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23-1-2013

 

Eleonora, potresti porre delle questioni rispetto all’esame su Wittgenstein?

Intervento: volevo riprendere la questione della normatività, il significato è l’uso e l’uso è inteso come regola, nel nostro discorso come viene inteso l’uso?        L’uso è nel tempo e non deve contraddirsi…

Se tu parli del passato è più complesso, perché può accadere che etimologicamente un certo termine anticamente avesse un certo uso, oggi a distanza magari di migliaia di anni, ha un uso completamente differente se non addirittura opposto in qualche raro caso, questo non contraddice niente, semplicemente si è modificato col tempo…

Intervento: sì, c’è sempre comunque una regola che mi dice questo uso…

Considera bene la questione. Intanto non è indifferente che Wittgenstein per scrivere le sue ricerche logiche, e quindi per elaborare la questione dei giochi linguistici si sia ispirato, così lui dice, all’osservazione di una partita di calcio. Ciò che gli è venuto in mente è che le cose si apprendono in base a delle regole, cioè si impara a giocare a partire da delle regole, le regole sono delle istruzioni che dicono che certe cose le puoi fare, all’interno di un gioco certe cose le puoi fare e altre no, ora come capisci tu una regola? Facciamo un esempio che è ancora più chiaro: come capisce una macchina che tu gli hai messo dentro una regola che da quel momento utilizzerà sempre? Così come anche l’umano, per esempio, quando giocherà a poker, ogni volta il re di fiori sarà un re di fiori, la regola è precisa e non può variare, se vuoi giocare quel gioco. Come capisce una macchina che una certa cosa è una regola? Gli sono state immesse delle istruzioni, come questa: “ogni volta che vedi questa sequenza, questa sequenza significa quest’altro”, e utilizzerà questa regola, questo algoritmo sempre allo stesso modo, se si presentano quelle condizioni che io ho stabilite, se si presentano queste condizioni allora questa cosa che chiamiamo “regola” servirà per compiere quella operazione tutte le volte. Pensi che gli umani funzionino differentemente? Certo, può apparire, perché in realtà non avviene un comando così diretto come avviene per una macchina, nella macchina è più diretto. Spesso negli umani questo comando avviene non direttamente ma indirettamente, attraverso altre regole, altri giochi, che vanno a modificare i primi, per cui “appare” più complesso, ma in realtà non lo è. Una regola dice che una certa cosa in certe condizioni non la puoi fare, quindi se si verificano quelle condizioni allora questa cosa non la fai. È molto semplice, la difficoltà è che non si intendeva questo finché non sono state pensate, progettate e costruite le macchine, questo ha sfoltito di molto tutto il pensiero, anche se pochi si sono accorti che la cosa di fatto è molto più semplice di quanto si immagini. Arriviamo all’uso, e torniamo all’esempio che è facile, del re di fiori: io voglio insegnarti a giocare a poker, ti mostro una carta, un re con il barbone, la corona, il fiorellino e ti dico “questo è il re di fiori”. Questo è un dato che tu puoi acquisire perché le informazioni che hai sono tali da consentirti di acquisire questo dato, bene, però che te ne fai? Niente, se non ti dico come usarlo, e allora ti do delle nuove regole e ti dico: ogni volta che c’è un altro re, oppure altri due re, e ti faccio tutte le varie combinazioni per ottenere un punteggio a poker, può essere all’interno di una scala, può essere un colore, può essere un poker, può essere una doppia coppia, ti faccio cioè tutte le possibili combinazioni in cui puoi “usare” il re di fiori. Cosa vuole dire usare in questo caso? Vuole dire costruire una sequenza che ti permette di vincere…

Intervento: però tu capisci l’uso di quel re di fiori solo se inserito… cioè tu devi sapere che quello è un re di fiori se conosci tutto il resto del gioco.

Questo è il limite che tutti incontrano quando si pongono la questione fatidica: “come si impara a giocare?”, o a parlare, che è la stessa cosa. Prima di sapere giocare un gioco devi sapere già giocare a carte, e invece no. Immagina di dovere insegnare a una macchina, lei non sa giocare a carte, non sa niente, non sa assolutamente niente, però ha in sé degli strumenti, e cioè una serie di reti di connessioni che gli permettono di “sapere” che se gli metti dentro qualcosa questo qualcosa è un’informazione, questo lo sa, deve saperlo, e questo glielo metti dentro tu, non c’è l’ha lui di per sé. Ora da qualche parte devi incominciare per dargli delle informazioni, per poterla mettere nelle condizioni di giocare a poker, e allora gli dici: “questo è un re di fiori” e gli dici che questo re di fiori fa parte di un insieme di altre 52carte che verranno utilizzate per fare questo gioco; gli mostri tutte le altre carte, una a una, perché se no non sa che cosa sono, gli dici che sono carte da gioco, quindi servono a una certa cosa; incominci a dirgli quali sono le combinazioni possibili, e quali no, cioè quali sono le combinazioni permesse all’interno del gioco del poker, e allora il re combina con questo, la donna combina con questo eccetera, fai tutte le combinazioni. La macchina impara, anche rapidamente, dopodiché a questo punto ha imparato a giocare a poker, perché conosce le regola del poker. Poi mano a mano si affinerà, così come ha imparato a giocare a scacchi, così bene che ormai qualunque campione di scacchi non è in condizione di battere una macchina, perché la macchina calcola tutte le possibilità molto meglio e molto più rapidamente di quanto faccia il campione di scacchi, che oramai non vince più, e come hanno insegnato alla macchina a giocare a scacchi, secondo te? La macchina non ha mai visto uno scacco in vita sua, qualcuno gli ha immesso delle informazioni, qualcuno che sapeva giocare a scacchi ovviamente. Pensa a come si fa a trasformare un pezzo di ferraccio inutile in una macchina pensante, significa che devi mettergli dentro tutto, ma proprio tutto, perché prima non c’è niente…

Intervento: prima devi creare questa struttura che sorregga tutto…

Esattamente, nelle macchine si usano fili elettrici e interruttori, gli umani ce li hanno già, e quindi siamo avvantaggiati per un verso, per l’altro no. Ma poniti la domanda: “come accade che si insegni a parlare?” Se pensiamo l’insegnamento a parlare come una trasmissione di un flusso di informazioni che contiene dati e informazioni per processarli, cioè per elaborarli, per calcolarli in definitiva, allora capisci subito come un umano possa insegnare a un altro umano a parlare; quando un umano deve insegnare a un altro umano a parlare, il primo umano sa già parlare, il secondo è un pezzetto di carne e ossa, e quindi è come quel pezzo di ferro di cui dicevamo, certo ha già dentro di sé degli strumenti che gli consentono di recepire delle informazioni e quindi non ha bisogno che gli mettiamo dentro cavi elettrici e interruttori come per le macchine. Parlare non è altro che la messa in atto delle regole che sono state trasmesse, e come si possa trasmettere una regola lo abbiamo visto, come si fa con una macchina: istruzioni, istruzioni che di per sé sono soltanto delle stringhe, non sono niente, delle stringhe che però combinate in un certo modo, e fornite anche delle regole per combinarle in un certo modo, producono certi risultati, così come c’è un’altra istruzione che dice che questo risultato può essere messo in relazione o con ciò che lo ha prodotto oppure con altri elementi e così via, e si crea una rete infinita…

Intervento: Wittgenstein direbbe regole di applicazione inserite in un sistema che consente l’applicazione di queste regole…

E così è infatti, tu come pensi che programmino i computer? Anche De Saussure giunge a delle questioni interessanti parlando del segno, però anche De Saussure a un certo punto del Corso di Linguistica Generale si pone la domanda “per insegnare che una certa cosa, che un certo segno funziona così, che ogni cosa è segno di un’altra e questo quindi rinvia a qualche altro, io devo già sapere che cos’è un rinvio, devo già sapere che cosa significa che un segno sposta su un altro segno, tutte queste cose devo già saperle. Se tu mi chiedi: “chi è Cesare?” io con il dito, che ha la funzione di operatore deittico in questo caso, indico lui, tu guardi dove punta il dito, vedi che punta verso Cesare e allora trai la conseguenza che Cesare è quello lì…

Intervento: tutti se lo chiedono ma poi vengono deviati dalla questione della realtà e dicono no, non può essere in un altro modo perché c’è sempre la realtà che…

L’uso si modifica certo, non è una regola fissa, stabile. Pensa alla grammatica, la grammatica si è modificata nel corso dei millenni e continua a modificarsi. A un certo punto le persone usano parlare in un certo modo e allora la grammatica formalizza questo modo attraverso delle regole, queste regole sono rigide, sono stabili, sono ferme apparentemente, e rimangono fisse e stabili e ferme finché lentamente, molto lentamente ma inesorabilmente, la lingua si evolve, muta…

Intervento: però rimane stabile per un certo periodo come se fosse governato da un consenso della comunità…

È la comunità che parla, non è che siano altri, quindi sono loro che fanno le regole…

Intervento: sì, sì però questa cosa mi sembra un escamotage per non rispondere alla domanda dell’uso. Dice Wittgenstein: “viene governato dal consenso della comunità” mi sembra un po’…

Vorresti che fosse governato da una legge divina? Siamo noi che parliamo, che ne determiniamo l’uso, tu mentre parli determini l’uso e anche delle volte, delle tue regole personali che poi se sono diffuse anche con altre persone ecco che diventano di uso comune. Per esempio l’uso del congiuntivo in una relativa è stabilito dalle regole grammaticali, tu dici a un certo punto “mi sembrava che Cesare era seduto lì”, grammaticalmente è scorretto l’uso dell’indicativo imperfetto occorre il congiuntivo imperfetto. Supponiamo che tu e io e tutti quanti insieme con noi, usiamo sempre l’indicativo imperfetto, allora a questo punto non è che la regola grammaticale che dice che dobbiamo usare il congiuntivo imperfetto sia una regola stabilita da dio, se noi continuiamo a usare sempre l’indicativo imperfetto dopo un po’ la grammatica e chi si occupa di stabilire le regole grammaticali, come l’Accademia della Crusca, a quel punto siccome nessuno più usa il congiuntivo ma tutti usano l’indicativo imperfetto allora si sancisce che nella relativa non si usa più il congiuntivo ma si usa l’imperfetto. Da quel momento è diventata una regola grammaticale, e se tu non ti atterrai a questa regola commetterai un errore. Quando ci fu il primo grande cambiamento, con il volgare, le fonti autorevoli sono state Dante, Petrarca, Boccaccio eccetera, se tu scrivi “s’io fosse” è un errore perché il congiuntivo imperfetto del verbo essere è “fossi” e non “fosse”, ma Dante scrive “s’io fosse”, questa regola della prima persona singolare si è modificata, ci sono voluti mille anni, ma si è modificata, non è più “fosse” ma “fossi”. È cambiato l’uso del congiuntivo, ti ha creato problemi? Chi lo ha cambiato, secondo te?

Intervento: gli uomini…

Sì, i parlanti, sono loro che fanno la lingua, sono loro che la modificano usandola continuamente. Modificare l’uso delle parole modifica anche, in alcuni casi, non solo il significato ma anche ciò che vedi, la parola “rosso” che si usa in italiano per indicare un colore nella scala cromatica, indica lo stesso colore che indicava la parola “rube” in latino?

Intervento: boh, non si sa…

Appunto. Quindi non siamo neanche più sicuri se il significato delle parole usate allora sia lo stesso: ciò che intendevano i latini con quella parola è esattamente quello che intendiamo noi? E chi lo sa?

Intervento: quindi c’è sempre un’interpretazione dell’uso?

Entro certi limiti sì certo, questa interpretazione può essere più o meno ampia, per esempio in campo poetico è molto ampia, in campo matematico ristrettissima, se io scrivo 7 + 3 non è che possa interpretarlo come mi pare, ma se io dico “il naufragar m’è dolce in questo mare”, posso interpretarlo in tantissime maniere…

Intervento: però è sempre legato all’interpretazione e quindi a dei comportamenti? Wittgenstein dice che c’è sempre un modo di interpretare la regola, perché data una regola e dati certi comportamenti…

I napoletani hanno un detto: “fatta la legge, trovato l’inganno”, cioè ogni volta che si stabilisce che la legge è quella si trova una scappatoia, si trova quindi un’altra interpretazione, oltre al fatto che quando tu parli di “interpretazione” a sua volta questo termine ha un significato che è dettato dall’uso e quindi la cosa si rivolge sullo stesso termine “interpretazione”…

Intervento: sì lui per esempio fa la critica all’ermeneutica… deve esserci un punto in cui questa interpretazione si ferma, lui dove lo trova? nei comportamenti…

Sì. È come dire che l’uso è dato dalla comunità dei parlanti, che a un certo punto, in seguito a vicende difficilmente valutabili e controllabili modificano l’uso di un certo termine. Sono soltanto i parlanti…

Intervento: questo consenso della comunità…

Sì, è un consenso entro certi limiti…

Intervento: lui dice: non di opinioni ma di definizioni e giudizi.

È così che accade in effetti, poi interviene un altro aspetto, a proposito dell’interpretazione. Tu interpreti un certo modo a partire da una tua decisione, cioè tu decidi di utilizzare un certo termine in un certo modo, in base a una tua decisione che procede da altre argomentazioni, quindi decidi che sia così da quel momento, come fanno anche i logici quando dicono che una certa cosa significherà sempre quella certa cosa, cioè esplicitano ciò che intendono dire, non lo lasciano implicito, cioè fanno esattamente il contrario di ciò che fa il poeta, che invece preferisce che sia tutto implicito in modo che uno possa trovarci tutto quello che vuole. Se io ti parlo di validità, tu non devi intendere la validità in accezione morale o etica, estetica, no, tu intendi in un senso ben preciso che è quello che io ti sto dicendo, questo non vuole dire che “validità” significhi quello, “validità” è niente, semplicemente dice che usa quel termine in quel modo e non in un altro. Tutto questo ha anche a che fare con un’altra cosa di cui volevo parlare questa stasera, sulla quale dobbiamo riflettere bene perché occorre trovare un modo più acconcio. La connessione tra il potere e il linguaggio. Mi appare vincolata alla questione della realtà, perché per avere potere occorre che io dica come stanno le cose e quindi occorre che ci sia un parametro, io dico la verità perché le cose stanno così, ma quali cose? Abbiamo trovato un modo abbastanza rapido e preciso per dire come la realtà non possa non appartenere al linguaggio, e cioè che l’esistenza stessa non sia nient’altro che l’appartenenza al linguaggio; dicevo che se qualcosa è qualche cosa è perché è inserito all’interno di una combinatoria, perché da solo non è niente, e allora sembra che per intendere questa questione, cioè la connessione tra potere e linguaggio occorra passare dal mostrare, se non proprio dimostrare, che la realtà non è nient’altro che linguaggio, che non può non essere nel linguaggio. A questo punto è possibile mostrare che essendo il linguaggio una sequenza di proposizioni che affermano qualcosa, allora è possibile inserire la questione del potere: affermo qualcosa quindi dico che le cose stanno così, se le cose stanno così come dico io, io sono colui che sa. Questa è un’altra questione interessante da svolgere, cioè mostrare come il linguaggio di fatto non sia nient’altro che una sequenza di affermazioni. Ci sono delle sequenze che conducono, che concludono con un’affermazione, questa affermazione da lì muove per giungere a un’altra affermazione, perché è come dovesse giungere a continue affermazioni, ad affermare continuamente, perché? Questa potrebbe essere una domanda interessante, perché il linguaggio deve sempre affermare qualcosa? Cosa vuole dire che afferma qualche cosa? In un certo senso che dice come stanno le cose, sì certo, però lì ci sono due aspetti. Una macchina è progettata per costruire delle sequenze, secondo un criterio ben stabilito, e questo criterio giunge e conclude un qualche cosa che in base a queste regole può affermare che è vero; “è vero” significa che è stato costruito in modo corretto e che non contraddice la premessa da cui è partito, solo questo. In un discorso, nelle fantasie, la questione è un po’ più complessa, perché nel frattempo tutte queste sequenze hanno costruita una quantità sterminata di cose. Da una parte una macchina sa sempre cosa è vero perché ha avuto delle informazioni precise, e dall’altra parte delle fantasie e discorsi che sì, sono partiti da informazioni precise certo, però costruendo mano a mano delle sequenze infinite ha trovato primo, che certe conclusioni che sono state accolte come vere sono in contraddizione con altre affermazioni fatte da altri giochi che muovono da altre premesse, però giungono ad affermare la stessa cosa solo che questa stessa cosa uno dice che è vera e l’altro dice che è falsa, e allora deve trovare dei modi per dirimere la questione perché comunque le istruzioni che ha, che fanno funzionare tutto il sistema sono sempre le stesse, e cioè che un elemento non deve essere auto contraddittorio, per cui se trova un auto contraddizione si arresta, si arresta e quindi deve trovare un'altra via, un’altra soluzione. La questione del potere non è nient’altro che la necessità di concludere con un’affermazione vera, però a noi non basta portarla alla radice, vogliamo fare qualcosa di più e cioè considerare che gli umani non possono non volere essere importanti, avere ragione, e che questo è ciò che pilota tutti i loro discorsi, tutte le loro fantasie, tutta la loro esistenza in generale. A questo punto ci giova intendere il linguaggio come una rete di connessioni, abbiamo anche detto che il linguaggio è un flusso di informazioni, e lo è, però forse occorre distinguere fra la trasmissione del linguaggio e il suo utilizzo, cioè la costruzione di sequenze, perché in questo flusso di informazioni ci sono quelle istruzioni per processare i dati e il processare i dati non è nient’altro che costruire mano a mano una rete di connessioni in base alle regole stabilite, alle istruzioni date, e quindi il linguaggio è una rete connessioni, ma questa rete di connessioni ha un “obiettivo”, il concludere con un’affermazione vera, che è ciò che consente di proseguire in una direzione differente e quindi di acquisire altri elementi, altri dati. Ma che cos’è la conclusione a questo punto? Tecnicamente anche una sequenza infinita di congiunzioni porterebbe a qualche cosa, però non si arresta mai, invece è come se avesse bisogno di arrestarsi a un certo punto e di dire come stanno le cose, di affermarle. Ma non solo di affermare, ma di concludere. Sappiamo che il linguaggio funziona così, però forse è il caso di dire qualcosa di più a questo riguardo, e cioè se vogliamo riprendere la questione dell’uso: perché l’uso è per qualche cosa anziché essere per niente?

Intervento: per via di quella sterminata rete di connessioni di cui è fatto il linguaggio…

Non proprio, o non soltanto, perché la rete di connessioni dice che un elemento è connesso, per essere tale, per essere un qualche cosa, quindi per essere utilizzabile, è connesso con tutti gli altri, però questo non porta ancora a una conclusione a un “quindi quest’altro”…

Intervento: deve tornare sempre alla prima istruzione al questo è questo…

Sì, in parte sì certo, deve riaffermare ciò che ha consentito di partire, per dirla in modo spiccio, ma perché dovremmo semplicemente dire che il linguaggio funziona così? Perché è ovvio che se dovessimo trovare un motivo a una cosa del genere, questo motivo non potrebbe essere in nessun’altra parte se non nella struttura stessa del linguaggio cioè nel suo funzionamento ovviamente. Il linguaggio costruisce sequenze in un certo modo, qual è questo modo? È il modo che consente al sistema di riconoscere queste sequenze come degli elementi che possono essere utilizzati per costruire altre sequenze, questo è quello che fa. Qual è la funzione, la portata, l’utilità di una conclusione, in tutto questo apparato?

Intervento: ma già l’esclusione è una conclusione…

È solo un’istruzione in realtà…

Intervento: concludi che quella cosa non va in…

Sì, brava, e se fosse la costruzione di un’altra istruzione, perché una conclusione possiamo sempre considerarla un’istruzione, ha sempre la stessa struttura, dice che cosa si fa e che cosa non si fa. Una conclusione come diceva bene Eleonora esclude delle cose che non vanno bene. La questione è questa: posso costruire altre istruzioni, sempre nella stessa maniera ovviamente, però con elementi nuovi, anche l’estensione della rete di elementi di connessioni è tale da obbligare in un certo senso alla costruzione di altre istruzioni, e a questo punto bisogna vedere se dobbiamo distinguerle necessariamente da quelle istruzioni che sono contenute nel pacchetto iniziale che fa funzionare il tutto, oppure sono delle regole per costruire dei giochi che comunque riproducono inesorabilmente lo stesso schema delle istruzioni di partenza del pacchetto iniziale. Potremmo dire che sono delle regole per continuare a giocare nel senso che queste regole è come se fossero delle istruzioni con delle nuove regole, quindi per costruire nuovi giochi a partire da nuovi dati. In effetti la conclusione deve servire a qualche cosa, deve avere una funzione all’interno del sistema, se no cosa ce ne facciamo di concludere? Una conclusione diventa la premessa per un'altra catena e la premessa è una regola per giocare. Ciò che si conclude può costituire un nuovo dato. Un teorema, cioè la conclusione di una sequenza logica, è un nuovo dato, che viene utilizzato per acquisire nuovi dati.

Intervento: come dire che prima quelle determinate cose non potevano essere prese in considerazione perché non esisteva quella premessa tale che li faceva esistere. Si acquisisce qualcosa non è che si acquisisca qualcosa che sta da qualche parte ma si acquisiscono delle regole che costruiscono nuovi dati…

Sì, e quindi nuovi giochi certo, oltre al fatto che poi semioticamente una conclusione va a modificare retroattivamente tutti i dati che ha costruiti. Occorre considerare un elemento in più: c’è un’istruzione in tutto questo sistema, che dice che se io a un elemento ne aggiungo un altro e dico che questa è una congiunzione, allora quell’elemento non è più quello di prima, perché quello di prima è diventa un altro elemento. Se dico che (A & B), allora questa A non è più una A, ma è A & B, il primo elemento si è modificato, con buona pace di Severino che nega il divenire. Vedremo di precisare ancora meglio, adesso abbiamo appena abbozzate le questioni, possiamo intenderle meglio.