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23-4-1998

 

Lettura di un brano di una lettera di Wittgenstein su Heidegger.

 

Qui Wittgenstein dà una sua definizione di etica e cioè esattamente come “l’avventarsi contro i limiti del linguaggio”. Così dice e in un certo senso non ha tutti i torti, però fino ad un certo punto dal momento che tutto ciò che si intende comunemente con etica ha a che fare con i valori, con l’essere in definitiva, con la possibilità di stabilire ciò che occorre che sia. Ma Wittgenstein probabilmente, tenendo conto di tutto ciò che è stato detto intorno all’etica, constata che lo sforzo immane, compiuto da chiunque abbia inteso occuparsi di etica, è stato sempre quello di trovare un limite, il limite rispetto per esempio alla nozione di bene o di vero e quindi in definitiva di essere, urtando lì come si diceva, contro il limite del linguaggio. In che senso? Questa ricerca verte necessariamente intorno alla possibilità di reperire quell’elemento fuori dal linguaggio che possa, lui solo, garantire di ciò che è bene, dell’essere, della verità, ecc. Ora, posta in questi termini, la questione dell’etica manifesta un aspetto un po’ più interessante, perché noi, parafrasando Wittgenstein, potremmo per esempio dire che l’etica è ciò che afferma che non c’è uscita dal linguaggio anziché dire che è “l’avventarsi contro il limite del linguaggio”, operazione votata al fallimento, in questo caso l’etica sarebbe il fallimento stesso, per definizione. Per dirla così in termini forse un po’ rozzi, attenersi a un etica è questo: non potere non considerare l’impossibilità di uscire dal linguaggio, con tutto ciò che questo comporta, ovviamente. Ciò che comporta è essenzialmente questo, che qualunque affermazione, qualunque proposizione costruita o costruibile, è una proposizione, un atto linguistico, tutto ciò che mi circonda, tutto ciò che io considero esistente è un atto linguistico: questo comporta l’etica. Ora, proviamo a considerare bene, portandola alle estreme conseguenze, questa definizione che vi ho proposta, parafrasando un po’ Wittgenstein, l’etica come la constatazione, il prendere atto che non c’è uscita possibile dal linguaggio. È una definizione, ovviamente, come tale quindi sempre discutibile, però procede da un’altra considerazione e cioè la occorrenza di potere comunque utilizzare un significante come etica. Che cosa dell’etica non può non dirsi, in definitiva, per potere continuare a utilizzare questo termine: possiamo non dire che riguarda il bene? E, quindi, se riguarda il bene, riguarda anche ciò che gli umani, come voleva Aristotele, necessariamente perseguono, appunto il bene. Secondo Aristotele il fine degli umani non è altro che perseguire il bene, quindi posta così l’etica sarebbe il fine a cui gli umani tendono necessariamente. Possiamo anche dire che l’etica ha un carattere di necessità o quanto meno sottolinea che il fatto che non ci sia uscita dal linguaggio diventa necessario. Ora, mi sono trovato a riflettere in che cosa consista per esempio l’etica nella psicanalisi, visto che anche altri se ne sono occupati, tenendo conto appunto dell’etica come l’impossibilità di uscire dal linguaggio. Considerando questo, mi sono trovato a considerare in effetti qualcosa di non marginale rispetto alla psicanalisi che possiamo porla qui come etica. Martedì in libreria ho accennato ad alcune cose intorno all’analista, a ciò che avviene anche lungo l’analisi, ma è possibile porre le cose in termini ancora più estremi. Si diceva che una psicanalisi correntemente funziona a una condizione, che gli stessi analisti pongono, e cioè che ci sia la fede nell’analista. In effetti, ciascuna religione chiede questo, la fede; soltanto a questa condizione la religione funziona, che ci sia la fede, lo sanno tutti, anche il papa lo sa... Dunque, la condizione è che ci sia la fede. Allora in questo caso l’operazione è prettamente ed esclusivamente religiosa, “tu mi dai la fede, io in cambio ti do la verità” che poi si tramuta a seconda delle epoche, in benessere, in felicità, in serenità, tutto quello che si vuole, questo è lo scambio che avviene, religiosamente. Vedete, Freud ha pensato alcune cose, ha considerato che per esempio alcuni disturbi procedessero dalla produzione, dalla creazione di una serie di fantasie e che, una volta individuate queste fantasie, sarebbe stato possibile togliere il disturbo. Faccio un esempio: poniamo che una persona si muova in un certo modo e abbia tutta una serie di problemi a causa di una scena che immagina. Ora, l’idea era questa che, reperendo e conosciuti i termini della scena, il sintomo si dissolvesse. Non è così sicuro che sia proprio così, anche la psicanalisi è sempre scivolata su una questione tutt’altro che marginale, che riguarda proprio la conoscenza, e cioè si immagina che una persona lungo un’analisi venga a sapere tutta una serie di cose e che quindi conoscendole queste cose dissolvano il suo disagio. Ma se si trattasse solo di questo probabilmente una psicanalisi terminerebbe molto rapidamente, si tratterebbe soltanto di fornire informazioni. L’eventualità su cui sto riflettendo è che questo effetto di benessere non proceda affatto dalla conoscenza di questioni connesse con la propria storia ma con l’idea di avere acquisita una verità, esattamente come avviene in una religione, è l’idea di conoscere la verità che ha effetto terapeutico, ed è ciò su cui si fonda ciascuna religione, nessuna religione si pone come falsa, sarebbe una contraddizione in termini, quindi si pone come necessariamente vera. Ora, si tratta di riflettere su varie questioni, la prima è perché in effetti l’idea di possedere la verità costituisca una sorta di effetto benefico, la seconda è perché effettivamente la conoscenza, la semplice conoscenza di questioni che riguardano la propria storia, la propria fantasia, non ha invece effetti terapeutici di per sé a meno che non sia accompagnato da quest’altro elemento. Questione tutt’altro che semplice da approcciare, anche tenendo conto del fatto che i criteri che ci muovono lungo questa ricerca sono molto rigidi, ci vietano di costruire proposizioni assolutamente arbitrarie se non tenendo conto che sono tali. Muoversi in questo campo tenendo conto di questi criteri non è semplice e in ogni caso riguarda la questione etica propriamente, nei termini molto precisi, molto radicali, non soltanto l’etica della psicanalisi ma l’etica in generale, nell’accezione che abbiamo indicata, e cioè come la considerazione che non c’è uscita dal linguaggio. Dunque, l’etica posta in questi termini appare una questione fondamentale perché si tratta a questo punto di mettere in gioco non soltanto ciò che fa una psicanalisi ma ciò che fa ciascuno, ciò che fa ciascuna dottrina in linea di massima o, perché no? come voleva Aristotele, ciò che costituisce il fine degli umani, in una accezione un po’ particolare, nel senso che in questo caso ciò che costituisce il fine degli umani è... Qual è il fine degli umani? Se io dicessi che è parlare?

 

Interventi:…

 

Il fine per Aristotele è il bene, poi c’è anche questo aspetto, ma per i greci, il fine ultimo degli umani è il raggiungimento del bene, poi c’è anche questo aspetto... ma sia come sia, si tratta di stabilire intanto che cosa sia il fine.

 

Intervento:…

 

Sì, ma ci sono definizioni più radicali...un qualche cosa che necessariamente sia il fine anche può sembrare paradossale....(....) un fine assoluto come ciò che non può non essere (....) supponiamo che io affermi che la condizione degli umani è il linguaggio, il loro fine la parola, e che definisca qui la parola come l’esecuzione del linguaggio, cosa avreste da obiettare così di primo acchito? Alcune obiezioni immediatamente....

 

- Intervento: Come si fa a distinguere il linguaggio dalla parola?

 

Non stiamo cercando ciò che è sufficiente ma ciò che è necessario, ciò che è necessario che sia, non ciò che è sufficiente...(...) Se poniamo il fine come ciò cui gli umani tendono, allora la questione è se si dia qualche cosa a cui necessariamente tendano oppure no, cioè qualcosa a cui non possano non tendere. Forse, la questione va posta in questi termini. Prima dicevo del linguaggio e della parola, poi è stato chiesto di distinguerli: un conto è distinguere per una elaborazione a scopo teoretico, altro è immaginare che siano scindibili. Come per esempio dicevamo tempo fa rispetto alla logica e retorica, la logica come procedura linguistica, la retorica come regola, ovvio che non può darsi una procedura senza delle regole che la pongano in atto e viceversa, non c’è una regola senza delle procedure che ne costituiscano per così dire il fondamento, non c’è il software senza l’hardware, così come l’hardware senza il software non funzionerebbe. Ora, possiamo ben dire che il linguaggio senza la sua esecuzione non può esistere. Ma l’esecuzione senza il linguaggio, cosa esegue? Non esegue niente. Tuttavia, possiamo distinguere questi due elementi per uso teoretico indicando con l’uno il linguaggio, la struttura che consente la parola, cioè un’esecuzione di qualche cosa, mentre con la parola unicamente ciò che esegue una struttura, anche perché la parola, questa esecuzione, può compiere operazioni che il linguaggio gli consente e porre interrogazioni per esempio intorno al linguaggio, porsi domande intorno al linguaggio, parlare del linguaggio. In questo possiamo ravvisare la possibilità di distinguerli. Certo, sono questioni su cui occorre riflettere, anche per le eventuali possibili implicazioni, però se tutto questo nel prosieguo si mostrerà necessario allora saremmo effettivamente indotti ad affermare che il linguaggio è la condizione della parola e il fine in quanto è ciò cui “naturalmente” gli umani tendono o, più propriamente, ciò a cui non possono non tendere, cioè non possono non parlare. Questo in una prima approssimazione, è chiaro che la riflessione occorrerà che verta intorno a tutte le implicazioni perché possono esserci implicazioni che negano per esempio questa affermazione, può accadere, e che quindi la rendono non utilizzabile. Nell’ambito del percorso teorico che stiamo facendo, se invece constatiamo che nulla può negarla allora è utilizzabile, allora se questa affermazione che ho fatta, che il linguaggio, poi in definitiva la parola è necessaria, allora può essere utilizzata per costruire altre proposizioni, nell’ambito teoretico ovviamente, se no non serve a niente, se Roberto trovasse una proposizione che la nega, allora la renderebbe non utilizzabile...

 

Intervento:

 

Per rispondere occorre che lei mi dica come distingue il senso dal significato, perché se inteso in un certo modo ciò che lei pensa è corretto, in un altro un po’ meno.

 

Intervento:…

 

No, il linguaggio è la condizione per potere dare un senso, non lo dà. Il linguaggio, nelle accezioni che abbiamo indicate, è soltanto una struttura che consente delle operazioni e ne impedisce delle altre, impedisce soltanto di uscirne praticamente. Le operazioni che consente sono infinite ma la produzione del senso come lei dice attiene propriamente in questo caso alla retorica. Certo, produce un senso ma per quanto riguarda il linguaggio e la sua struttura e quindi la logica, in definitiva, consente soltanto la possibilità del senso, non dice assolutamente quale, è assolutamente indifferente, cioè dice che per esempio se c’è un antecedente c’è necessariamente un conseguente, ma quale sia l’antecedente e quale sia il conseguente non ha nessun rilievo...

 

- Intervento: Potrei fare assolutamente il discorso inverso.

 

Fallo!

 

- Intervento: La parola è la condizione essenziale del linguaggio....

 

Sì, la tua obiezione è legittima. In effetti, io ho operato questa distinzione fra il linguaggio e la parola unicamente a scopo funzionale e descrittivo. Puoi fare chiaramente il discorso inverso, dicendo che la parola è la struttura e il linguaggio è la sua esecuzione, molto semplicemente. Chiaro, nessuno potrà obiettarti nulla in quanto tu decidi in questo caso qual è il senso che fornisce un significante, certo. A questo punto potremmo dire che la condizione e il fine rimane il linguaggio ma per comodità distinguiamo fra linguaggio e la sua esecuzione e abbiamo deciso, sì, di chiamare con il significante linguaggio la struttura e in questo, se il linguaggio è la struttura, allora è uno, non ce ne sono più di uno, la struttura è unica, in questo caso se indicassi con il significante “parola” la struttura, allora la parola sarebbe una... (....) Il linguaggio come struttura, dicevo prima, come quell’insieme di procedure, per questo non ci sono molti linguaggi, il linguaggio è uno solo, molto semplicemente quella struttura che consente la parola, le parole, ad esempio. E’ uno il linguaggio perché le procedure di cui si avvale non possono variare, per essere un altro linguaggio dovrebbe avere altre procedure dove occorrerebbe che funzionasse però in un altro modo, ma se queste procedure funzionassero in un altro modo il linguaggio sarebbe un altro, cioè non sarebbe più quello che stiamo utilizzando e che ci consente di fare queste considerazioni. Per questo io dico che il linguaggio è uno, è una struttura, e che non ci sono molti linguaggi. Prendete il principio di non contraddizione, non è che ce ne siano molti, se affermo una cosa non la posso negare, salvo come abbiamo detto un migliaio di volte, in ambito retorico, per poterlo fare occorre che quella sia una invariante e questa procedura non può variarsi salvo variare il linguaggio stesso, cioè cambia completamente la struttura....(Variare il linguaggio…) Sì, certo, possiamo proprio porla come domanda retorica e fare un procedimento inverso, supponiamo che ci sia un altro linguaggio, quindi con struttura diversa, dove funzionano altre procedure, quindi non più il principio di non contraddizione, non procedure linguistiche ma altre. Allora noi per poterlo utilizzare dovremmo essere presi in questa struttura, ma a questo punto noi penseremo unicamente attraverso quel linguaggio perché non potremmo uscirne e quindi quello che utilizziamo adesso sarebbe totalmente sconosciuto e inaccessibile, un ragionamento per assurdo... sì già il motore immoto lo definimmo...

Allora la questione dell’etica. A questo punto comincia a configurasi in modo molto più preciso e in termini sicuramente e radicalmente differenti da come avviene generalmente descritta. Ma, ecco, dicevamo del linguaggio e della parola. Fare il discorso capovolto, come fai tu Roberto, ci condurrebbe a questa difficoltà, che è una difficoltà puramente descrittiva, certo, ritrovarci nella necessità di dovere indicare con la parola un qualcosa di unico, necessariamente unico. Però, a questo punto, ci troveremmo costretti a ridefinire la parola...(...) Certo, se ci mettessimo a ridefinire la parola, forse appesantirebbe soltanto tutta l’operazione senza portarci nessun vantaggio di rilievo, così come se mai decidessimo di stabilire che chiamiamo “logica” la retorica e “retorica” la logica, allora tutto il discorso verrebbe capovolto ma non so se trarremo un grosso vantaggio con questa operazione. Certo, la definizione che do di parola è assolutamente arbitraria, non è necessaria, ha un uso descrittivo, prettamente funzionale a ciò che vogliamo fare, d’altra parte siamo costretti ad un certo punto ad indicare che cosa intendiamo con significante pena la totale incomprensione, come il fatto che decido di parlare italiano anziché coreano, se parlassi il coreano non capireste, tanto nessuno capisce... E invece Wittgenstein cosa direbbe a questo riguardo?

 

- Intervento: sul sapere...

 

Posta come la pone lui la cosa in effetti è bizzarra, perché dice che della certezza non c’è nessun fondamento e al tempo stesso non posso non utilizzarla.(....) Lei provi a muovere un obiezione a Wittgenstein tenendo conto di ciò che abbiamo detto, partire dalla certezza che non è fondabile e tuttavia necessaria per parlare, (...) Sì, Wittgenstein è contraddittorio in effetti, che lui se ne accorga oppure no adesso è difficile a dire, sicuramente ravvisa in qualche modo il problema che incontra, perché se, come dice giustamente Roberto, la condizione per poter parlare è che ci siano queste certezze e cioè che io dia per acquisito man mano che parlo tutta una serie di cose, ché se non lo facessi non potrei parlare, allora la certezza qui è necessaria, la pone come necessaria, in quanto senza la certezza non c’è più niente. Solo che se questa certezza è necessaria, questa stessa necessità è il fondamento. Quale altro fondamento dovremmo cercare? Allora, la necessità della certezza è il suo fondamento, in quanto non può non essere, anzi è il fondamento più fondato...(...) Sì, ogni volta che parla per il solo fatto che parli utilizza necessariamente questa certezza, quindi sono già fondate nel momento stesso in cui lei cerca di confutarle queste operazioni...

 

- Intervento: Se invece di certezza parlo di assunzione?

 

Dipende se viene utilizzata nella stessa accezione il discorso non cambia... (....) Io assumo che una certa cosa sia in un modo potrei non farlo? (Dipende dall’uso che do di questo significante…) Se io non facendo questa assunzione non posso più parlare allora non farei questa operazione (...) Sì, ho inteso ma è un po’ diversa la questione, cioè cogliere la contraddizione nel discorso di Wittgenstein, che questa certezza di cui parla non è fondabile e quindi potremmo dire che non è necessaria....