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23 febbraio 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 479. Ma prima di iniziare c’è una questione sulla quale potremmo riflettere e che riguarda la volontà di potenza o, più propriamente, la possibilità, al punto in cui siamo, di dare alla volontà di potenza un fondamento ontologico, che è quello che Nietzsche non ha fatto. Dicendo fondamento ontologico ontologia qui ha un’accezione particolare, differente da quella che si intende generalmente, quanto meno più precisa, più approfondita in quanto, in seguito alle ultime riflessioni che abbiamo fatte, abbiamo guadagnato questa nozione di ontologia molto più interessante di quelle precedenti, e cioè l’ontologia come ciò che pertiene al linguaggio, linguaggio come l’essere. Vediamo bene com’è la questione. Dobbiamo partire da Aristotele, dalle sue considerazioni intorno alla potenza e all’atto e all’entelechia, che è l’integrazione di potenza e di atto. È un’idea che mi è venuta in mente leggendo le cose che ci sono in fondo alle aggiunte al testo di Heidegger, e cioè un suo accostamento, senza poi né approfondire né articolare minimamente la cosa, tra l’essere e la potenza e il potere. Dunque, Aristotele, potenza e atto. Come sappiamo, Aristotele nella Metafisica è assolutamente preciso e ciò ci consente di andare oltre e di intendere bene ciò di cui si tratta. La potenza, come lui ci dice, è tale in vista dell’atto. L’atto sarebbe il τέλος, il compimento della δυνάμις, della potenza, cioè, la potenza si compie nell’atto. Ma non c’è potenza senza l’atto perché sarebbe potenza di nulla: se è potenza è perché può e ciò che può è agire secondo ciò che la potenza indica. Quindi, il potere fare si compie nel fatto, in ciò che è fatto, nell’νργεια, nell’agito. Ora, la cosa importante è intendere che ciò che Nietzsche ha chiamato volontà di potenza noi possiamo coglierlo – anche se questo termine “potenza” è sempre un po’ animistico; non mi piace molto ma finché non ne troviamo uno migliore ci accontentiamo di questo – come la volontà della potenza di compiersi nell’atto. Questa volontà va messa tra virgolette, non è che sia propriamente volontà, ma questa necessità di compimento può intendersi soltanto se si intende il funzionamento del linguaggio. Hegel ha colta la questione anche se di striscio: non c’è l’in sé senza il per sé. L’in sé come ciò che è in potenza ma che ancora non è, che letteralmente non è, così come la δυνάμις per potere essere quella che è occorre che ci sia l’atto, occorre che possa diventare atto. Solo “dopo” – messo tra virgolette perché non è una successione temporale – diventa δυνάμις, diventa quello che è, ma diventa quello che è per via dell’integrazione con l’atto: l’entelechia è questo. Diventano un’altra cosa, tanto rispetto alla potenza quanto rispetto all’atto. Qui ci sarà un accenno, ne parleremo a breve. Quindi, la volontà di potenza come la volontà della potenza di compiersi nell’atto. Ora pensiamo al linguaggio, al suo funzionamento. Dire che la potenza vuole compiersi nell’atto non è altro che dire che non posso dire senza che il mio dire dica qualcosa, il mio dire si compie nel qualcosa che il mio dire dice: questo è il compimento, l’entelechia. Ne parlava anche Gentile da qualche parte, non ricordo dove, ma alludeva alla questione, e cioè l’entelechia è l’integrazione tra il dire e ciò che il dire dice. È chiaro che questi due momenti non sono separabili, non posso separare il mio dire da ciò che il mio dire dice, in nessun modo, perché il mio dire è ciò che dice, non è altro che questo. A questo punto siamo vicini a porre la questione della volontà di potenza in termini ontologici – ontologici sempre nell’accezione che indicavo prima – e cioè come la necessità che il dire ha del ciò che il dire dice. Ci sono due parole greche che mostrano bene questi due momenti: λέγειν e τί, il λέγειν come il dire e il τί come il qualche cosa che il λέγειν dice. Infatti, sono sempre insieme: λέγειν τί, il dire qualcosa, non posso dire senza dire qualcosa. È questo che fa della volontà di potenza la struttura stessa del linguaggio. Per il momento lasciamo perdere le rappresentazioni, le messe in atto, in scena della volontà di potenza, ma strutturalmente, ontologicamente e teoreticamente, la volontà di potenza è la volontà del dire di stabilirsi come detto, cioè, del λέγειν di passare, usando le parole di Platone, al λεγόμενον, al detto. Posta la questione in questi termini, è chiaro che si pone la questione dell’essere, perché cosa dice Aristotele? Che questa integrazione, l’entelechia, Aufhebung direbbe Hegel, tra potenza e atto, è l’essere, è la sostanza, l’οσία, sono la stessa cosa. Quindi, l’essere in questa accezione è questa relazione, l’essere è la relazione e la relazione non è nient’altro che linguaggio: il linguaggio è relazione tra il dire e ciò che il dire dice. Questo posto in termini teoretici, ovviamente. Questa annotazioni sono importanti anche e soprattutto per ciò che avverrà in seguito, e cioè quando ci occuperemo di retorica. La retorica è volontà di potenza, potremmo quasi dire, allo stato puro. In questo modo noi forniamo alla retorica, quindi al dire, un fondamento ontologico perché mostra l’essere in quanto relazione fra il λέγειν e il τί, relazione inscindibile e insolubile, non possono separarsi, se tolgo l’uno tolgo l’altro all’istante. L’essere non è nient’altro che questo: relazione, relazione che è necessariamente tra il λέγειν e il τί, fra il dire e ciò che il dire dice. Detto questo, su cui torneremo perché è una delle questioni più importanti, riprendiamo la lettura. Che cosa è in gioco in realtà in questa γίγαντομαχία περί τς οσίας Cioè, questa battaglia fra giganti, fra due posizioni dell’essere, cioè essere come σμα, come corpo, e l’essere come εδος, come idea, come immagine, forma. Qui sta valutando le due posizioni di realismo e di idealismo, confutandole entrambi per giungere a una posizione che è la sua. La scoperta di quell’ente che propriamente soddisfa il senso dell’essere e, quindi, l’esibizione del senso stesso dell’οσία. Il senso dell’οσία viene esibito mostrando quell’ente che soddisfa il senso dell’essere. Quest’ultimo compito non è a sé stante bensì è totalmente implicato nel primo. La domanda sul senso dell’οσία stessa non è ontologicamente viva e tematica presso i Greci, i quali chiedono sempre e solo: quale ente soddisfa propriamente il senso dell’essere e quali caratteri dell’essere ne risultano? Il senso dell’essere stesso rimane non interrogato. Lo farà Aristotele nel modo cui accennavo prima, cioè, come relazione, relazione tra δυνάμις e νργεια, cioè l’entelechia, che è l’essere, cioè l’οσία, la sostanza. Il senso dell’essere, che guida in modo inespresso questa ontologia, è che essere = presenza. Sappiamo che per i Greci è così: l’essere è la presenza, il fenomeno, ciò che vedo, perché il ciò che vedo mostra così come esso è. Tale senso dell’essere i Greci non lo raccolsero da qualche parte, non lo inventarono, ma è quello che la vita stessa, l’esistere fattuale, reca con sé… Con Heidegger potremmo dire: la chiacchiera. …in quanto ogni esistere umano è interpretante, interpreta in qualche senso se stesso come tutto l’ente, e in tale interpretazione è vivente in modo inespresso il senso dell’essere. Chiunque non fa che interpretare continuamente, giudicare, valutare, ecc., cioè, mette in relazione. In questo modo, ci sta dicendo, si tratta sempre dell’essere, che è relazione. E invero il senso dell’essere, come i Greci lo comprendevano in modo inespresso, è attinto all’interpretazione naturale e immediata dell’essere da parte dell’esistere fattuale. Essere significa ciò che c’è già sin da principio… Da qui la connessione anche con la φύσις. …come possesso, casa, tenuta, ciò che è tenuto nella presenza, è praticamente presenzialità. Essere significa sin da principio possesso. Lui chiaramente non si sofferma su questo aspetto, forse non riesce a farlo. Possesso, dominio: l’essere è dominio. Certo, come dicevo prima, può essere messo in scena, rappresentato, farne una commedia o una tragedia, a seconda dei casi, ma questo possesso non è altro che un dominio che il linguaggio esercita, che il λέγειν esercita sul τί. Il τί è il significato del λέγειν, è ciò che fa esistere il λέγειν in quanto tale, il dire in quanto tale, sennò non è dire. La principale questione, che è oggetto di contesa, riguarda innanzitutto ciò che soddisfa primariamente e propriamente il senso dell’essere, la presenza. La presenza vuol dire ciò che controllo. Se qualcosa è presente lo vedo. Ciò implica nel contempo quale modalità di accesso all’ente in senso proprio è la più originaria? In riferimento a due contendenti… Sono l’uno che sostiene l’essere come σμα, come corpo, inteso proprio realisticamente, nel senso più banale, come ciò che resiste; l’altro sostiene l’essere come idea, immagine, come forma. …sono in gioco l’ασθησις e la αφή, il toccare, il tastare, il vedere sensibile, da una parte, il νόηιν, ovvero il λόγος. I primi scartano il λόγος, per loro l’essere è soltanto ciò che resiste, ciò che tocco; per gli altri è ciò che “vedo” con il pensiero, con il νος. /…/ Questa domanda sussiste di fatto in quanto viene chiesto che cos’altro sia intrinsecamente implicito nell’essere dell’ente e se anche il νος appartenga all’ente. Questa curiosa domanda, che affiorerà in seguito, non significa nient’altro che questo: se l’ente è ciò che è sempre allora il senso dell’essere come presenza è giustificato se è data una possibilità affinché qualcosa possa essere presente. Questa è una domanda teoretica, cioè sulle condizioni di possibilità di presenza dell’essere. Il senso dell’essere è dunque dipendente dalla possibilità di un farsi incontro dell’ente per qualcosa che possa essere in generale in qualche modo presente nello stesso momento. Questo però non significa affatto che l’ente in quanto ente sia, per così dire, dipendente dall’umano esistere o dalla coscienza o simili. /…/ Qui Platone impone in un certo senso agli avversari … I due contendenti di prima. …una definizione prima ancora che essi potessero avere del tutto compreso. Questa, tra l’altro, è un’abile mossa retorica: fornire una definizione prima ancora che gli altri capiscano bene che cosa sta succedendo e, quindi, non possono che accogliere quella definizione, anche perché non ne hanno altre. Ciò che possiede in qualche modo la possibilità, vale a dire, ciò che in se stesso è in qualche modo determinato come possibilità, sicché in base a essa possa in qualche modo affrontare qualche cos’altro oppure possa altresì essere affrontato da qualche cos’altro. Ciò che è così determinato, ebbene tutto ciò è propriamente ντος, enti, così come può essere. Pongo, infatti, come definizione dell’ente pos estin, in quanto esso è... Questo è l’ente in quanto esso è, c’è, è presente. …nient’altro che δυνάμις, possibilità. Possibilità di essere che cosa? Di essere l’ente, naturalmente. Bonitz (filosofo tedesco) rende (δυνάμις) addirittura con forza creatrice e afferma: “Qui le idee vengono definite come forze creatrici”. La difficoltà che si incontra nell’anticipazione di questa definizione completamente nuova si fonda sul fatto che la parola δυνάμις è intesa sin da principio in termini troppo marcati, quasi nel senso di coloro che affermano οσία = σμα, ma soprattutto dipende dal fatto che non si è prestata attenzione a come proprio tale determinazione dell’ν, dell’ente in quanto δυνάμις, funga sostegno a tutta la trattazione successiva e, anzi, sia stata già preparata sin da prima a quello che abbiamo detto a proposito del προσγίγνεσθαι (possibilità). Essere, dunque, significa in breve possibilità. Essere come possibilità. Ma sappiamo che la possibilità, la δυνάμις, è nulla senza l’essere in atto di ciò di cui la possibilità è possibilità. Per questo dovremo aspettare Aristotele. Questa δυνάμις è qui riferita a, detto in termini grossolani, forze che effettuano qualcosa o che possiedono proprietà dovute a una disposizione dell’ente e in base alle quali esso può patire qualche cosa. Quindi, l’ente può agire e patire. Ma se qui è usata la parola πατεν (patire) bisogna ricordare che non si tratta di un caso perché già in precedenza Platone sosteneva che όλον (il tutto) può essere un πάθος dell’ν (qualcosa che l’ente subisce). /…/ Tale τερονIl termine τερον interviene in Platone per risolvere il problema dell’essere e del non-essere. Tra i due, che Parmenide tiene separati, c’è qualche cosa di diverso, il non-essere come diverso rispetto all’essere. Tale τερον è scoperto per la prima volta da Platone in un certo qual modo proprio in questo dialogo come un determinato tipo di non-essere, quello appunto che esprime una non totale differenza nei confronti dell’altro, ovvero, di quell’Uno rispetto al quale è altro, ma sta piuttosto a significare che ogni cosa, nella misura in cui è, è al tempo stesso se medesima e alcunché altro. Di nuovo, ci troviamo qui di fronte a una posizione di Platone in cui ha sotto gli occhi la questione. Si trova a considerare che ciascuna cosa è al tempo stesso se medesima e anche alcunché altro. È chiaro che deve risolvere il problema, ed è questa la gigantomachia propriamente, non è tanto tra realismo e idealismo, anche, sì, ma è marginale questa lotta. La lotta vera e propria si combatte tra retorica e dialettica, tra la retorica che accoglie il fatto che ciascun elemento è anche altro da sé e la dialettica che invece che, sì, rileva questo ma vuole tenere separati, altrimenti non può andare avanti, non può affermare la verità dell’ente e, quindi, la sua falsità. La controparte… Controparte rispetto a quelli che dicono che l’essere è il corpo. οσία = εδη. Essente è ciò che si mostra nel λέγεινQuesto dicono gli idealisti. …e νόηιν, il puro stare a guardare discutendo. Così traduce Heidegger il νόηιν: puro stare a guardare discutendo. È una traduzione anche questa, neanche malvagia. Quell’aspetto dell’ente stesso che è presente nella pura percezione. Puro significa qui non sensibile. Ebbene, coloro che negano che οσία = σμα, ovvero γένεσις, e affermano piuttosto οσία = εδη lo pongono al tempo stesso come οσία χωρίς, come sostanza separata, autonoma rispetto alla γένεσις. Il rilievo che fa Platone agli idealisti è di porre la sostanza, l’essere, come separato. Qui la questione è complessa perché un attimo fa ci diceva che ciascuna cosa è al tempo stesso sé medesima e anche un’altra. Ora, la separazione qui cosa ci dice? Ci dice che οσία, come essere, è separata e, quindi, l’essere è separato, per cui c’è qualcosa che non è essere, cioè, dice che gli idealisti pongono le idee come non-essere, perché se pongono l’οσία, l’essere, come separata vuol dire che dire che è separata dall’essere e, quindi, è non-essere. Quindi, questo sarebbe un non-essere, un non ente, il μέ ν. Ma, dunque, una volta di più, l’essere riferiti l’uno all’altro e l’uno con l’altro e insieme la possibilità di tale riferimento, questa possibilità non è nient’altro che il senso dell’essere. È relazione, qui lo dice, è chiaro, è relazione l’essere. Il κοινωνεν è semplicemente un altro modo di dire πρόϛ αλληο, riferirsi l’uno all’altro, sicché ora essere significa, se ricorriamo alla κοινωνία, δυνάμις κοινωνία, la possibilità dell’essere l’uno con l’altro. Questa è la possibilità che, poi, Aristotele svilupperà bene nella Metafisica. Cosa ci sta dicendo qui? Questo riferirsi l’uno all’altro lo pone quasi come necessario; questo riferirsi non è altro che relazione, questa κοινωνία è relazione, l’essere è relazione. La possibilità dell’essere l’uno con l’altro è la possibilità che l’essere sia questa relazione, cioè che il compimento, l’essere, l’οσία, l’entelechia, non sia nient’altro che questa integrazione tra la δυνάμις e la νργεια, tra la possibilità e l’atto. Essere rivolti l’uno all’altro, essere l’uno con l’altro, si tratta sempre dello stesso dato di fatto fenomenico. Essere significa nient’altro che poter essere l’uno-con-l’altro. Quindi, essere significa poter essere l’uno con l’altro, ma questo poter essere, questa δυνάμις, non esiste senza l’atto e l’atto è questo essere l’uno con l’altro, cioè, essere in relazione. Come dire che δυνάμις e νργεια sono i due momenti dello stesso, sono i due momenti della relazione, esattamente come il dire e ciò che il dire dice sono inseparabili. Contro questa interpretazione dell’essere si schierano appunto gli εδον φίλοι (amici delle idee). Essa implica, infatti, in fin dei conti, come risulterà, la compresenza del movimento nell’οσία. Gli idealisti invece vogliono togliere il movimento dall’οσία perché lo pongono come essere separato, separato anche dal movimento. L’idea, la Forma assoluta, è qualche cosa che non ha movimento per sé. Se si ammette che l’οσία è alcunché di conosciuto e conoscibile, ciò implica che essa è determinata insieme anche da μάθημαE, quindi, da δυνάμις. Se conosco è perché c’è movimento. Questo conoscere è movimento, perché è relazione, perché è mettere in relazione una cosa con un’altra e, quindi, lo spostare una cosa dal posto in cui si trova a un altro. …poiché all’οσίαQuando dice οσία intende, sì, la sostanza ma soprattutto l’essere. …poiché all’οσία non può accompagnarsi alcuna κίνησις (come dicono gli idealisti) essi devono respingere tale posizione. Questo però non è sostenibile, non è sostenibile che l’essere non sia conoscibile, sennò di che cosa parlo quando parlo di essere? Devo ammettere che è conoscibile, che posso dirne; ma se lo dico, ecco che interviene il dire, sì, certo, il λέγειν, ma il λέγειν τί, si sposta sul τί e, pertanto, è movimento. /…/ Questo passo è il centro attorno al quale si decide la comprensione di tutta la nostra localizzazione ontologica. Sarà ben difficile che noi vogliamo credere che con ciò che è παντελς, compiutamente, propriamente e con l’ente in senso proprio, non debbano essere presenti anche movimento, vita, anima, conoscere. /…/ Insieme con l’autentico ente vi è φρόνησις, νος, ζο, conoscenza, pensiero, vita. In altre parole, che il senso dell’essere è da intendersi così, che anche νος, κίνησις e ζωή (pensiero, movimento, vita) possono essere concepiti come essenti. Quindi, ci sono anche queste cose qua, non c’è solo l’idea, non è più quindi un ente separato. Non le idee, come se fossero spiriti che aleggiano qua e là, per giunta in veste di forze creative. Se ammettessimo che tutto ciò non è, dovremmo concedere un principio terribile. Platone ne parla ancora più chiaramente: “Se al contrario si ammette che il νος coappartiene all’essere e così pure la ζο, allora si ha pieno diritto di rivolgerci alla ψυχή come a un ente”. Questa è la posizione di Platone. Ciò implica però che l’essere è movimento. Con ciò è ammesso che ciò che è mosso e il moto appartengono essi stessi all’ente e che perciò il senso dell’essere deve essere afferrato a partire da questo punto fermo e conformemente a questi nuovi dati di fatto. Adesso si può chiedere se la definizione già data, ente = potenza, non sia effettivamente quella calzante appunto per tutti questi enti, non solo per gli εδη (idee, immagini) ma anche per νος e ζωή (per il pensiero e per il vivente). Ciò che continua a insistere, quando parla di ente come potenza… È chiaro che la potenza è potenza di qualcosa, cioè, l’ente può essere ciò che è e non può non essere ciò che è. Ma cosa comporta anche tutto il discorso intorno al movimento? Che c’è uno spostamento, che c’è una relazione e la relazione è sempre quella che indicavo prima: tra il dire e ciò che il dire dice. Ora lo Straniero chiede: “Non sembra adesso che abbiamo già scoperto, afferrato nel nostro discorrere sull’essere il senso dell’essere?”. Teeteto è già soddisfatto e crede davvero che la meta sia stata raggiunta. Adesso, infatti, sono riconosciuti i diritti di entrambi, della γένεσις, della κίνησις e degli εδη, cioè degli εί ν (degli enti che sono sempre). Ma lo Straniero gli fa osservare che proprio adesso siamo nella massima ignoranza, proprio ora che crediamo di avere capito qualcosa dell’essere… Ma in realtà fino ad ora cosa abbiamo capito dell’essere? Che l’essere è relazione. Lui ci parla di movimento, certo, di possibilità come movimento, ma questo movimento non è che relazione, è ciò che implica, comporta una relazione. …e lo prega di stare più attento che mai, cioè di mirare sempre al λόγος. Saggio lo Straniero: tenete sempre presente il λόγος, il linguaggio, a ciò che viene detto nel λέγειν stesso. Guarda bene, ammonisce, che cosa affermiamo dicendo che esso è sia il moto che mosso. Non ricade forse su noi stessi quella medesima domanda che allora ponevamo a coloro che dichiarano tutto l’ente caldo e freddo? Anche costoro, infatti, dicono δύο, due enti costituiscono propriamente l’ente, proprio come noi che affermiamo ακινητα (immoto) e κεκινημνα sono insieme τό ν. L’ente è il tutto. Ebbene, alla fine della nostra discussione non abbiamo fatto fondamentalmente un solo passo avanti oltre quelli che già avevamo respinto. Ci troviamo, dice lo Straniero, di nuovo di fronte al problema dell’Uno e dei molti e di lì non ci siamo mossi. Ebbene, κίνησις e στάσις (movimento e quiete) sono enti e manifestamente ciò che vi è di massimamente contrapposto. Eppure, tu affermi che entrambi in se stessi, ciascuno per sé, sono in eguale misura. Sono due elementi e sono contrapposti; però, tu dici che sono entrambi in eguale misura. È detto, dunque, che entrambi, da un lato e ciascuno per sé… Qui è ancora una volta chiaro che non si intende dire che quell’ente che possiede στάσις in senso eminente dal punto di vista universale. Gli εδη, sia caratterizzato a sua volta dalla κίνησις, dal movimento nel senso della vita e del pensiero, e che cioè le idee stesse vivano e conoscano, bensì che entrambe, movimento e quiete, ciascuna per sé sono. Ma, se entrambe sono, non sono forse entrambe in movimento? Ovvero, se entrambe sono, non sono forse entrambe in quiete? È Zenone qui, chiaramente. La freccia è in quiete, ma è in movimento. Perché è in movimento? Perché lo vedo. E perché è in quiete? Perché non posso non pensare che è in quiete e non posso non ammettere che in ciascun istante la freccia occupi uno spazio, che è quello e non un altro e, quindi, è ferma, è in quello spazio lì. Quindi, è ferma e in movimento. Qui il sofista chiederebbe: “Sì, ma che cosa vedo esattamente? Io non so che cosa vedo”. È per questo che sorge l’ulteriore domanda, ovvero, “Non poni infine anche l’ν come un terzo momento accanto a movimento e quiete?”. Il terzo tra movimento e quiete. Che cos’è questo terzo fra i due opposti, tra movimento e quiete, tra l’in sé e il per sé, tra ciò che è fermo, identico, e ciò che invece è in movimento? Potremmo anche porre quiete e movimento come potenza e atto. Il terzo elemento è la relazione, quindi, l’essere, la sostanza, è il linguaggio. È il linguaggio ciò che tiene unito tutto, questo terzo elemento è il concreto di cui parla Severino, ciò che tiene unito tutto e che è sempre già qui da sempre. Questo τιθείς ν τ ψυχή (questo uno in quanto pensiero)… Qui ψυχή potremmo addirittura porlo come essere. …non è solo una parafrasi del λέγειν, nel senso cui facevamo riferimento in precedenza dicendo che l’anima parla con se stessa di qualcosa. In definitiva, quando dici κίνησις è e στάσις è, chiami in causa questo “è” come terzo elemento e, precisamente, nel senso che ci si rivolge a κίνησις e στάσις intendendole come incluse al suo interno. In questa aggiunta Platone offre una breve ma fondamentale analisi del τρτον λέγειν (discorso sul terzo), ossia, ci dà qui per la prima volta la precisa e fondamentale struttura della συναγωγ (unione) e, quindi, del διαλéγεσθαι (dialogare). /…/ Il primo momento della συναγωγ è il συλλαβήιν (prendere insieme)… Dice che questo unire è soprattutto un prendere insieme. Entrambe, κίνησις e στάσις. Questo prendere insieme non significa, formulando un’opinione, considerare tematicamente κίνησις e στάσις, di volta in volta ciascuna per sé, bensì vuole dire prendere insieme entrambe; di nuovo, non nel senso in cui afferro due oggetti, appunto come due, in vista di qualcosa che vi è implicito, qualcosa che tuttavia …  κίνησις e στάσις, ciascuna per sé come tali non sono. Sicché, per poterle prendere insieme, è addirittura necessario distogliere lo sguardo da esse, al fine di afferrarle nel loro contenuto immediato. E, quindi, συλλαβν καί πιδών, prendere insieme volgendo lo sguardo altrove. Viene in mente quella cosa di cui parla Freud: l’attenzione fluttuante. È attenzione ma senza guardare. Qui che cosa vuol dire? Vuol dire attenersi al concreto, senza fissarsi sui particolari, sugli astratti, tenere d’occhio il concreto, il tutto. Questo apidein, questo guardare altrove, non è semplicemente un precludersi la vista, un omettere qualsiasi opinione su entrambi. Il termine πιδεν ha la stessa struttura di ποδιδναι, ποφαίνεσθαι, ravvisare qualcosa in ciò che è visto. Dunque, l’πιδεν non significa prescindere da qualcosa e lasciarlo illusoriamente da parte, bensì in qualcosa di veduto ravvisare alcunché e seguirne la traccia. In questo ravvisare e rintracciare ciò in cui qualcosa viene ravvisato è esso stesso qualcosa che in un certo qual modo c’è. Abbiamo … prendere insieme entrambe in vista di qualcosa e con questo come tale il rintracciare ravvisante. Tutte queste cose possono apparire di scarso interesse, però ci mostrano come ci sia qui, quasi fra le righe, qualcosa di importante, e cioè questi due elementi, in questo caso κίνησις e στάσις, vengono, sì, presi insieme ma non come due cose separate, ma vengono presi insieme a partire da un tutto, a partire da un όλον, da un concreto. Più di duemila anni dopo Greimas dirà che tra due elementi c’è la relazione e questa relazione fa sì che i due elementi in relazione non sono più i due elementi di prima ma siano un’altra cosa. È quello che ci sta dicendo qui Platone: questa κίνησις e questa στάσις diventano due cose differenti. In questo prendere insieme e in questo rintracciare ravvisante si punta quindi l’attenzione sull’οσία, sull’essere, non già su qualcosa di isolato, bensì sulla κοινωνία (unione)… È questa che importa. …l’essere presente con dell’essere stesso, dell’ν stesso. κίνησις e στάσις insieme come un tutto. In questo parlare e vedere così strutturato esprimi che entrambe sono. Ecco, dunque, che la συναγωγ, in precedenza annotata come συναγωγ eis en (come unione verso il tutto) è messa più precisamente a fuoco nella sua struttura rendendo così visibile la modalità di attuazione del διαλéγεσθαι. Il discorrere è questo: il prendere insieme le cose ma, prendendole insieme, nessuna di queste rimane quella che è, perché è presa all’interno del tutto. In tal modo Platone ha anteposto all’indagine dialettica vera e propria una riflessione metodologica. I suoi momenti fondamentali strutturali sono: συλλαβήιν, prendere insieme, e πιδεν, ravvisare. L’importante è, come si è detto, cogliere l’από nel senso giusto, come un prendere fuori qualcosa da qualcos’altro e seguire la traccia di quanto si è preso fuori. In questo rintracciare, l’πιδεν, si accompagna al συλλαβήιν, il prendere insieme, in quanto prendere insieme κίνησις e στάσις, non significa coglierle semplicemente come due, ma in un certo senso distogliere lo sguardo da esse, in modo però che in questo guardare altrove essi vi siano tuttora ancora, come quelle datità per le quali è determinante l’Uno, che deve essere scorto in quanto πιδεν.