si altera, si indebolisce e, indebolendosi (il sintomo), scompare. Passiamo al punto c) L’esserci e non-esserci dello stato d’animo sul fondamento dell’essere dell’uomo in quanto esser-ci ed esser-via (essere-assente). Il fatto che, quando parliamo di esser-ci e contestualmente di non-esserci in relazione all’uomo, non prendiamo in considerazione la differenza tra consapevolezza e inconsapevolezza, diviene chiaro in un evento che si verifica in condizione di veglia, dal momento che quest’ultima, in quanto vita cosciente, è posta in antitesi alla vita non cosciente (sonno). Quante volte, durante una conversazione in società, noi “non ci” siamo, quante volte scopriamo che eravamo assenti, senza che tuttavia ci fossimo addormentati. Capita tante volte. Per esempio, uno va a una conferenza noiosissima e si accorge, dopo un’ora, che la conferenza è finita e lui non c’era, anche se era lì ed era sveglio, però non c’era. Questo è un esempio dell’esser-via. Questo non-esser-ci, questo esser-via, non ha nulla a che fare con consapevolezza o inconsapevolezza nel significato corrente. Al contrario, questo non-esser-ci può essere assai consapevole. Riprendendo l’esempio della conferenza, una persona è lì, pensa agli affari suoi, ma se il vicino gli chiede che ore sono immediatamente guarda l’ora e gliela dice; quindi, è perfettamente consapevole di tutto, anche se non era lì, era via. In tale essere-assenti siamo occupati proprio con noi stessi, se non con altro. Eppure questo non-esser-ci è un esser-via. Poi, fa l’esempio estremo della follia e dice che nella follia può regnare la più alta consapevolezza. È una cosa ancora diversa. Dice, poi, che …questo poter esser-via appartiene al modo di essere proprio dell’uomo. Solo l’uomo può esser via, può non esserci. Le sedie, quelle della conferenza famosa, non possono esser via, non possono non esserci. Solo l’uomo può esser via, quindi, per poter esser via deve esserci, come condizione. Deve venir destato uno stato d’animo. Ma ciò significa: c’è e non c’è. Se devo destarlo vuol dire che non c’è; ma se posso destarlo è perché c’è, sennò non potrei destare niente. Se lo stato d’animo è qualcosa che ha il carattere dell’(esser)ci e del non-(esser)ci, allora ha a che fare con l’essenza più profonda dell’essere dell’uomo, con il suo esser-ci. Lo stato d’animo fa parte dell’essere dell’uomo. Qui ci dice chiaramente che lo stato d’animo non è qualcosa che può esserci o non esserci, cioè, che si appiccica all’uomo; fa parte dell’essere dell’uomo, l’uomo non può essere senza stato d’animo. Esser-via non significa: non esser affatto, ma è piuttosto una maniera dell’esserci. Lo dicevamo prima: per esser via occorre esserci, quindi, è un modo dell’esserci. La pietra, nel suo esser-via, proprio non c’è. L’uomo invece deve esser-ci, per poter esser-via, e soltanto finché c’è, ha la possibilità dell’esser-via. A pag. 88. Certo, gli stati d’animo possono venir intesi così: come tonalità, fenomeni che accompagnano i restanti accadimenti psichici. In fondo fino ad ora li si ha sempre intesi in tal modo. Questa caratterizzazione è indiscutibilmente giusta. Ma certamente non si vorrà affermare che questa concezione volgare sia l’unica possibile, o magari quella decisiva per il solo fatto che è la più immediata, e quella che meglio si adatta alla vecchia concezione dell’uomo. Se è vero che appartengono all’essere dell’uomo, gli stati d’animo non sono meri accadimenti psichici o condizioni, così come un metallo è fluido oppure solido. Perciò dobbiamo chiederci: come dobbiamo concepire in senso positivo gli stati d’animo in quanto facenti parte dell’essenza dell’uomo, e come deve essere il nostro atteggiamento nei confronti dell’uomo stesso, se vogliamo destare lo stato d’animo? Tutto questo discorso è fatto per avvicinarsi sempre di più al modo in cui è possibile, secondo Heidegger, destare lo stato d’animo che serve a filosofare, quello adatto a filosofare. Prima di attendere a tali questioni, gettiamo uno sguardo retrospettivo su quanto è stato detto finora in relazione al compito del nostro corso. Ci troviamo dinanzi al compito di destare uno stato d’animo fondamentale del nostro filosofare. Gli stati d’animo sono qualcosa che non può venir constatato in una maniera universalmente valida, come un dato di fatto che possiamo mostrare a chiunque. Non solo uno stato d’animo non può venir constatato, ma non deve venir constatato neppure se fosse possibile farlo. Perché se lo constato, questo stato d’animo cessa, diventa un’altra cosa. Ricordate quello che diceva prima e che abbiamo ripreso anche rispetto a Freud. Per Freud era esattamente il motivo per cui faceva tutte le cose che faceva, e cioè se io rendo consapevole qualcosa che non lo è, allora perde di potenza, forza. Infatti ogni constatare è un portare-alla-coscienza. Ogni render-cosciente significa, in riferimento allo stato d’animo, distruggerlo, o comunque alterarlo, mentre per noi, nel destare uno stato d’animo, è necessario lasciare che tale stato d’animo sia così come, in quanto tale, dev’essere. Il destare è un lasciar-essere lo stato d’animo, il quale, se per il momento possiamo usare questa immagine rifacendoci all’uso linguistico, evidentemente prima dormiva. In un certo senso lo stato d’animo c’è e non c’è. Qui pone una questione complessa, proprio rispetto alla psicoanalisi e a Freud. Ciò che ci sta dicendo Heidegger è esattamente il contrario di ciò che ci dice Freud, cioè, quello che voleva fare Heidegger era esattamente il contrario di ciò che voleva fare Freud.

Intervento: Come se volesse creare un’inquietudine, che è quella che spinge all’interrogazione.

Esattamente. Anche Verdiglione, in effetti, si è avvicinato alla questione senza tematizzarla, senza problematizzarla e pensarla, come fa Heidegger. Quando Verdiglione diceva che non si trattava di togliere il sintomo, di sbarazzarsi del sintomo, perché il sintomo è la risorsa. L’idea di togliere il sintomo è un’idea medicale, vede il sintomo come malattia da togliere, per rendere tutti un po’ beoti, che stanno lì tranquilli, pacifici e sereni. Ponendo il sintomo come risorsa, invece, è qualche cosa che, potremmo dire, occorre coltivare, occorre lasciar parlare, occorre pensare ancora. Quindi, Heidegger compie un’operazione che a mio parere è interessante perché, capovolgendo l’operazione che voleva fare Freud, trasforma il sintomo, ciò che per Freud era qualcosa da eliminare, in una risorsa da utilizzare per pensare. A pag. 89, § 17. Caratterizzazione provvisoria del fenomeno dello stato d’animo: stato d’animo come maniera fondamentale dell’esserci, come ciò che dà all’esserci consistenza e possibilità. Destare lo stato d’animo come afferrare l’esser-ci in quanto esser-ci. Già nel sottotitolo ci dice qual è la questione: Destare lo stato d’animo come afferrare l’esser-ci in quanto esser-ci. Lo stato d’animo è ciò che mi consente di afferrare l’esser-ci in quanto esser-ci. Una persona con la quale stiamo in compagnia viene colta da tristezza. Dipende unicamente dal fatto che questa persona è in una situazione di esperienza vissuta in cui non ci troviamo, e quanto al resto rimane tutto come prima? Oppure cosa accade? La persona divenuta triste si chiude, diviene inaccessibile, pur senza mostrare durezza nei nostri confronti. Soltanto questo: diviene inaccessibile. Eppure stiamo insieme a lei come al solito, magari ancor più di frequente, e siamo nei suoi confronti ancor più gentili; anche lei non cambia nulla nel suo comportamento verso le cose e verso di noi. Tutto è come sempre, eppure diverso, e non soltanto sotto questo o quel punto di vista, bensì, ferma restando l’identità di ciò che facciamo e per cui ci adoperiamo, il come stiamo insieme è diverso. Ma ciò non è un fenomeno provocato dallo stato d’animo della tristezza che è presente in lei, bensì è parte del suo esser-triste. Questa che si fa è una domanda importante. Cosa vuol dire che quella persona in tale stato d’animo è inaccessibile? Il modo e la maniera in cui possiamo essere con lei e lei con noi è un altro. La tristezza è ciò che esprime questo “modo” di essere insieme. Quella persona ci introduce nel modo in cui è, senza che noi stessi dobbiamo necessariamente essere tristi. L’essere-assieme, il nostro esser-ci, è un altro, è mutato nel suo esser-disposto. Sta dicendo che una persona triste non è che ci rende tristi automaticamente, può accadere, ma non necessariamente, però è come se ci inserisse in qualche modo nel suo mondo, nel mondo del suo esser-ci in quel momento. Osservando più da vicino tale connessione, della quale ora non ci occuperemo più oltre, si rivela che lo stato d’animo non è dentro una qualche anima dell’altro e tantomeno lì accanto alla nostra, tanto che dobbiamo piuttosto dire e diciamo: questo stato d’animo si posa su tutto, non è affatto “dentro” un’interiorità, per apparire soltanto nello sguardo degli occhi, ma proprio per questo è altrettanto poco al di fuori. Dove e com’è allora? Questo stato d’animo, la tristezza, è qualcosa in riferimento al quale possiamo domandarci dov’è e com’è? Lo stato d’animo non è un ente che si presenta nell’anima come esperienza vissuta, bensì è il “modo” del nostro esser-ci-assieme. Tutto questo solo per dire che la tonalità affettiva dello stato d’animo non è qualcosa che si appiccica alla persona ma è un modo di esser-ci, o più propriamente, un modo dell’esser-ci. A pag. 91. Viene alla luce il fatto che gli stati d’animo non sono qualcosa di solamente sussistente, bensì un modo e una maniera fondamentale dell’essere, e precisamente dell’esser-ci, e ciò implica immediatamente l’essere-assieme. Sono maniere dell’esser-ci e in quanto tali dell’esser-via. Esser-via: allontanamento dall’esser-ci, anche se questo allontanamento dall’esser-ci prevede l’esser-ci. Uno stato d’animo è una maniera, non semplicemente una forma o un modo, ma una maniera nel senso di una melodia, la quale non fluttua al di sopra del presunto sussistere autentico dell’uomo, bensì dà il tono a questo essere, cioè dispone e determina il modo e il “modo” del suo essere. Una persona, dicevamo, è sempre e comunque presa nelle sue fantasie e non ha modo di uscirne, perché le fantasie sono il modo con cui vede il mondo. Potremmo dire così, con Heidegger: la fantasia è la tonalità emotiva con cui vedo il mondo, ma il mondo di cui sono fatto, non la realtà esterna. La fantasia mostra il mio stato d’animo nel quale io vedo il mondo, mi racconto il mondo. Mi rapporto sempre in qualche modo al mondo, non posso non rapportarmi in qualche modo, e questo lo diceva già in Essere e tempo: io sono sempre in un progetto, voglio sempre fare qualcosa, sono sempre in relazione con un utilizzabile, qualunque cosa sia, anche il pensiero è un utilizzabile. Ci sta dicendo che non c’è possibilità di uscire dalle fantasie e che sono le fantasie a determinare questa tonalità emotiva. Heidegger non dice soltanto che è la tonalità che mi fa vedere le cose in un certo modo, cosa che dicono tutti; no, è la tonalità emotiva che mi consente di vedere, cioè io vedo perché c’è una tonalità emotiva, perché c’è una fantasia, se vogliamo dirla tutta, perché sono in un progetto. La tonalità emotiva per Heidegger non determina il modo in cui io vedo le cose ma determina la possibilità di vedere le cose; il mio stato d’animo, il mio umore, è questo che mi fa vedere le cose.