23-1-2008
Riprendiamo alcune questioni intorno alla nozione di identità, utili perché mostrano come non soltanto il luogo comune abbia delle idee bizzarre intorno alla nozione di identità ma anche alcuni filosofi del linguaggio. Un libricino di Achille Varzi si pone un nobile obiettivo: porre delle questioni lasciandole tutte rigorosamente, metodicamente irrisolte. Perché irrisolte? Aldilà di altre considerazioni che possono farsi, rimangono irrisolte perché poste nei termini in cui vengono poste non possono che rimanere irrisolte. Avevamo visto l’altra volta con Severino che anche lui tenta di risolvere la questione dell’identità. In “Tautótēs” la tautologia è una proposizione che afferma di sé di essere identica a sé e abbiamo visto che pone qualche problema però Varzi incomincia con l’idea abbastanza bizzarra della eventualità di costruire un catalogo universale, cos’è il catalogo universale? Stabilire quali sono tutte quelle cose che esistono nel mondo, tutte, questa è l’idea: porre tutto ciò che è possibile ascrivere al mondo, tutto ciò che esiste, naturalmente per dire che questa operazione risulterà impossibile, perché? Perché intanto alcuni incominciano a dire che esistono solo gli oggetti concreti altri che invece preferiscono metterci oggetti ideali, per esempio, o astratti, come il bene, la virtù, la stessa nozione di astrazione è un concetto astratto. Achille Varzi si chiede se parlando del libro stiamo parlando dell’oggetto che teniamo fra le mani, con tutto ciò che contiene, e quindi di un oggetto concreto, si risponde:
non esattamente, quello che dicevamo continuerebbe ad essere vero anche se la vostra copia del libro venisse distrutta rimarrebbe vero, anche se cancellassimo dal mio computer i files… /…/ e se voi compraste un’altra copia del libro, e la leggeste dopo aver letto la prima non stareste leggendo non un altro libro ma lo stesso libro una seconda volta…
Dunque il libro è un oggetto concreto fatto in un certo modo, ma ciò che contiene, le idee che contiene, per esempio, le tesi che sostiene etc. sono un oggetto concreto o sono un’altra cosa? Sono una cosa astratta oppure no? Adesso risponderemo alla sua domanda però aggiunge un’altra cosa:
che dire dei baci? Sono un oggetto astratto o concreto? /…/ questi interrogativi formano il cuore di quel ramo della filosofia che si chiama metafisica…
Sta parlando di due tesi, quella realistica e quella idealistica, note dai tempi antichi, ci fu nel medioevo una famosissima disputa, quella sugli universali, che verteva sulla domanda se le cose esistono realmente oppure si tratti soltanto di un, in accezione più moderna, di un apparato concettuale il cui compito è quello di individuare, definire, descrivere questi oggetti reali ma che in quanto tali non sono dati, non ci sono dati, è un po’ la tesi kantiana in fondo, anche lui sosteneva qualcosa del genere, cioè non è possibile percepire la cosa in sé, si fa un discorso intorno alla cosa in sé ma la cosa in sé c’è se no, intorno a cosa parliamo? Ma supponiamo di stabilire che le azioni non siano oggetti concreti, supponiamolo per un momento. Affermando questo che cosa abbiamo fatto esattamente? Abbiamo semplicemente deciso di usare un certo significante in un certo modo, è una decisione, tant’è che è possibile stabilire che un bacio sia un oggetto concreto come è possibile stabilire che non lo sia, naturalmente in base alle regole del gioco che abbiamo deciso di giocare il bacio sarà un oggetto concreto oppure non lo sarà, è semplice, se io stabilisco che il concreto si riferisce unicamente a ciò che ha per esempio una forma, un peso e quindi occupa uno spazio e un tempo, se io stabilisco che concreto è solo questo allora il bacio non è concreto perché non occupa uno spazio, non occupa uno spazio come lo occupa un oggetto il quale occupa uno spazio definito, se un oggetto è quello che è rimane quello che è non è che si modifica, mentre l’oggetto concreto permane ora naturalmente dipende dal criterio che io intendo utilizzare, qual è il migliore criterio? Quello che considera l’oggetto concreto come un qualche cosa che occupa uno spazio e che permane all’interno dello spazio identico a sé? O qualunque cosa che modifichi per esempio qualche cos’altro? O che abbia un perdurare nel tempo? In fondo chi mi impedisce di usare questo criterio? Sono giochi, in base alle regole che io stabilisco trarrò delle conclusioni, se io stabilisco che due assi battono due jack allora se ho due assi batterò due jack, se stabilisco il contrario allora vorrà dire che due jack battono due assi, dipende dalle regole del gioco che si sta facendo. Non intendere questo ha delle implicazioni e cioè trovarsi a sostenere con vigore una tesi che può essere sempre confutata, basta cambiare le regole di partenza e viene confutata immediatamente sia la tesi del realista che quella dell’idealista e questo comporta ancora trovarsi a scrivere un sacco di cose che non significano niente, non significano niente nel senso che al pari di qualunque gioco sono totalmente arbitrarie: sostenere che il bacio è un oggetto concreto e sostenere che il bacio è un oggetto astratto, queste due affermazioni sono entrambe arbitrarie e possono essere sostenute nel senso che se io stabilisco delle regole come ho fatto prima allora il bacio è un oggetto concreto se stabilisco altre regole allora il bacio è astratto, queste regole che io stabilisco sono necessarie? No, sono sempre arbitrarie e quindi posso definire il bacio esattamente come ritengo più opportuno. La conseguenza immediata di tutto ciò è che viene considerato il bacio, al pari di qualunque altra cosa, come un quid che esiste di per sé, un qualche cosa che esiste in natura, immaginando una cosa del genere è ovvio che qualunque definizione verrà data a una qualunque cosa muovendo da premesse che sono arbitrarie, per esempio quella che suppone che sia fuori dal linguaggio incapperà inesorabilmente in paradossi, in quelle cose che i medievali chiamavano irresolubilia, problemi che non hanno soluzione e la cosa sorprendente è che nessuno se ne accorge e si continua a scrivere all’infinito ponendo un problema e dando una soluzione e poi la soluzione contraria, e a quel punto la cosa si interrompe, e si pone un altro problema, questo problema si biforca in due soluzioni, queste soluzioni sono contraddittore fra di loro e il problema si interrompe e così via all’infinito. Nessun problema ha nessuna soluzione se non si pone la questione all’interno di ciò che lo costruisce, e sappiamo che è il linguaggio, se io muovo da premesse arbitrarie qualunque conclusione trarrò sarà sempre arbitraria necessariamente e pertanto confutabile, perché se le mie premesse sono arbitrarie chiunque qualunque altro potrà costruire altre premesse altrettanto arbitrarie, cioè altre regole del gioco e giungerà a conclusioni diametralmente opposte. Questo libro che ho avuto, merito di Eleonora, la fortuna di seguire procede esattamente in questo modo, ho fatto un esempio ma il problema è sempre lo stesso, e cioè il tipo di esistenza di un oggetto visto da un personaggio che si chiama realista cioè che lo vede come un oggetto concreto e immutabile e invece quell’altro che lo vede con piccole varianti, poi si aggiunge quello che considera anche il tempo come variabile per cui si giunge a considerare che una persona è sempre diversa da quello che è e quindi non ha mai una identità, perché per esempio le sue cellule invecchiano ogni giorno, quindi ogni secondo, potremmo anche dire ogni millesimo di secondo, ogni milionesimo di secondo, se invecchiano ogni giorno allora invecchiano anche ogni ora, quindi anche ogni minuto, ogni secondo e possiamo spaccare il secondo all’infinito e quindi questo ci condurrebbe a dire che la persona non è mai identica a sé, avremmo ragione? Dipende, se intendiamo porre la questione in questi termini cioè se giochiamo questo gioco il quale afferma che l’identità è data dal permanere le cellule identiche a sé all’infinito allora non c’è identità perché le cellule si alterano, naturalmente basta cambiare, modificare il criterio di identità e cambia tutto. Saul Kripke si chiede:
Un problema che si è presentato sovente nella filosofia contemporanea è il seguente: "Come sono possibili le asserzioni contingenti di identità?" Tale formulazione del problema è analoga a quella che Kant diede all'interrogativo: "Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?" Si è solitamente ritenuto vero — da parte di Kant, in un caso — che i giudizi sintetici a priori sono possibili, e — nella letteratura filosofica contemporanea, nell'altro caso — che sono possibili le asserzioni contingenti di identità. Io non intendo trattare il problema kantiano se non per illustrare questa analogia: dopo che un libro piuttosto voluminoso fu scritto nel tentativo di rispondere al problema di sapere come siano possibili giudizi sintetici a priori, vennero altri i quali affermarono che la soluzione del problema consiste nel riconoscere che i giudizi sintetici a priori sono, ovviamente, impossibili, e che un libro che cerchi di dimostrare il contrario sarebbe scritto invano. Io non discuterò su chi avesse ragione riguardo alla possibilità di giudizi sintetici a priori.
Che è una bella questione, un giudizio sintetico è un giudizio che procede dal giudizio, da una sintesi, distinto dall’analitico che invece è immediato, per esempio la percezione di un esistente potrebbe essere considerato analitico, immediato, non ha bisogno di un ragionamento, quindi un giudizio sintetico a priori, cioè che viene prima dell’esperienza sarebbe una contraddizione in termini…
Tuttavia, nel caso delle asserzioni contingenti di identità, la maggior parte dei filosofi ha avvertito che la nozione di asserzione contingente di identità incorre in qualcosa di simile al paradosso che ora esporrò. Contro la possibilità di asserzioni contingenti di identità si può infatti formulare il seguente argomento: In primo luogo, la legge della sostitutività dell'identità afferma che, per qualsiasi oggetto x e y, se x è identico a y allora, se x possiede una certa proprietà F, anche y la possiede:
(1) (x)(y)[(x = y) É (Fx É Fy)]
D'altra parte, è certo che ogni oggetto è necessariamente identico a se stesso:
(2) (x) q (x = x)
(il segno q indica “è necessario che”)
Ma
(3) (x) (y) (x = y) É [ q (x = x) É q (x = y)]
è un esempio di sostituzione in (1), cioè nella legge di sostituti-vita. Da (2) e (3) possiamo concludere che, per ogni x e y, se x è uguale a y allora è necessario che x sia uguale a y:
(4) (x)(y)[(x = y) É q (x = y)]
Questo perché l'antecedente q (x = x) del condizionale scompare per il fatto che si sa che è vero.
Questo è un argomento che è stato avanzato molte volte nella recente filosofia. Tuttavia, la sua conclusione è stata spesso considerata paradossale. Per esempio, David Wiggins, nel suo saggio Identity-Statements, afferma:
Ora, non c'è dubbio che esistano asserzioni contingenti di identità. Sia a = b una di esse. Dalla semplice verità di questa asserzione e da (5) [ = (4) sopra] possiamo derivare
"q (a = b)". Ma allora come possono esserci delle asserzioni contingenti di identità?
Continua dicendo che ci sono cinque diverse reazioni possibili a questo argomento, ma le respinge tutte e ne formula una propria. Io non intendo discutere tutte le possibili reazioni a questa asserzione, ma voglio ricordare la seconda di quelle che Wiggins respinge. Egli dice:
Potremmo accettare questo risultato adducendo come giustificazione che, a condizione che "a" e "b" siano nomi propri, non c'è alcuna incongruenza. La conseguenza di questa posizione è che con i nomi propri non si può fare alcuna asserzione contingente di identità.
Egli poi afferma di ritenere insoddisfacente questa soluzione, come del resto molti altri filosofi, mentre altri ancora l'hanno sostenuta.
Cos'è che fa sembrare sorprendente l'asserzione (4)? Essa afferma che, per tutti gli oggetti x e y, se x è y allora è necessario che x sia y. Ho già ricordato che si potrebbero fare delle obiezioni a questo argomento col pretesto che la premessa (2) è falsa, cioè che non si dà il caso che ogni cosa sia necessariamente identica a se stessa. Per esempio, io sono necessariamente identico a me stesso? Qualcuno potrebbe dire che in alcune situazioni che possiamo immaginare io avrei potuto non esistere neppure, per cui l'asserzione "Saul Kripke è Saul Kripke" sarebbe stata falsa, oppure non si sarebbe dato il caso che io fossi identico a me stesso. Forse, in un mondo siffatto non sarebbe stato né vero né falso dire che Saul Kripke è identico a se stesso. Bene, può darsi che le cose stiano cosa, ma in realtà tutto dipende dalle opinioni filosofiche che uno ha riguardo a un problema che non discuterò: quello di sapere che cosa si debba dire dei valori di verità di asserzioni che menzionano oggetti che non esistono nel mondo attuale, oppure in un qualunque mondo possibile o situazione controfattuale. Qui ci atterremo all'accezione debole della necessità. Possiamo considerare necessaria una asserzione se, ogniqualvolta esistono gli oggetti menzionati in essa, l'asserzione risulta vera. Se volessimo essere molto accurati su questo punto, dovremmo affrontare il problema dell'esistenza considerata come predicato e chiederci se l'asserzione può venir riformulata in questa forma: Per ogni x è necessario che, se x esiste, x sia identico a se stesso. In questa sede non esaminerò questa particolare forma di sottigliezza perché essa non presenta alcuna attinenza al mio tema principale. Né ho veramente intenzione di prendere in considerazione la formula (4). Chiunque ritenga vera la formula (2) è costretto, secondo me, a riconoscere vera la formula (4). Se x e y sono la stessa cosa e noi possiamo parlare delle proprietà modali di un oggetto, cioè — come si dice comunemente — se possiamo parlare di modalità de re e di un oggetto che, in quanto tale, possiede necessariamente certe proprietà, allora, a mio parere la formula (1) deve valere.
Può apparire bizzarro non tanto quello che dice lui cioè che per tutte le x, x = x cioè sia uguale a se stessa ma il fatto di giungere attraverso queste formulazioni ad affermare che necessariamente x = y senza accorgersi di una cosa fondamentale, che nel parlare dell’identità per sua stessa ammissione l’identità viene definita come il possedere le due cose esattamente le stesse proprietà, perché se diciamo che una cosa ha delle proprietà e l’altra ne ha di diverse non possiamo più dire che sono identiche, ma diremo che sono diverse e allora concludere che x = y di fatto pone già un problema perché la x non è la y. Severino è uno dei pochi abbastanza acuto da accorgersi di una cosa del genere, cosa che lui ha portata ancora aldilà considerando non più soltanto x = y ma x = x ricordate, A è A, anche qui si accorge che c’è un terzo elemento che inesorabilmente compare. L’ingenuità di questi personaggi è quella del luogo comune, cioè quella che muove dall’idea che le cose siano quello che sono necessariamente ma senza sapere perché, perché debbano essere quello che sono necessariamente, e partendo da questo criterio cercano di dimostrare che sono quelle che sono, dimostrare le premesse da cui parte. Queste premesse che per i logici non sono nient’altro che il modo naturale di pensare, ma dimostrare che questo sia il modo naturale di pensare non lo possono fare, è un assunto, un atto di fede. Qualunque cosa interrogata su se stessa, interrogata cioè richiesta di esibire da sé la propria esistenza non lo può fare, non lo può fare mai, non solo, non potendolo fare produce quei fenomeni noti come paradossi: se una cosa deve dimostrare di sé di esistere, di essere quello che è necessita di un qualche altra cosa che gli consenta di compiere questa operazione evidentemente e quindi è come dire che una cosa è autoreferente cioè si riferisce a se stessa se e soltanto se non si riferisce a se stessa, questo è il paradosso dell’autoreferenzialità, qualunque cosa che debba dimostrare di essere identica a sé per poterlo dimostrare necessita di un terzo elemento che sta al di fuori e quindi non potrà mai essere autoreferente, e questo Severino l’aveva notato, dire che A è A non può essere autoreferente, ha bisogno di un passaggio in mezzo, quel passaggio che impedisce che la cosa sia autoevidente, immediatamente evidente, ma ha bisogno di un altro elemento sempre e necessariamente. Ora questa notazione sarebbe sufficiente a rendere tutto questo libro vano, vi chiederete legittimamente perché ha scritto questo libro? A che scopo? Per indicare dei problemi di cui non conosce la soluzione? Dio può servire alla bisogna certo il problema in effetti sorge quando si abbandona dio perché finché c’è dio lui è responsabile di tutto, è lui che garantisce che le cose siano identiche a sé, dal momento in cui dio, come diceva Nietzsche, è morto, ecco che le cose, orfane di dio, hanno dovuto mostrare se stesse da sé…
Intervento: la posizione dei lacaniani… la differenza da sé, l’assenza di identità…
Intervento: è sempre la questione del soggetto ontologico che esprime delle cose perché il linguaggio è un mezzo…
Conclude così dunque Kripke:
Il materialista si trova quindi di fronte a un compito molto difficile. Deve mostrare che le cose che noi pensiamo di poter concepire come possibili non sono in realtà possibili. Deve mostrare che le cose che possiamo immaginare non sono in realtà immaginabili. E ciò richiede un'argomentazione filosofica di tipo molto diverso da quella che è stata svolta nel caso del calore e del movimento molecolare. Dovrebbe essere un'argomentazione più profonda e più sottile di quella che sono in grado di sviluppare io, e più sottile di tutte quelle che sono state suggerite nella letteratura materialistica che ho esaminato. La conclusione dei nostro esame sarebbe dunque che gli strumenti analitici che impieghiamo contrastano con la tesi dell'identità, e quindi con la tesi generale secondo cui gli stati mentali non sono che stati fisici.
Non si è accorto di quello che sta dicendo: “gli strumenti che usiamo”, cioè il linguaggio, contrasta con la tesi che afferma che l’identità è identica a sé nel senso che proprio per via del linguaggio, se c’è il linguaggio questo contrasta l’affermazione che A è A, la contrasta nel senso che impedisce ad A di dire da sé di essere identica a sé, cioè ha bisogno di un’altra A, una soggetto e l’altra predicato diceva Severino, non si accorge di quello che sta dicendo avesse avuto un lampo di genio si sarebbe accorto “già quali strumenti sto usando? Sto usando il linguaggio che funziona in questo modo, perché funziona in questo modo?” E naturalmente non tenendo conto di questo non ne viene fuori né può uscirne. Il discorso occidentale non può uscire dai suoi paradossi in nessun modo, finché un elemento viene considerato fuori dal linguaggio c’è un paradosso, anzi direi come abbiamo detto tante volte che la madre di tutti i paradossi è l’affermazione che dice che un qualunque elemento x è fuori dal linguaggio, questo è il paradosso, come dire che è fuori dal linguaggio se e soltanto se non lo è e cioè se posso parlarne, posso dirne, posso pensarne e allora posso dire che è fuori dal linguaggio ma è paradossale perché ho appena detto il contrario e tutti i problemi filosofici hanno questa natura, come quelli del discreto e del continuo, c’è passaggio tra i due? O l’uno dal molteplice, tutte questioni che non hanno nessuna possibile soluzione tant’è che sono tre mila anni che gli umani si adoperano per arrivare da nessuna parte, e non lo possono fare, di questo non si sono accorti, non c’è soluzione se la questione è posta in quei termini non c’è soluzione in nessun modo quindi possono pensarci altri tre mila anni se avranno voglia di farlo senza venire mai a capo di niente. Non è casuale che alla fine di tutto questo percorso abbiano inventato l’ermeneutica, l’ermeneutica non è una cosa recente, è antichissima, c’è un testo di Aristotele che porta questo nome, tradotto in latino con De Interpretazione. L’interpretazione non è altro che un metodo, una tecnica che cerca di intendere che cosa un testo vuole dire, lasciando però perdere l’eventualità che questa interpretazione sia unica, infatti l’ermeneutica praticamente è soltanto usata nel campo artistico, letterario, come critica letteraria. Come dire che si gira intorno al testo che nessuno può leggere in quanto tale perché ciascuno da una sua interpretazione, quindi è come se non ci fosse però si danno varie interpretazioni e questo è quanto di meglio la filosofia possa fare o sappia fare da quando si è abbandonata la metafisica, la metafisica dava un centro, il centro è questo esiste e c’è, l’ermeneutica dice che non c’è più la metafisica è morta, si può soltanto girare in tondo senza raggiungere mai il centro. Ma torniamo alla questione iniziale. Dipende unicamente dalle regole del gioco che vogliamo fare, facciamo un certo gioco e allora il testo non c’è come voleva Derida, oppure il testo c’è, esiste necessariamente e allora si può interpretarlo certo ma c’è una giusta e corretta interpretazione, se il testo esiste in quanto tale allora c’è una sola interpretazione corretta se invece non c’è allora è soltanto il prodotto dell’interpretazione. Per Derrida questo libro non esiste ma è soltanto ciò che lei intende di questo libro, in quanto tale non c’è quindi va al di là ancora delle domande che si poneva Varzi, non se esiste o non esiste come oggetto concreto o astratto, non esiste, esiste soltanto ciò che io leggo di questo libro, che io capisco di questo libro ma il libro non esiste, che è la posizione ermeneutica più avanzata. Naturalmente anche questo non è altro che un gioco linguistico, è possibile sostenerlo naturalmente se si danno come acquisite certe premesse, se non si ammettono queste premesse no, e queste premesse abbiamo visto che sono sempre e comunque arbitrarie…
Intervento: anche l’interpretazione segue certe premesse…
Sì, sarebbe come dire che l’interpretazione sarebbe l’unico elemento che sfugge all’interpretazione, perché se interpreto l’interpretazione ne do un’accezione ancora una volta differente. Se vogliamo fare questi giochi possiamo andare avanti all’infinito, ma non arriveremo mai da nessuna parte.