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23 marzo 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 583. Siamo al problema dell’τερον. È questo il problema che Platone deve risolvere: mostrare che il λόγος può essere λόγος ψευδός, discorso falso, in modo da potere attribuire questa falsità del discorso all’opera dei sofisti, i sofisti dicono falsità o, più propriamente, utilizzano la possibilità del discorso falso per ingannare gli ingannabili. Per fare questo non hanno di mira l’ente in quanto tale, perché l’ente in quanto tale, così come lo immaginava, sperava Platone, è quello che è, quindi, non mente. Ma qui – e lo vedremo, anche se non è molto preciso perché gli sfugge un po’ la questione – ma se l’ente è λόγος allora il λόγος è fatto di tante cose, nel senso che se l’ente lo determino già è un’altra cosa; quindi, o l’ente è fuori del λόγος, e allora non è niente, oppure è nel λόγος e allora quell’ente è altro da sé. Questo è un problema che non ha soluzione per Platone, ovviamente. Ma adesso vedremo come procede. La trattazione dialettica fondamentale non è nient’altro che la preliminare indicazione della παρουσία del μή ν nel λόγος. Quindi, la dialettica deve mostrare (παρουσία) il non-ente nel λόγος. Qui κίνησις non è una nozione generica, bensì è il titolo a priori per ψυχή, λόγος, e precisamente nel senso del μεταζύ (qualcosa che è in mezzo, tra), benché non chiarito. Se dunque è la κίνησις il tema della trattazione dialettica… Perché per lui questo movimento, questa κίνησις, doveva essere chiarita, questo movimento può essere pericoloso, perché se questo movimento lo attribuisco all’ente, se l’ente si muove, allora io non vedo più l’ente così com’è, per cui non so che cosa vedo; quindi, anche il movimento deve essere gestito. …allora questo tema altro non è che l’esistere umano, la vita stessa, in quanto essa si esprime e si rivolge al mondo in cui è. Probabilmente, anche la στσις non è un concetto qualsiasi, come mera opposizione formale rispetto alla κίνησις, bensì, a ben vedere, essa si rivela come la determinatezza a priori dell’ente stesso, precisamente come quella determinatezza che rende possibile in esso il suo essere scoperto da parte del λέγειν, ciò che rende possibile la conoscibilità. Qui si è trovato di fronte alla questione del linguaggio: occorre la κίνησις, il movimento, perché il λόγος è movimento, la comprensione è movimento. E di questo se ne accorge perfettamente: comprendere significa spostarmi da una cosa a un’altra. Ma questa cosa dalla quale mi sposto deve essere quella che è, deve essere nella στσις, in quiete, deve essere immobile; solo così, partendo da qualcosa di immobile, posso incominciare a muovermi, perché se non è in quiete allora non so se c’è movimento, non so più niente; quindi, deve essere un elemento stabile dal quale muovo verso qualche altra cosa e così attuo la conoscenza. Vedete subito come sono gli stessi termini ripresi poi da Hegel, l’in sé e il per sé: l’in sé come qualcosa che è fisso, che è lì ma che non c’è finché non c’è il per sé; è quando il per sé torna sull’in sé che allora l’in sé si mostra per quello che è. Infatti στσις non significa nient’altro che άεί ν, ciò che è sempre, il permanente, sicché ora, con un ulteriore sforzo interpretativo, non tradurremo più στσις con “quiete”, bensì con: “la permanenza”. E, infatti, deve permanere, deve essere qualche cosa che solo se permane è affidabile come punto di partenza, se non permane dove appoggio il piede? Sarebbe come poggiare il piede sull’acqua. Vedete, perciò, che in questa nozione di permanenza, del sempre, di fatto – anche se non esplicitamente, ma stando alle cose – affiora per Platone il fenomeno del tempo, come quel fenomeno che determina l’ente nel suo essere: il presente, παρουσίαLa παρουσία è, sì, certo, il mostrarsi però è anche il tempo presente, ciò che si mostra in questo momento: è questo ciò che a lui importa. …termine che spesso compare nella forma abbreviata di ούσία. Con Aristotele ούσία diventerà l’essere stesso: ciò che si mostra è l’essere. E il λέγειν, il dischiudere l’ente rivolgendosi a esso… Questa è un’altra “traduzione”, interpretazione di Heidegger. Il λέγειν è il discorso, però, qui lo pone come il dischiudere l’ente rivolgendosi a esso. Il discorso è questo: il dischiudere l’ente mentre mi rivolgo all’ente; ma è rivolgendomi all’ente che mi si dischiude; se non mi rivolgo all’ente non si dischiude niente. Naturalmente, c’è un passo successivo, che potrebbe farsi, e cioè che se non mi rivolgo all’ente dell’ente so nulla, quindi, potrei tranquillamente affermare che è nulla. …il dischiudere l’ente rivolgendosi a esso, non è nient’altro che il rendere-presente la visibilità dell’ente stesso e quindi questo stesso in ciò che esso è … C’è sempre il richiamo al vedere, c’è la necessità che il vedere costituisca la garanzia. Questo vedere è il crinale che distingue i sofisti dai dialettici: il sofista non vede, il dialettico basa tutto su ciò che vede e crede – questo è il punto fondamentale – in ciò che vede. …nel suo dischiudere presentificante, esso conduce il presente all’appropriazione. Cioè: è con il vedere che mi approprio delle cose. Si intende, allora, facilmente come, posto che il vedere è la condizione per potere appropriarsi delle cose, la condizione sia che il vedere veda esattamente la cosa così com’è, perché solo così me ne posso appropriare. Il sofista non vede quindi, non se ne appropria, ma è preso in un racconto incessante; mentre per Platone il vedere è la condizione dell’appropriazione e l’appropriazione è l’obiettivo, è il τέλος, il fine ultimo. È così il λόγος- e con esso l’uomo, il filosofo, il sofista, la suprema possibilità di esistenza – il tema di questo cavillare all’apparenza astratto. /…/ Se però άπάτης οσης (esseri che ingannano), allora tutto è necessariamente pieno di είδώλα, είκόνες, φαντασίαιSe l’essere stesso è ingannevole, allora per Platone ci sono solo idoli, simulacri, falsità. είδώλα: quegli elementi visibili che si limitano ad apparire-come, ma non sono ciò per cui si spacciano;… Questa è in fondo l’accusa che Platone rivolge ai sofisti: dicono cose ma queste cose che dicono non sono vere, non sono reali, non sono quelle che sono; solo la dialettica fa questo. φαντασίαι: inteso nel senso platonico, come φαίνεταί: ciò che si mostra, ciò che si limita ad apparire-come… Pertanto, l’ostensione della congiungibilità di λόγος e di τερον (del discorso e del diverso), cioè del λόγος ψευδής, conduce nel contempo alla possibilità di comprendere i fenomeni peculiari dell’είδώλον (simulacro), dell’είκών (immagine), della φαντασία (fantasia). Si tratta di un fenomeno enigmatico: qualcosa è in quanto ciò che al tempo stesso non è. Perché l’είκών, l’immagine, non è, perché l’immagine è sempre di qualche cos’altro, che invece è, ma anche l’immagine è; quindi, è ma anche non è. Adesso Platone ha raggiunto una comprensione di tale fenomeno, avendo con ciò fatto un passo avanti verso la comprensione ontologica dell’αίσθητόν (percepito) stesso. Bisogna abbandonare l’abitudine di inserire la filosofia platonica nell’orizzonte scolastico secondo cui Platone vedrebbe da una arte la sensibilità e dall’altra, come in un’altra cesta, il sovrasensibile. Egli ha visto il mondo in termini altrettanto elementari di come lo vediamo noi stessi, solo in maniera assai più originaria di noi. /…/ Adesso, sullo sfondo dell’indagine dialettica fondamentale, il tema è il λόγος. Tutto il lavoro, tutto il discorso di Platone lo ha condotto al λόγος, cioè, si è accorto che è lì che si gioca tutto e che è su questo che deve lavorare per riuscire a sbrogliare la situazione: il discorso può essere falso? Se sì, allora vuol dire che i sofisti sono ingannatori; se no, è un problema. Ma, parlando del λόγος succede che se pongo l’ente come λόγος, come discorso, allora muta continuamente, non è mai fermo, e allora come lo fermo questo ente, se è λόγος? Separando il λόγος vero da quello falso, solo tenendo questi separati lo fermo. Essa consente a Platone di cogliere per la prima volta concettualmente le strutture fondamentali di λόγος, νομα (nome), ῤᾖμα (verbo). Sono espressioni che Platone ha già usato in dialoghi precedenti, ad esempio nel Cratilo, dove tuttavia non ha ancora una comprensione vera e propria di νομα e ῤᾖμα, e soprattutto della loro συμπλοκή (unione). Anche in questo caso tra nome e verbo c’è una συμπλοκή, una unione. Anche in questo caso si tratta, quindi, per Platone di cercare di determinarli, mantenendoli sempre separati. Vedremo tra poco che non c’è possibilità di avere un nome senza un verbo, il nome senza il verbo è niente, dice niente, e il verbo senza il nome non sa di che parla. La domanda è dunque: come può il λόγος entrare in una possibile κοινωνία con il μή ὅν? Una riposta a tale quesito può venire solo evidenziando il λόγος stesso in ciò che è, e cioè conducendo un’analisi del λόγος, ovvero della δόξα, termini che Platone concepisce come identici l’uno all’altro, qualora tale analisi sia guidata da questa prospettiva: “se con essi possa essere congiunto il μή ὅν”. Sempre questa la sua idea. In precedenza ho evidenziato diversi modi di esprimere la κοινωνία /…/ Deve essere mostrato non solo e in generale che il μή ὅν può essere congiunto con il λόγος, ma che la stessa struttura fenomenica del λόγος implica la possibilità di congiungersi con il μή ὅν, ossia con lo τερον. La questione viene formulata anche in questi termini, se cioè sussista la congiungibilità o se ogni λέγειν sia già vero e possa essere vero in quanto λέγειν – come afferma Antistene -, vale a dire se a ogni λόγος possa essere congiunto l’ὅν presente in esso, e cioè – di contro allo τερον – il ταὐτον. È possibile congiungere l’τερον e il ταὐτον, il diverso con lo stesso? Il problema è sempre lo stesso, e cioè riuscire a potere affermare con certezza che ciò che vedo è quello che è: questo è l’obiettivo. Insomma, ora viene soltanto ridiscussa in termini assai più precisi la questione che era emersa già nel rifermento alla posizione di Antistene: se il λέγειν, nella sua funzione propria, sia identificazione oppure qualcos’altro, e qualora sia identificazione, se ciò che vi è chiamato in causa possa essere identificato unicamente con se stesso – “uomo è uomo” (posizione di Antistene) – oppure se vi sia anche identificazione dell’ente in riferimento alla sua δύναμις κοινωνίας (capacità di essere in relazione). Qui δύναμις non è tanto capacità; sì, è potenza, ma è potenza che vuole questo. L’analisi del λόγος può essere articolata in tre tappe: 1. L’esibizione della struttura fondamentale “onomatica” (che riguarda il nome) e “delotica” (che riguarda il δηλοῡν, il manifestarsi) del λέγειν. Devo scegliere questi termini, poiché nella nostra lingua non ne abbiamo di corrispondenti. Onomatica, nominante: il λέγειν come espressione linguistica. Delotica, da δηλοῡν: il λέγειν in quanto rende manifesto, fa vedere. Sono questioni alle quali la linguistica raramente approda, e cioè c’è l’espressione e il contenuto, così come li ha chiamati Hjelmslev. Nel corso di una trattazione unitaria viene dunque mostrato il discorso a) come espressione e b) come chiamare in causa le cose nel discutere, nel senso di scoprirle, δηλοῡν. Espressione e contenuto. Per quale motivo vengano presi insieme proprio questi due fenomeni del discorso, il pronunciare (l’essere pronunciato) e la funzione scoprente, si mostrerà in seguito. In effetti, l’espressione enuncia qualche cosa, ma non dice di che cosa si tratta propriamente; è la parola che si dice, ma se non c’è il che cosa si dice, il τί del λέγειν τί è niente. Questo τί, quel qualcosa che il dire dice, è di fatto ciò che è il dire. 2. La seconda parte dell’analisi è l’enunciazione della struttura del λεγόμενον (detto) in quanto λεγόμενον; in altre parole: l’elaborazione della costituzione dello stare allo scoperto di un ente, e questa si trova in ogni ente in quanto tale. Ogni λεγόμενον è δηλοῡμενον (ogni detto è qualcosa che si manifesta). Che struttura ha il λεγόμενον qua (in quanto) δηλοῡμενον? 3. La terza tappa è l’analisi dello stesso scoprire, quanto al come della sua possibilità. Questo è tipicamente teoretico. Si riflette al come della sua possibilità, si riflette sulla possibilità di alcune affermazioni, non sulle affermazioni in quanto tali che affermano cose su altre cose. Viene cioè chiesto ποῖος ό λόγος, di che tipo sia quello stesso λόγος, in riferimento a ciò che esso stesso è, ovvero in riferimento al δηλοῡν. Si sta interrogando su che cosa, di fatto, sia il λόγος, nella sua struttura proprio fondamentale. Bisogna tenere conto che per i Greci il λόγος non è un ente astratto, il λόγος è il discorrere, il parlare tra le persone, non è inteso, come oggi fa la linguistica, come qualcosa da trattare isolatamente. Come vedete qui il λόγος è descritto continuamente come relazione a qualche cosa, mentre la linguistica tende, tenta, di isolare il λόγος e analizzarlo al microscopio. Nella formulazione platonica: la pria tappa tratta del λόγος come πλέγμα (intreccio, plesso), come intreccio, termine che assume un duplice significato. Dunque, il λόγος come πλέγμα. Quindi, il λόγος è una relazione, è una serie di relazioni tra elementi: questo è il λόγος, il discorso, il linguaggio. La seconda tappa tratta del λόγος come λόγος τινός (discorso su qualche cosa)… Non è il λέγειν τί; il λέγειν τί è un dire qualcosa, il λόγος τινός è il discorso che parla di qualcosa di specifico - non è casuale il riferimento che fa lui a Husserl e alla intenzionalità -, il τινός sarebbe il “verso qualche cosa”, il rivolgersi a qualche cosa; mentre nel λέγειν τί il τί è soltanto il qualche cosa: se dico, dico qualcosa, mentre il λόγος τινός è un parlare verso qualcosa. …ogni discorso discorre di qualcosa. La terza tappa tratta del λόγος come ποῖος (come, modo), nel come del suo essere, cioè in riferimento al δηλοῡν. Nella prima e nella terza tappa diventa rilevante soprattutto quanto è stato fin qui raggiunto a proposito dell’ὅν nella trattazione fondamentale. Nella seconda tappa Platone s’imbatte in una nuova interconnessione fenomenica che nella prima tappa era già stata accennata, ma non fatta oggetto di analisi tematica esplicita; egli vede invero il fenomeno del λεγόμενον qua λεγόμενον (il detto in quanto detto), ma non lo penetra concettualmente /…/ La prima tappa dell’analisi platonica del λόγος ha dunque per tema l’esibizione del discorso come espressione… Lui incomincia a considerare il discorso, il λόγοςIl λόγος è il discorso, i Greci non hanno un termine per indicare il linguaggio, così come abbiamo noi; per il greco non esiste il linguaggio come entità astratta, ma c’è il λόγος, il dire, il discorso, il parlare, non c’è “il” linguaggio come entità astratta. La prima tappa dell’analisi platonica del λόγος ha dunque per tema l’esibizione del discorso come espressione – l’onomatico, ὄνομα – e come scoprire – il delotico, δηλοῡν. L’ostensione di questi due momenti strutturali, che sul piano fenomenico sono unitari, prende le mosse dall’onomatico. Cioè, prende le mosse dal nome, dall’espressione, da ciò che si dice. Comincio dicendo un nome ma, chiaramente, questo nome da solo non può stare. Il λέγειν di ogni discorso c’è anzitutto nell’esser-pronunciato, nell’espressione verbale parlata. Quest’ultima accade, mi si fa incontro all’interno dell’ente che vi è nel mondo. Questo era per il greco il discorso, il λόγος: qualcosa che accade continuamente nel dire, nel parlare. Fuori, in corridoio, si parla; allo stesso modo, il carro fa rumore sul selciato. Frastuono e parola accadono, sono riscontrabili come suono. Ma anche questo modo immediato di annunciarsi del λέγειν come sonorità non può essere inteso come se innanzitutto cogliessimo, sul piano fenomenico, un essere vivente che con la bocca produce rumori. Non è questo che si coglie quando si chiacchiera con qualcuno: uno apre bocca ed emette suoni strani, a meno che non parli una lingua sconosciuta; ma anche in quel caso comunque è una lingua e si presume che abbia un significato. Davidson parlava del principio di carità, cioè, si attribuisce all’interlocutore il fatto che comunque stia dicendo delle cose sensate, anche se non le comprende immediatamente. Al contrario: sin nel suo aspetto più immediato il λέγειν è compreso come un parlare, e anzi in primo luogo questo parlare è inteso come un discorrere gli uni con gli altri su qualcosa. L’espressione verbale non viene colta come rumore – questa è una costruzione puramente teorica – bensì primariamente come un parlare insieme di questo o quello. Senza fissare espressamente questo terreno fenomenico della datità primaria del parlare come “discorrere insieme di qualcosa”, Platone muove da questa modalità immediata con cui il discorso si presenta nel mondo, quella appunto del parlare. È così che nel mondo incontriamo il λέγειν, con il parlare. Non è un caso che in questo contesto Platone indichi una duplice molteplicità di forme, degli εἴδη (immagini) e dei γράμματα (lettere). Fra queste due molteplicità e quella degli όνόματα sussiste non solo una corrispondenza formale – nel senso che anche per gli όνόματα sarebbe possibile esibire una congiungibilità, come pure possibili modi eminenti di congiunzione – bensì: fra tali molteplicità di forme, εἴδη, όνόματα, γράμματα e persino l’έπιστητόν (certo), se vogliamo aggiungere anche questo, sussiste una intima interconnessione reale. Quello che sempre trova, nel tentativo di separare le cose, è una continua interconnessione: lui vuole separare e queste si riuniscono di nuovo. Negli όνόματα, nei λόγοι, gli εἴδη diventano visibili grazie alla κοινωνία del γιγνώσκειν (conoscere, manifestarsi), del δηλοῡν; e ciò che si fa visibile è νοητόν (conosciuto), έπιστητόν (certo). Gli stessi όνόματα, in cui diventa visibile l’εἶδος, sono dal canto loro una molteplicità di γράμματα. Dunque, la molteplicità di forme non sono ambiti isolati che si trovano gli uni accanto agli altri, bensì stanno essi stessi in un’intima, reale κοινωνία (relazione): la cosa, la sua visibilità, la parola, il ruolo verbale – ente, mondo carattere di apertura dell’ente, discorso, notificazione. Tutte queste cose appaiono tutte insieme, intrecciate in una relazione indissolubile. Di nient’altro si tratta che della interconnessione universale dei fenomeni all’interno dei quali l’uomo, lo ζῶον λόγον ἕχον, in generale è. Egli si fonda in ultima istanza nell’in-essere, nella preliminare manifestatività del mondo. L’in-essere è il Dasein, l’esser-ci, di cui parla Heidegger. Dunque, nell’in-essere, nella preliminare manifestatività del mondo: il mondo è ciò che preliminarmente si manifesta. Ma io sono fatto di questo mondo. Il mondo per i Greci è la συμπλοκή, l’unione incessante di relazioni continue e indissolubili. Questo è il mondo che mi si presenta: un sistema di relazioni, quella cosa che chiamiamo linguaggio, per il quale i Greci non avevano una parola, nonostante ne parlino continuamente; e, infatti, linguaggio è una parola latina. In questo senso del φαίνεται, φαίνόμενον, è usato il termine “fenomeno” nell’odierna fenomenologia. Fenomenologia non significa nient’altro che scoprire, esibire, rivolgendosi ad esso, l’ente, mostrantesi, nel come del suo mostrarsi, nel modo del su “esser-ci”. Il suo mostrarsi: il problema è come si mostra. Certo, possiamo dire che si mostra, ma chiaramente può mostrarsi soltanto in interconnessione, in relazione con altre cose. Questo è l’unico modo che ha per mostrarsi; l’unico modo per cui l’νομα sia tale, νομα, è che sia interconnesso con il ῤᾖμα, con il verbo, cioè, con il suo significato. Significante e significato, bisognerà aspettare duemilacinquecento anni con de Saussure per parlare di significante e significato e del segno, di questi due elementi che, sì, sono due perché li distinguiamo, ma in realtà sono il segno. La domanda verte ora sulla molteplicità degli όνόματα: “che aspetto ha ciò che propriamente dobbiamo percepire nel campo dell’espressione linguistica?”. A che cos’è che propriamente dobbiamo prestare ascolto? Colpisce – sul puro piano terminologico – che qui Platone adoperi l’espressione ύπακούειν (ascolto), mentre solitamente, come è uso presso i Greci, per il coglimento reale e diretto usa i termini πτεσθαι, όρᾶν. πτεσθαι e όρᾶν sono il vedere; qui, invece, introduce l’ascolto. E, in effetti, la parola non si vede. La parola deve fare vedere ma la parola in quanto tale non la vedo, la ascolto. Vediamo come prosegue. Qui, tuttavia, si tratta di un determinato fenomeno, il parlare, che è coglibile primariamente soltanto nell’ascoltare, πτεσθαι, όρᾶν, άκούειν hanno il carattere dell’αἴσθησις, del percepire, non quello del cogliere lungo la via del λογίζεσθαι (conoscenza). Qui si tratta del retto stare ad ascoltare la molteplicità delle parole dette, così da vedere che cosa sia in gioco in questa molteplicità dal punto di vista della loro κοινωνία (relazione). Ύπακούειν non significa affatto: sentire semplicemente suoni, ma propriamente: autentico percepire, capire il discorso. È questo l’ascoltare per il greco: non è sentire il rumore ma comprendere il discorso, cioè, comprende come queste cose che si dicono sono messe insieme. Quale fenomeno costituisce il loro essere-insieme? Quale stato di cose fenomenico, nell’essere-dette-in-sequenza, è il criterio per decidere che all’interno della molteplicità delle parole sussista una autentica κοινωνία? Cos’è che devo stare ad ascoltare per capire qual è la relazione che è in atto tra le parole? Vi è una κοινωνία fra όνόματα, fra parole nel senso più ampio, presente e operante, quando gli έφεξής ῤᾖμα sono δελώματα, cioè qualora il parlare, inteso come una determinata sequenza di parole, in se stessa, così com’è, fa vedere qualcosa, mostra qualcosa: σημαίνειν, σημεῖον (significato), l’aristotelico σημαντικός. Che cos’è, quindi, l’ascoltare per Platone? È capire in quale relazione sono le cose in modo che io possa vedere ciò che questa relazione mette davanti agli occhi, cioè, l’ascoltare è funzione del vedere. Qui il termine σημεῖον non può essere tradotto in senso generico e vuoto come “segno”; invece, σημεῖον è già interpretato in questo passo, già in questo contesto platonico, per mezzo del δηλοῡν, al quale si alterna;… Si alterna il segno con il δηλοῡν (manifesto). Il segno è ciò che rende manifesto, visibile. …ha dunque il senso del rendere manifesto, del far vedere. Aristotele direbbe: άποφαίνεσθαι (manifestazione). Qui insiste la questione del manifestare, del fare vedere, perché soltanto facendo vedere si persuade qualcuno, lo si convince: “lo vedi? Questo è un orologio. Lo vedi, non c’è altro da dire, che altro bisogna aggiungere”. Questo è il pensare teorico. La teoria è, sì, certo, fatta di dimostrazioni, ma tutte queste dimostrazioni, a loro volta, non fanno altro che affermare cose su cose, non c’è un pensare teoretico. E il fare vedere elimina il pensare teoretico, si limita al pensare teorico, cioè ad affermare cose, a farle vedere, a mostrarle; mentre, sapete bene che il sofista non fa questo, il sofista, non vede, vuole chiedere conto delle cose che gli si dice di vedere. Pertanto, a rigore, non è corretto istituire, come si fa in genere, una qualche interconnessione fra il significare, il rendere manifesto qualcosa, e il fenomeno del segno. Anche Husserl, che in tempi recenti è tornato per la prima volta a imbattersi nei fenomeni del significato, ha posto questa idea di segno alla base dell’analisi del significato e del suo rapporto con il suono verbale, richiamandosi in ciò a Stuart Mill. Il criterio dell’esistere delle parole nell’unitarietà del discorso è il loro carattere di apertura. Le parole hanno un’autentica δύναμις κοινωνίας in quanto δελώματα, “manifestanti”,… Hanno questa possibilità di relazione, ma è una possibilità che non può non compiersi. Quindi, le parole hanno questa, potremmo dire, necessità di manifestarsi …l’ente, “in quanto mostranti nell’ambito della presenza”, del possibile “ci” suscettibile di essere esibito, insomma di ciò che è lì presente, e per la precisione τή φωνή, passando “attraverso l’espressione verbale”. Ciò non deve essere interpretato nel senso che sia la φωνή stessa a mostrare, come se il suono verbale fosse già di per sé un segno della cosa; la φωνή è invece solo un momento strutturale, investito nella comunicazione parlante nel senso del pronunciarsi su qualcosa con qualcun altro, ma da sola essa non possiede come tale la funzione del δηλοῡν. Non mostra niente. Ciò che mostra è il significato, ciò che mostra è la relazione. La φωνή da sola, la parola pronunciata da sola… È chiaro che se io dico una parola ciascuno conosce il significato di quella parola, ma bisogna tenere conto di come pensava Platone. Lui cercava di cogliere la struttura più intima del funzionamento del linguaggio, potremmo dire oggi. Quindi, il dire, senza il ciò che il dire dice, non c’è, è niente: il λέγειν senza il τί non c’è, è niente. La molteplicità degli όνόματαόνόματα sono i nomi ma possiamo intendere questo termine anche con “parole”. …è dunque determinata a partire dal δηλοῡν (manifesto)… Perché qualche cosa si manifesta, perché io possa far vedere qualche cosa, devo determinare questo qualche cosa. …ma con ciò, in realtà, dal δηλοῡμενον, dall’ente stesso che dev’essere esibito. /…/ bisogna reperire insomma il δεσμός (legame), i momenti strutturali che non possono mancare affinché in generale vi possa essere una κοινωνία (relazione) capace di esibire le cose. Qui si sta chiedendo: c’è la relazione, ma che cos’è che occorre che sia presente perché la relazione possa esibire le cose, possa esibire ciò di cui è relazione? È un tratto caratteristico, questo, e segnala che la considerazione della lingua da parte dei Greci, la loro comprensione del parlare, non era ancora così degradata come lo è invece la nostra trattazione moderna e contemporanea del linguaggio, che muove anzitutto dalla φωνή, e vede essenzialmente il primo a partire dalla seconda. I Greci concepivano invece fin da principio il linguaggio come discorso, ed è con lo sguardo rivolto a questo che affrontavano le questioni “linguistiche”. Un discorso, cioè, un parlare tra persone dove le parole sono in relazione tra loro e mostrano cose. La domanda qui è la seguente: come possono essere distinti l’uno dall’altro όνομα e ῤᾖμα? Lui si fa questa domanda: come è possibile distinguere il nome dal verbo – è un modo un po’ approssimativo di tradurre - potremmo dire: “la parola dal suo significato?”. Entro quale prospettiva si ottiene un criterio per operare tale distinzione? Come si è già accennato: Platone perviene a tale distinzione a partire dal λεγόμενον (detto) in quanto δηλοῡμενον (manifesto)… Il detto manifesta qualcosa. Όνομα e ῤᾖμα sono e forme primarie entro cui viene detto l’ente come tale. Soggetto e verbo, direbbe oggi la linguistica, sono quelle cose che servono a mostrare l’ente. L’όνομα è il δήλωμα del πρᾶγμα (il manifestarsi della cosa), il ῤᾖμα è il δήλωμα della πρᾶξις (il manifestarsi dell’agire). Quindi c’è la cosa, il πρᾶγμα, e c’è l’agire, il movimento, il fare, la πρᾶξις. Lui ci sta dicendo che la cosa è strettamente legata al fare, al movimento, perché la cosa in sé, se non determinata, se non è significata, è nulla; quindi, ci vuole l’agire, il fare, il determinare; il pensare è pur sempre un fare. Quindi, è questo fare che determina la cosa, il πρᾶγμα, che poi è l’ente. Nell’όνομα viene scoperto e mostrato ciò di cui si tratta, e il ῤᾖμα coincide con questo stesso trattarne. Bisogna lasciare questi termini nella loro tendenza indeterminata. È assai difficile tradurli così come Platone li intende qui. In ogni caso, non si può tradurli con “sostantivo” e “verbo”, appunto perché Platone non aveva ancora trovato la distinzione tra sostantivo e verbo, sebbene egli certo ne conosca la differenza. La nozione di “sostantivo” è matura dall’aristotelico ύποκείμενον: la categoria grammaticale di “sostantivo” riconduce a quella ontologica di ύποκείμενον. Lo ύποκείμενον fu scoperto soltanto da Aristotele, in connessione con la sua scoperta della κίνησις, e cioè: sul terreno di una nuova fondazione della questione dell’essere a partire dalla κίνησις. Nel caso di Aristotele si tratta di una vera e propria versione compiuta di quanto Platone già intravedeva: che nella κίνησις, nel κίνούμενον (mosso), vi è qualcosa come uno ύποκείμενον. Se qualcosa si muove, questo qualcosa chi è? Nel fenomeno del κίνούμενον (mosso) Aristotele vide dunque per la prima volta che nel movimento si dà qualcosa che permane, che ha στάσις, che “c’è” sempre già sin da principio. Se qualcosa è mosso vuole dire che prima non lo era, cioè c’era la στάσις, la quiete. In questa direzione – quella di ciò che, fin da principio, sempre e costantemente già “c’è” e permane – procede anche il senso di πρᾶγμα in Platone. La cosa, il πρᾶγμα, è ciò che c’è, che permane. E la πρᾶξις è quel movimento che consente di determinare il πρᾶγμα in quanto cosa. Potremmo anche aggiungere che è la πρᾶξις che consente di potere determinare il πρᾶγμα in quanto πρᾶγμα, in quanto cosa. Ma egli non giunge ancora a un tale grado di chiarimento, in quato non ha già presenti le caratteristiche necessarie per la fissazione concettuale, che poi sono state determinate da Aristotele: l’όνομα come ἄνευ κρόνου (senza tempo) e il ῤᾖμα come προσσημαίνον κρόνου (qualcosa che è provvisto di tempo). Nell’όνομα viene mostrato qualcosa… Occorre dire che qui è implicita tutta la linguistica fino ai giorni nostri. È chiaro che Platone usa altre parole, non usa i termini che usa la linguistica, ma lui è preso nel discorso, vuole capire come funziona il discorso, cosa succede quando si parla. E qui porre l’όνομα, il nome, la parola, la cosa senza tempo, come qualcosa che è fisso, e invece il ῤᾖμα come ciò che muove, è tutto ciò su cui si è basata la linguistica fino ad oggi: c’è l’espressione e c’è il contenuto, c’è la forma e la materia, c’è questo dualismo che continua sempre, perché tutti quanti, in un modo o nell’altro, si sono accorti che ci sono l’uno e i molti – Parmenide – e la questione è rimasta tale e quale. E rimane tale e quale anche in Platone, perché lui non giunge a nessuna soluzione. Dirà alla fine, nella penultima pagina, che ha risolto il problema, ma in realtà non ha risolto proprio niente. Ma lo vedremo nel dettaglio. Nell’όνομα viene mostrato qualcosa, senza che sia esplicitata la modalità della sua presenza, del suo esser-presente. È senza tempo, è la cosa, è lì, ma senza determinazione. Qual è il problema sempre? Che posso determinare qualcosa soltanto con l’indeterminato; posso fissare il finito solo con l’infinito. Questo è il “problema”, tra virgolette perché non è il problema come impiccio, come difficoltà, ma è heideggerianamente come ciò che è da pensare, che ancora è da pensare, e cioè il fatto che per determinare un qualche cosa lo devo determinare con un significato, cioè con l’indeterminato. Il determinato e l’indeterminato sono lo stesso, come il finito e l’infinito, come l’uno e i molti. Vedete come in fondo non si esce di una virgola da ciò che ha detto Parmenide. Il ῤᾖμα, invece, che di per sé non significa nulla e scopre soltanto κατά (il verso che cosa), ha la peculiarità di fissare ciò che è esibito come ente anche dal punto di vista del suo essere temporale, e ciò per i Greci significa: in riferimento al suo essere-presente o non essere-presente. Mentre l’όνομα, che potremmo indicare come il πρᾶγμα, la cosa, il ciò che si dice, di per sé non significa niente, anche il ῤᾖμα, anche il significato, di per sé non significa niente, perché il significato, dice lui, scoprente ma, potremmo dire, significa κατά, verso qualcosa, rivolto a qualcosa. …ha la peculiarità di fissare ciò che è esibito come ente… Quindi, lo determina come ente, e cioè soltanto la πρᾶξις determina il πρᾶγμα, soltanto l’agire del pensiero, quindi il determinare, fa esistere la cosa. E questo ha delle conseguenze non indifferenti, perché ῤᾖμα, la πρᾶξις, l’agire, il pensare, e se è questo agire del pensiero, del λόγος, ciò che fa esistere la cosa, è un bel problema.