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Parmenide di M. Heidegger

 

23-3-2016

 

La questione su cui sta insistendo Heidegger è la verità ovviamente, e sulla necessità di salvare lo svelato. L’λήθεια è contro il velamento proprio perché essa è per il salvamento nello svelato, il compito dell’λήθεια e della verità è salvare ciò che si svela. /…/ È indubbio che riguardo a questa essenza più iniziale dell’λήθεια i greci abbiano detto, pensato ancora meno che in merito all’essenza della λήθη, dal momento che per essi l’λήθεια è il semplice inizio di tutto ciò che è essenzialmente “è” (l’λήθεια, la verità, posta come l’inizio di tutto ciò che è) I greci non hanno quindi necessità né motivo di indirizzare il loro poetare, pensare e dire oltre tale inizio e di tornare a esso, per essi in questo inizio si è già dischiusa una parte sufficiente di ciò che è stato assegnato alla saga del loro poetare e pensare, nonché al loro costruire e produrre. (questo rende conto anche meglio di come il greco pensava la verità, verità che non è la nostra verità per il greco ma è il disvelamento comunque) /…/ Al tempo stesso il “dis” della parola “disvelatezza” ha rilevato una essenziale molteplicità del contrastante e ha accennato all’essenza conflittuale della verità, se, per ora, in base alle considerazioni della λήθη (il velato) nell’essenza dello svelamento appare il tratto fondamentale del salvamento e se è nella svelatezza che tale salvamento mette in salvo ciò che deve salvare e preservare, allora sorge la domanda su che cosa ancora sia mai in sé quella svelatezza che può dominare come ciò che salva e preserva. (se lo consideriamo in termini più vicini a ciò che stiamo interrogando, cioè la questione del linguaggio, la sua struttura, il suo funzionamento eccetera questo incomincia a darci l’idea della necessità nel linguaggio, quindi della parola, di salvare ciò che si disvela, salvare ciò che si disvela vale a dire che ciò che si disvela, potremmo dire il significante, ciò che appare dicendosi va salvato, va salvato dal suo annientamento cioè, heideggerianamente potremmo dire che va salvato dal velamento, dal suo velarsi di nuovo e lo dice in modo più esplicito a pag. 255) L’apertura è essenzialmente nella svelatezza, l’“aperto” è quel vicinissimo che invero senza prestarvi espressamente attenzione intendiamo implicitamente nell’essenza della svelatezza ma che propriamente non pensiamo e tantomeno scorgiamo in anticipo nella sua autentica essenza, vale a dire in modo tale che ogni esperienza dell’ente possa venire alimentata e guidata da questo aperto che è essenzialmente (quindi l’ente si disvela nell’apertura dell’essere). Sappiamo già che lo svelato e svelante (aλήθης) riferisce in modo peculiare all’ πος, al μύθος e al λόγος cioè alla parola (questi aspetti sono aspetti della parola). Il riferimento essenziale al ϕαινόμενον (il fenomeno) cioè a quanto si mostra nella svelatezza sono la saga e il dire (cioè ciò che si riferisce al fenomeno cioè ciò che si mostra sono la saga e il dire, è questo che si mostra) il dire svelante dell’asserzione è dunque ancora per Aristotele ποφανεσθαι i ovvero il fare apparire (il dire fa apparire) al pari di Platone e dei pensatori precedenti anche Aristotele invece di ποφανεσθαι dice spesso δηλον “addurre nell’aperto”, nella saga che nomina la svelatezza l’λήθεια, la φύσις cioè lo schiudersi nello svelato, il φανεσθαι, l’apparire e il lasciare apparire e κρπτεσθαι il velare, il λανθνειν l’essere velato, è ovunque per lo più nominato per quanto occasionalmente anche to δλον ovvero ciò che sta nell’aperto dunque l’“aperto”, (tutte queste cose di cui diceva non sono nient’altro che ciò che sta nell’aperto, ciò che si manifesta, ciò che si svela e sta nell’aperto. Se volessimo fare un passo più avanti potremmo dire che l’“aperto” è la domanda, possiamo intenderlo come la domanda) l’essenza della svelatezza si consegna all’aperto e all’apertura (che è esattamente ciò che vi ho detto un istante fa: l’essenza della svelatezza, quindi di ciò che appare, ciò che si mostra ci consegna all’aperto e all’apertura, ci consegna alla domanda e al domandare, le cose si mostrano e mostrandosi ci consegnano alla domanda) ma questo che cos’è? Qui il dire greco tace, quando c’è necessità di pensare l’essenza dell’aperto che domina nell’λήθεια rimaniamo senza sostegno e senza aiuto , un simile pensiero risulta strano nel modo di pensare corrente, soprattutto perché seguendolo per la sua via si mostra che l’ “aperto” non è affatto anzi tutto e soltanto la conseguenza dello svelamento bensì è il fondamento e l’inizio essenziale della svelatezza (cioè l’apertura, l’aperto, la domanda è la condizione perché qualche cosa si sveli, anche se ciò che si svela impone il domandare però la domanda, dice lui “perché è il fondamento della svelatezza?” perché la domanda è nel dire, come se dicesse che è il dire la condizione della svelatezza, come diceva tra l’altro poche righe sopra) infatti solo ciò che da anticipatamente e in precedenza questo stesso “aperto” e che è quindi in sé aprente, che è dunque un’essenza aperta lo svelare cioè lasciare apparire nell’aperto possiamo anche dire ciò che in base a sé è già libero frei, l’essenza ancora nascosta dell’aperto inteso come l’inizialmente aprentesi è la libertà frei … (l’aperto è ciò che consente la domanda, se è chiuso non c’è nessuna domanda, l’apertura, ché se c’è la chiusura cioè la risposta quella definitiva chiude anziché aprire, aprire ad altre domande, ora ciò che dice lui “anticipatamente in precedenza questo stesso “aperto” e che è quindi in sé aprente, che è dunque un’essenza aperta”, qui c’è un riferimento al significato cioè all’essere perché sta parlando dell’essere ovviamente, è l’essere che dà questa apertura, quindi il significato, è perché c’è il significato che è possibile la manifestazione dell’ente, cioè del significante, questo è molto desoussuriano: è perché c’è la Langue che è possibile l’esecuzione della Parole, ma più avanti è ancora più preciso a pag. 266) il risvegliarsi per questo “è” ma soprattutto il rimanere svegli per l’“è” di un ente (l’“è” di un ente è il suo essere, il significato) e vegliare sulla radura dell’ente ecco in che cosa consiste l’essenza del pensiero essenziale (cioè vegliare sulla radura dell’ente significa non mettersi a dormire nella radura dell’ente e cioè lasciare aperta la domanda, continuare a domandare, questo è essere svegli) l’“è” dell’ente (appunto l’essere) si mostra, quando si mostra, ogni volta soltanto d’improvviso (dicevamo l’irruzione, ne parlava nelle pagine precedenti dell’in-solito nel solito, del δαίμων nel dire) in greco ξαίφνης e cioè ξαφανης dunque in modo tale che qualcosa balzando fuori dal non apparente irrompe nel mezzo dell’apparente (appunto questo è il δαίμων, il demone o il dio) a questa irruzione per essenza immediata e repentina dell’essere in quell’ente che al tempo stesso soltanto in tal modo appare in quanto ente (e cioè in quanto “veicolo” tra virgolette di questa irruzione cioè non c’è l’ente senza questa irruzione, non c’è significante senza significato) corrisponde da parte dell’uomo un comportamento che d’improvviso non si volge più all’ente bensì pensa l’essere (questa irruzione comporta il fatto che l’uomo a questo punto si interroghi sull’essere, sul significato, perché questo significante contiene l’essere, contiene cioè la ragione della sua enticità) il pensare l’essere esige ogni volta un balzo mediante il quale tal fondo abituale dell’ente su cui dapprima riposa per noi l’ente corrispettivo, balziamo via nel “senza fondo” (das Boden-lose) poiché è come tale che si dirada quel libero che nominiamo quando riguardo all’ente altro non pensiamo che esso è (che cosa ci sta dicendo? Che cos’è il senza fondo? È l’essere, è il significato che non ha fondo, è questo significato che irrompe nel significante a essere senza fondo quindi squarcia il significante e rende il significante in-solito. Cosa vuol dire che è in-solito? Vuole dire, per dirla in termini più attuali, che non è padroneggiabile, non si può chiudere perché questa irruzione del significato nel significante è ciò che per Heidegger comporta l’apertura del significante verso la domanda, cioè il segno, il significante e il significato, ente e essere, comporta un’apertura ma l’apertura c’è perché questo essere. Essere e significante non sono la stessa cosa perché c’è una barra, perché come direbbe Heidegger c’è una differenza ontologica, c’è la differenza tra ente e essere, l’essere non sarà mai l’ente, l’ente non sarà mai l’essere, tutta la metafisica sorge invece su questa sovrapposizione, cioè sull’avere considerato l’essere un ente, questo lo dice Heidegger, la metafisica nasce da qui, cioè dall’incollamento del significante al significato, l’idea che una parola significhi quella cosa lì e tanto basta, che non si “balzi” via nel senza fondo, la metafisica serve a rattoppare il fondo, a mettergli una toppa per dire “guardate qui è finita la corsa” e invece no) L’essere però non è un fondo bensì (appunto il contrario) senza fondo e si chiama così poiché rimane originariamente svincolato da ogni fondo e fondamento e non ne ha bisogno (il significato non ha bisogno di un fondo, rinvia continuamente, è la metafisica che gli crea il fondo) si chiama così poiché rimane originariamente svincolato da ogni fondo e fondamento. L’essere di un ente non è mai stabile sul fondo dell’ente quasi l’essere potesse venire prodotto a partire dall’ente che è installato su di esso come sul suo fondamento (dice che l’essere non può pensarsi come il fondamento dell’ente, il significato non è il fondamento dell’ente, il significato non è il fondamento del significante perché questo significato, questo essere è senza fondo e quindi non può mai costituire la chiusura del significante in un significato) l’essere che non è mai stabile sul fondo è senza fondo, il che ovviamente solo considerato dal punto di vista dell’ente sembra una mancanza e appare come tale, una mancanza in cui noi che inseguiamo l’ente sprofondiamo senza appiglio (questa immagine dovrebbe esservi abbastanza nota, questo sprofondare senza appiglio nel nulla. C’è una prossimità nel testo di Heidegger fra “essere e nulla”, che non c’entra niente con L’essere e il nulla di cui parla Sartre, perché l’essere è questo sprofondamento, in questo senso parla di “nulla” anche, un “nulla” che non c’è, un modo di arginare questo sprofondare) ed è anche vero che cadiamo effettivamente nel senza fondamento non trovando alcun fondamento fin tanto che noi lo conosciamo e cerchiamo soltanto nella forma di un ente, senza mai compiere il balzo nell’essere e abbandonare così la regione abituale della dimenticanza dell’essere, (cioè noi immaginiamo di trovare il fondamento a condizione di non pensare l’essere, dice “se poniamo l’essere come un altro ente” allora a questa condizione possiamo pensare che questo sprofondare abbia una fine, appunto, senza compiere il balzo nell’essere e abbandonando così la regione abituale della dimenticanza dell’essere. La “dimenticanza dell’essere” potete pensarla come l’idea che il significato non sia una serie infinita, uno sprofondamento di rinvii ma sia un qualche cosa che si arresta come un quid, però direbbe Heidegger, guardate che se lo ponete così il significato non è più un significato ma è un significante, perché il significato è un’altra cosa) pag. 268 L’aperto in cui ogni ente è liberato come nessun libero questo “aperto” è l’essere stesso (la domanda, dicevo prima, certo perché l’essere essendo questo aperto in questo sprofondamento senza fine, è aperto, comporta la domanda, cioè comporta il dire) Ogni svelato in quanto tale è salvato nell’aperto dell’essere cioè nel senza fondo (qui dice “ogni svelato in quanto tale è salvato nell’aperto dell’essere cioè nel senza fondo”, potrebbe quasi contraddire ciò che diceva prima e cioè di “salvare lo svelato proprio dall’assenza di fondo” e invece no, perché dice “è salvato proprio nel senza fondo”, è lì che si salva, perché se fermo un significante lo salvo dalla sua deriva infinita, tuttavia lo salvo proprio perché, in quanto significante, è tale perché c’è una deriva infinita, non posso sganciare il significante dal significato, se io salvo il significante lo salvo in quanto ha un significato, cioè lo salvo in quanto, come dice lui, c’è un senza fondo, il senza fondo e il significante sono le due facce della stessa cosa) Il senza fondo vale a dire ciò che è originariamente svincolato da ogni fondo e dalla sua cedevolezza, è ciò che salva in modo “iniziale” anche se in verità non salva nel senso di un riparo che l’uomo cerchi o e si allestisca da qualche parte entro un ente, il tenore salvifico dell’ “aperto” non offre all’uomo il luogo di una fuga che gli permetterebbe di sbarazzarsi della sua essenza (l’essenza dell’uomo è di essere un domandante) In quanto aperto, l’ aperto salva il sito essenziale dell’uomo se non altro perché solo ed esclusivamente l’uomo è quell’ente per cui l’essere si apre nella radura (poiché l’uomo è parlante quindi è l’unico ente che consente l’apertura di quella radura, perché l’apertura della radura è l’apparire dell’essere, il suo manifestarsi, ma questo non significa nulla se non c’è parola, se non c’è domanda) l’essere in quanto è aperto salva in sé ogni genere di svelatezza dell’ente (come lo salva dunque? Come l’essere salva l’ente? Facendolo apparire propriamente, facendolo apparire è come se lo mettesse in gioco, ma lo mette in gioco in quanto c’è l’essere che lo fa essere quello che è, e l’essere è il significato, l’essere è quel senza fondo che irrompe nel significante, il significato che irrompe nel significante. Qui Heidegger sembra porla, diciamo in termini visivi, in modo diverso da De Saussure, De Saussure fa il suo disegno significato/significante, sono due cose messe lì, tranquille, per Heidegger la cosa è vista in modo più tragico perché il significato non è che sta lì buono sotto il significante, il significato irrompe, squarcia il significante, che è diverso dal metterlo lì sotto la barra e se ne sta lì tranquillo, Heidegger pone la questione, forse per una sua formazione che ovviamente è differente da quella di De Saussure, ma lo pone come l’irruzione del δαίμων che è il demone che irrompe nel familiare, questo è il significato, se me lo consentite più vicino a Freud che a De Saussure) ma così salvando l’aperto salvifico vela al tempo stesso di volta in volta la decisione della dimensione iniziale … /…/ pag. 269 In seguito all’estraniamento dell’uomo nei confronti dell’λήθεια (l’uomo si è estraniato dalla disvelatezza e si è inventato la veritas imperiale) l’essere alla cui assegnazione l’uomo non può sottrarsi nemmeno nell’estrema dimenticanza dell’essere stesso finisce per dissolversi nell’insieme indefinito dell’ente (se non teniamo conto che, adesso ve la pongo in termini linguistici, se non teniamo conto dell’irruzione del significato come qualcosa che irrompe nel significante rendendolo senza fondo, senza fine. Ma immaginiamo che il significato come qualche cosa che completa il segno, desaussurianamente, addirittura De Saussure fa il circoletto, poi Lacan lo toglierà però fa un circoletto per indicare che tutto accade lì, che è vero, però dice Heidegger se si dimentica questa irruzione “violenta”, allora si finisce per dissolversi nell’insieme indefinito dell’ente, cioè non ci si accorge di ciò che si sta dicendo. Facciamo un passo verso Freud, allora non ci si accorge di ciò che accade mentre si parla, ché ci sono una serie indefinita di significanti ma ogni significante ha il suo significato e si va avanti così, ma non c’è la “tragicità” ma qui “tragicità” in accezione particolare, non c’è niente di tragico nell’accezione comune ma “tragicità” nel senso dello squarciamento del significante, il suo significato non è nient’altro che un abisso che si sprofonda. Il significato diceva Nietzsche è la volontà di potenza, ora la volontà di potenza letta in questo modo, così come ci sta suggerendo Heidegger, che lui l’avesse posta così non ci interessa, ma a questo punto la volontà di potenza è la volontà di padroneggiare questo sprofondare e porvi rimedio, quindi da qui la tecnica: la tecnica in quanto metafisica è la volontà suprema di arginare lo sprofondare. Non è possibile dare una fine, la fine sarebbe il significato ultimo che non c’è, è questo che sta dicendo) È così che allora l’essere viene equiparato senza differenze all’ente (cioè diventa la stessa cosa, e cioè sta dicendo che il significato diventa un significante perché perde la sua connotazione, la sua proprietà, che è quella di essere uno sprofondare dell’ente nel nulla) oppure viene gettato da parte come concetto vuoto (cioè ci si sbarazza) la differenza di tutte le differenze e l’inizio di ogni differenziazione cioè la differenza tra essere e ente (la differenza ontologica, la differance di Derrida) viene dunque continuamente appiattita e con la complicità dell’uomo a causa di una inconsapevole disattenzione verso ciò che propriamente è da pensare (ecco che ritorna “ciò che è da pensare”) rigettata nella trascuratezza nel modo inquietante della sconsideratezza dimenticata (questo è ciò che accade comunemente, ciò che accade, direbbe Heidegger, nella chiacchiera, cioè in ogni dire che non è un dire iniziale, il dire iniziale è quello che continua a interrogare l’ente perché mostri la sua enticità, perché mostri il suo essere, perché mostri il suo significato, cioè mostri l’abisso di cui è fatto) pag. 285 Quello che c’è di fuori e quello che in generale è sia esso fuori dentro o in nessuno spazio lo sappiamo soltanto in base alla conoscenza dell’essere che è essenzialmente presente come quel libero nella cui radura l’ente trova l’accesso alla svelatezza e in base a essa il sorgere nell’apparire e con esso la convenienza del venire alla presenza (quello che c’è deve la sua esistenza al fatto che l’essere nella radura, nel suo apparire consente la disvelatezza dell’ente, consente all’ente di manifestarsi, quello che c’è è quello che è perché il significato è ciò che consente al significante di essere quello che è, il problema è che questo significato, cioè ciò che consente al significante di essere quello che è, è un abisso, un abisso senza fine, ed è così che viene alla presenza se lo si ascolta, cioè se si presta orecchio al dire iniziale, “iniziale” non nel senso che fu all’inizio ma “iniziale” ciascuna volta. È questa parola iniziale che è inaugurale, quella che inaugura il pensiero stesso, che non si inaugura se non c’è qualche cosa che lo avvii, se sono solo chiacchiere non si inaugura niente, è appunto un indefinito ripetere di significanti dove ciascun significante è pensato come un qualche cosa che è chiuso, chiuso nel suo significato e che quindi non interroga, perché se a questo corrisponde quest’altro è chiuso il discorso. A questo corrisponde questo, ma questo è un buco senza fine che rinvia a un altro significante, e cioè a un altro elemento che a sua volta veicolerà questo δαίμων all’infinito, è così che gli umani parlano, senza saperlo. Pag. 292) Pensando di pensare in termini iniziali cioè entrare in discussione e in dialogo con l’inizio al fine di percepire la voce della disposizione e delle destinazioni future (cioè il pensare l’iniziale è ciò che consente di procedere anziché girare in tondo e per niente, per il vuoto più che per niente, è ciò che consente quindi al pensiero di procedere e di essere quello che è, cioè pensiero. La lettura del Parmenide a mio parere ci ha dato molte cose su cui riflettere, tenendo conto che in effetti è uno scritto sulla verità, parte proprio da questo, dalla dea Verità, dalla dea Aλήθεια di cui parla Parmenide, e tutto questo ci ha portati a considerazioni interessanti intorno a ciò di cui stiamo parlando da tempo, e cioè la questione del potere. Il potere ci ha detto è iniziato quando c’è stato il passaggio dall’λήθεια, all’moίosis, e infine alla veritas, quindi la verità come disvelamento, come omologazione e poi alla fine come veritas, la veritas imperiale cioè la verità come ἐπιστήμη, come ricorda sempre Severino “episteme” significa letteralmente “stare sopra”, e stando di sopra si domina su quelli che stanno di sotto, ovviamente, e quindi in piena volontà di potenza. La volontà di potenza è stata innescata in modo più forte dal passaggio dall’λήθεια alla veritas. Dopo di questo si è soffermato a lungo sulla questione del disvelamento, dello svelato e del velare perché porre la questione in questi termini, come ciò che sorge dal velato della verità intendo l’λήθεια è ciò che sorge dal velato, è qualche cosa che, come dice lui, viene strappato dalla velatezza, che cosa lo strappa alla velatezza? Che cosa intendiamo con velatezza? Un significante quando è velato? Quando non mostra il suo significato, diciamo per radicalizzare la questione posta da Heidegger, un significante rimane velato nel momento in cui non consente, non lascia scorgere pur disvelandosi in qualche modo, pur apparendo, non lascia scorgere la sua enticità, il suo essere significante per un significato, cioè essere ente ma per l’essere, cioè per qualche cosa che lo fa essere quello che è, e qui c’è la questione finale poi del “che cosa lo fa essere quello che è?” l’abisso senza fine. La questione finale è proprio questa, tenete conto che stiamo parlando della verità cioè del disvelamento, la verità come qualcosa che si mostra, e si mostra il significante ma in quanto veicola il δαίμων, è così che si mostra il significante, è così che l’ente appare, appare in quanto aperto, squarciato dall’essere che pur tuttavia lo fa essere quello che è. Questo per porre la questione della verità in modo differente da come si pone generalmente e con qualche apertura in più. Andremo avanti sempre con Heidegger, leggendo Eraclito, ma più che la parte riguardante Eraclito, forse è interessante la parte che riguarda la logica, la logica come lo strumento per giungere alla verità. Nel discorso comune, cioè nel discorso metafisico, la logica serve a a fornire i criteri per stabilire ciò che è vero e ciò che non lo è, però il modo in cui la pone Heidegger ovviamente non è così, perché lui si rifà al pensiero iniziale cioè al Λόγος, cioè all’essere, cioè al disvelamento, a ciò che si disvela. Quindi la logica non come un criterio per stabilire appunto la “veritas imperiale” perché a questo serve, la logica dice lui a un certo punto, serve alla volontà di potenza, non ha altri scopi, perché non dice qual è la verità, ma fornisce un criterio che viene accettato, più o meno, e in base a questo criterio si stabilisce chi dice la verità. La logica è asservita alla volontà di potenza, lo logica intesa come “Λόγος” è un’altra cosa, come abbiamo già visto in varie occasioni, è appunto uno dei modi in cui l’essere interviene. La questione del potere è sempre più interessante, qui Heidegger tranne qualche cenno di sfuggita citando Nietzsche non parla del potere, però mostra come il potere si strutturi e la necessità di arginare, per esempio, ciò di cui lui stesso parla, vale a dire questo senza fondo: perché arginarlo se non per averne il controllo? Per una volontà di potenza. Una cosa occorrerebbe sempre tenere conto, cioè l’essere, cioè il significato di qualunque agire dell’umano, il significato di questo agire è la volontà di potenza, e questa è una cosa notevole che disse Nietzsche “è l’unico significato” lui lo pone come l’essere, il significato di qualunque agire umano, sia che agisca o non agisca, sia che pensi o non pensi, è la volontà di potenza.