INDIETRO

 

 

22 dicembre 2021

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

Heidegger a un certo punto, ne Il Sofista di Platone, dice così. Il τέλος della φρόνησις non è un πρς τ. Il fine di questo muoversi circospetto non è diretto verso qualche cosa, perché dice che è άνϑρωπος stesso, cioè l’uomo stesso, è il retto essere dell’uomo, cioè il fine di tutto ciò è il retto essere dell’uomo. Questo però è ζοπρακτική μετά λόγου (l’essere vivente che agisce nel linguaggio). Questo τέλος è un essere in vista di. Ora, in quanto l’esistere è scoperto come un in vista di, risulta già prefigurato anche in vista di che cosa ci si debba di volta in volta prendere cura. Ecco che se l’esistere è οὗνεκα (l’essere in vista di qualche cosa) in un sol colpo è afferrata anche l’ρχή del deliberare della φρόνησις. Questi ρχαι, questi principi, sono l’esistere stesso; esso si sente situato, sta rispetto a se stesso in questo e in quest’altro modo. L’esistere è l’ρχή della deliberazione della φρόνησις. Qui sta dicendo che il τέλος, il fine, è il principio stesso. Il fine è l’uomo, ma il fine della conoscenza dove va a parare? Nell’uomo, perché è l’uomo l’unico ente che si chiede che cosa siano gli enti. L’umano è un ente, è qualcosa che è, è in mezzo a un’infinità di altri enti, però è l’unico ente che può porsi delle domande intorno all’ente. Tutto questo ci avvicina alla questione da cui siamo partiti, e cioè che cos’è un ente e cosa serve per poterlo dominare. Io utilizzo gli enti ma, per poterli utilizzare devo sapere che cosa sono. Ora, come sappiamo, siamo circondati da enti e ciascuno è tutti quegli enti da cui è circondato. Heidegger parla dell’esserci (Dasein) e questo esserci è un esserci nel mondo, cioè negli enti, ma non è che sia in mezzo agli enti come una sorta di “ospite tra gli enti”, no, lui è tutti questi enti. Sta qui la questione straordinaria che a un certo punto pone Heidegger.

Intervento: È come se ponesse la questione dell’uno e dei molti…

È la stessa questione che ritorna e viene affrontata in vario modo, ma ogni volta la si incontra inesorabile perché è il principio stesso su cui funziona il linguaggio. Qui aggiunge una cosa. Esistere può essere corrotto da δον λπη (il piacere e il dolore). Questo solo per dire che il retto modo di dirigersi verso qualche cosa non deve essere disturbato né dal piacere né dal dolore. Ma questo a noi interessa molto poco. Andiamo, invece, a una questione più interessante che qui lui pone rispetto alla σοφία. Perché la domanda intorno alla conoscenza? La domanda intorno alla conoscenza è la domanda intorno a che cos’è l’ente, a come faccio a sapere che cos’è un ente, come faccio a essere sicuro di che cos’è u ente. Il sapere più sicuro, più certo, per i Greci è la σοφία, il sapere assoluto. La σοφία è la modalità di attuazione del puro conoscere, del puro vedere, del puro θεωρέιν, essa è il βίος θεωρέτικος (la vita contemplativa). La parola θεωρέιν era già nota prima di Aristotele, egli è stato il primo a usare il termine θεωρέτικος (teoretico). Il termine θεωρέιν, teoria, deriva da θεωρως, che composto da θε, sguardo, guardare, e da ρω, vedere. … è il guardare che fa vedere il modo in cui qualcosa si staglia. Ha un significato simile a εδος (immagine). Θεωρως è dunque colui che il suo guardare osserva, sa osservare ciò che si offre alla vista. Θεωρως è chi frequenta una festa, che è presente ai giochi, alle grandi celebrazioni in veste di spettatore, qualcosa che ha a che fare con il nostro teatro. Il vedere vi è espresso due volte. Non è qui possibile approfondire più da presso questa storia del significato di questa espressione, ci basti ricordare che nel periodo immediatamente precedente a Plotino, nel II e III secolo, il termine ϑεωρία veniva letto così: in theo c’è la radice θεον, θες, θεωρέιν significa volgere lo sguardo al divino. Questa è una specifica etimologia greca che venne offerta ad esempio da Alessandro di Afrodisia. Si tratta di una differente lettura basata su certe affermazioni di Aristotele, che però non coglie il senso vero e proprio di questa parola. Θεωρία venne tradotta in latino con speculatio, un termine che indica il puro considerare; dunque, speculativo è sinonimo di teoretico, in seguito, la parola ϑεωρία ha rivestito un ruolo importante in teologia dove era contrapposta ad allegoria: la ϑεωρία è quel modo di osservare che mette in luce i fatti storici così come essi sono prima di ogni allegoria; ϑεωρία diventa la stessa cosa che στορία. Infine, essa è identificata con la teologia biblica e con la teologia in genere. Considerazioni etimologiche sulla parola ϑεωρία. Trattandosi qui di delimitare la σοφία rispetto alla φρόνησις, è necessario chiarire la genesi di questo atteggiamento della σοφία. Da tale analisi della γένεσις e della σοφία otterremo che l’orizzonte entro cui comprendere che la σοφία è al tempo stesso ρετή della τέχνη e dell’πιστήμη. Cosa vuol dire “ρετή della τέχνη e dell’πιστήμη? Vuol dire che è il fine; ρετή è letteralmente la virtù ma si intende anche come il giusto fine, il compimento, quindi, sia della τέχνη che dell’πιστήμη. Ricordate che la τέχνη la distingueva dall’πιστήμη: metteva insieme πιστήμη e σοφία, da una parte, e τέχνη e φρόνησις, dall’altra, dove πιστήμη e σοφία sono quelle pratiche che hanno come unico fine se stesse, la contemplazione; mentre la τέχνη e la φρόνησις sono… la τέχνη è il fare in vista di qualche cosa e la φρόνησις il decidere che cosa è bene fare e cosa per ottenere un certo scopo. Con tecnica possiamo utilizzare la definizione che dà Heidegger nel suo saggio sulla tecnica, e cioè come la produzione di strumenti in vista di scopi. Bisognerà mostrare dunque per quale ragione la τέχνη, che pure mira propriamente a una ποίησις, rappresenti in virtù della sua struttura più propria un preludio alla σοφία. Questo è interessante perché alla σοφία, a questo sapere assoluto, arriva dalla τέχνη, dal volere cioè fare qualcosa per qualche cos’altro, quindi, da un τέλος, da un obiettivo, da un fine, da un volere fare qualcosa. Non c’è prima la σοφία e poi la τέχνη. Questo è interessante, perché è soltanto dalla τέχνη, da un volere fare qualcosa, cioè, è dal volere modificare l’ente che si trae un sapere sull’ente. La σοφία è la più rigorosa delle scienze, ἀ-κριβς è formato allo stesso modo a λήθη, alfa privativo, e κρπτον, s-velato, un termine con cui Aristotele indica un carattere del conoscere nel senso dello scoprire. Dato che la σοφία è la più rigorosa delle scienze, e cioè quella che scopre l’ente nel modo più autentico, Aristotele può dire il σοφς, il sapiente, deve dunque conoscere non soltanto l’ente a partire dalle ρχαι (dai principi) ma deve anche essere scoprente entro il raggio delle ρχαι in modo che la σοφία νος και πιστήμη (intelletto e conoscenza certa) e, essendo per così dire al vertice di tutto, sia πιστήμη e ignotata (gli oggetti più eccellenti). Poiché la σοφία è la più rigorosa delle scienze, essa si rivolge agli τιμιώτατα, gli oggetti del conoscere che sono più eccellenti, vale a dire ciò che è sempre, in modo da scoprire gli ρχαι. Per questo essa è al vertice, occupa il primo posto … ληθεειν (questo essere scoprente visivamente). Qui c’è un’altra questione: lo scoprire ciò che è sempre. Il principio deve corrispondere a qualcosa che è sempre: io vado alla ricerca dei principi e, mano a mano che analizzo, elimino quelle cose che non sono sempre, che sono accidentali, che possono esserci ma anche no, fino a raggiugere ciò che è sempre, ciò che non può non essere. Questo è il criterio fondamentale, ciò che si cerca nella σοφία, e la σοφία sarebbe il sapere di tutto ciò, un sapere che, al punto in cui siamo, corrisponde a un sapere del linguaggio. Come sappiamo, per il greco la vista ha la priorità su tutto, però, dice Heidegger, c’è anche l’udire, άκούειν, da cui acustico. L’udire è lo statuto fondamentale dell’uomo in quanto è parlante. Tra le sue possibilità vi è, oltre al parlare, l’ascoltare. È in quanto può ascoltare che l’uomo può imparare. Entrambi i sensi, l’udire e il vedere, mantengono una priorità in direzioni differenti: l’ascoltare rede possibile la comunicazione, l’essere compresi dagli altri; il vedere invece possiede la priorità dell’apertura primaria del mondo, tale per cui ciò che è stato visto può essere discusso e acquisito in modo più dettagliato nel λόγος. Tutte queste cose che ci racconta Heidegger possono essere lette in molti modi, come sempre accade, naturalmente, e cioè come una serie di considerazioni metafisiche e ontologiche, ma il Sofista di Platone può anche essere letto come una istruzione per manipolare l’ente, che cosa occorre sapere per poterlo manipolare, ed è questo modo che a noi interessa. Tutte queste cose, che Aristotele dice e che qui riprende Heidegger, sono soltanto dei modi in cui è possibile determinare l’ente. Il problema che lui mano a mano incontra è che per determinare l’ente occorre, certo, conoscerlo ma per poterlo conoscere occorre che sia fermo, che sia uno. Ecco, allora, il discorso che lui fa: Ciò rispetto a cui risulta provvisorio il far presente in quel contesto è in ultima istanza il rendere disponibile l’ente nella sua presenza, οσία, in una regressione scoprente che risale a ciò che c’è già per sempre. Questo sarebbe quell’elemento che è fermo, fisso, che consente quindi un sapere assoluto, la σοφία, intorno all’ente. Però, come è facile immaginare, sorgono dei problemi, che riguardano questo i due termini greci che lui utilizza sono καθόλου e καθκαστον. Καθόλου è la forma abbreviata di καθά e λον, cioè, il tutto, l’intero. καθκαστονn è la forma abbreviata di καθά καστον, dove καστον è il particolare, il singolare, il ciascuno. Usando i termini di Severino καθόλου è il concreto, καθκαστον l’astratto. Il problema che sorge, e che Aristotele ha colto, è che noi cogliamo il καθόλου soltanto attraverso gli astratti. Il καθόλου è un determinato λον (tutto). Esso è contraddistinto dal fatto che il suo essere è determinato dall’accessibilità mediante il λόγος. È un λον λεγμενον, cioè, è un detto su tutto. Concreto. Il καθόλου non può mai essere scoperto in una ασθησις (percezione)… Non può essere percepito. …che si attenga al puro semplice sembiante. Per vedere il καθόλου devo parlare, rivolgermi a qualcosa in quanto qualcosa. In questa differenza tra λόγος e ασθησις (tra il dire e la percezione) sta anche quella tra καθόλου e καθκαστον. Il καθκαστον è l’ente così come esso si presenta innanzitutto cioè nella ασθησιςCome viene percepito, potremmo dire il fenomeno. Il καθόλου è qualcosa che si mostra solo e unicamente nel λέγειν (nel dire)… È nel dire che si mostra. Questa distinzione concerne la questione fondamentale, e cioè in che modo e secondo quale gradualità l’ente sia accessibile nella autenticità del suo essere. In effetti, è una questione centrale: il καθόλου non lo posso percepire, ciò con cui ho a che fare sono i particolari, l’astratto, è solo questo che io vedo, che posso considerare. Tutto il discorso che fa Severino sulla lampada è già qui in Aristotele. Questa “lampada che è sul tavolo” io non la posso vedere né prendere in considerazione, come intero, come concreto, se non astraendo, per cui questo concreto di fatto non c’è mai, perché io ho sempre a che fare con degli astratti, con dei particolari. L’esistere possiede due possibilità estreme di essere scoprente, che sono prefigurate nella distinzione di cui si è detto, quella fra καθκαστον e καθόλου. Questa distinzione è fondamentale perché è la distinzione che c’è tra l’uno e i molti. Considerate, per esempio, il segno nell’accezione di de Saussure, significante e significato: io posso dire il significato del significante? Sì, posso dirlo, ma dicendolo non è un significato, quello che io dico sono significanti. E il significato dove è andato? Ciascuno di questi significanti, che io dico per dire il significato, a sua volta ha altri significati, e così via. Quindi, il significato, nonostante sia ciò che fornisce al significante il suo esistere, di fatto non è in nessun modo coglibile; eppure, se non ci fosse non esisterebbe nemmeno il significante. Ma cosa posso dire del significato? Solo significanti. È il problema di Heidegger: cosa posso dire dell’essere? Soltanto enti. Se io mi chiedo che cos’è l’essere, già pongo l’essere come un qualcosa, e cioè come un ente. E l’essere? Al tempo stesso appare chiaro che l’ente, anche se l’osservazione più immediata attesta che esso è presente, non è ancora l’λήθεια. L’ente nel suo essere scoperto, così come risulta evidente che ciò su cui si filosofa, è appunto proprio l’λήθεια. Questo non significa fare speculazioni sulla verità, in che senso ν (ente) sia equiparato all’λήθεια risulterà chiaro solo quando si sarà fatta luce sull’λήθεια. Perché l’ente di cui io ho bisogno deve essere vero, reale, autentico, cioè qualche cosa che si deve mostrare per quello che è, solo così lo posso manipolare, controllare. Nondimeno, sebbene nella ασθησις sia la presenza uno scoperto poco familiare, proprio da esso che occorre partire. Nella ασθησις, nella percezione, c’è, sì, qualcosa di scoperto, che incontro, un fenomeno, però, dice, è poco familiare, nel senso che io non ne so molto: vedo una cosa, certo, ma non è che ne sappia chissà che cosa di quella cosa. Dice che è proprio da esso che occorre partire. Infatti, questo scoperto, per quanto lo sia malamente, ci è pur sempre familiare, è cioè l’unica base che abbiamo a nostra disposizione. Partire dalla percezione, dalla ασθησις. Non si parte dalla σοφία e nemmeno dall’πιστήμη, ma dalla percezione, da ciò che si incontra, da ciò che si conosce malamente, e cioè dalla chiacchiera. D’altra parte, che cosa diceva Aristotele nella Metafisica? Ciò che i più credono che sia vero, se in tanti pensano che sia vero partiamo da questo vero per andare avanti. Non ci resta quindi che prendere le mosse da ciò che è, sia pur malamente scoperto. Dobbiamo appropriarci espressamente di questa base, senza balzare al di là di una realtà, che una teoria ha bollato come cattiva, in direzione di un essere ulteriore, come ha fatto appunto Platone. Non si tratta di porre come με ν (come non-ente) ciò che è malamente scoperto, ci è innanzitutto inaccessibile, bensì bisogna partire da esso passando attraverso il malamente scoperto come tale. Vedere ciò che è puramente e propriamente accessibile… Ciò che si vede, ciò che appare: il fenomeno. Platone adottò invece un procedimento diverso, pervenne a un certo senso dell’essere, anche se non in modo così radicale come fece Aristotele, e quindi gli accadde di riguardare questo essere come l’ente in senso proprio, dovendo di conseguenza chiamare non-ente ciò che invece è propriamente l’ente. Aristotele ha intuito perfettamente questo errore peculiare, compiendo un’impresa la cui portata per un greco noi oggi non possiamo nemmeno immaginare. Cosa ha fatto Platone? Ha scambiato l’essere con l’ente, semplicemente. …riguardare questo essere come l’ente in senso proprio, cioè, ciò che appare è l’essere; ciò che non appare, che dà consistenza a questa cosa è ciò che non è essere, perché se l’essere è ciò che mi appare tutto il resto è non-essere. Ma Aristotele ha colto bene: no, dice, è il contrario, l’essere è in potenza… È come il significante: se non c’è il significato questo essere necessita dell’ente per potere essere. Se prendo ciò che mi appare come l’essere, ciò che non appare, cioè il significato, ciò che quella cosa propriamente è, diventa il non-essere, ma Aristotele dice che non è esattamente così perché ciò che mi appare è quello che è perché c’è il non-essere. Vi ricordate la questione della δύναμις e dell’ένέργεια, della potenza e dell’atto: l’entelechia è l’unione di essere ed ente. Se io tolgo l’ente all’essere, immaginandolo come non-ente, cancello anche l’essere, perché l’essere è determinato dall’ente. Sembra complicato ma in realtà è molto semplice. È quello che vi dicevo prima rispetto al significante e al significato: il significato non posso porlo se non come significante, sono quelli che io dico, il significato non lo posso dire, l’essere non lo posso dire, posso immaginarlo ma non lo posso dire, ciò che dico sono sempre e soltanto enti. Invece, in Platone il problema è rimasto quello, cioè per lui l’essere è la Forma, e ciò che non è questa Forma è non-ente, cioè non è. Quindi, ente e non-ente, da qui poi la considerazione che l’ente sia l’Uno e il non-ente i molti, cioè il significato: l’Uno il bene, i molti il male. In conformità alla nostra φύσις, al nostro esistere, la via che dobbiamo percorrere è determinata dalla ασθησις. Essa procede da ciò è più familiare per noi, a ciò che è più accessibile per sua natura. Qui la formulazione è persino più forte di quella contenuta nei Topici. Infatti, non è la stessa cosa ciò che è familiare per noi e ciò che lo è di per sé. Questa considerazione è seguita dalla descrizione più precisa… Ciò che si deprime è δλον (manifesto) per noi è ancora più confuso… Ciò che si manifesta è ancora confuso, l’ente che mi si mostra non so che cos’è, è indistinto. Un corpo è dato anzitutto come un insieme confuso; superfici, linee e punti sono dati solo indistintamente. Nel manipolare il corpo quello che si vede è anzitutto soltanto il corpo. Dunque, a partire da questo accede agli στοιχεα, agli elementi, come superfici, linee e punto, e alle ρχαι, alle origini a partire dalle quali il corpo perviene all’essere secondo la sua costituzione d’essere. Il punto, l’insieme confuso diventa distinto per via di scomposizione. Questo διαίρειν (dividere, scomporre) è la funzione fondamentale del λόγος, il λόγος scompone discutendo. Parlando si scompone, cioè, si analizza. Questo scomporre ha un fine, un τέλος: giungere alle ρχαι, ai principi, a ciò che è sempre, che non muta. Qui parla di quattro momenti essenziali della σοφία. Il σοφός, il sapiente, appare innanzitutto come colui che sa παντα, tutto quanto, e che comprende tutto in modo peculiare, senza tuttavia avere un sapere che guarda καθ' καστον (che guarda i particolari) ciascuna singola cosa separatamente, senza possedere in tutto conoscenze specifiche e dettagliate, e nonostante ciò, quando se ne discorre con lui, capisce ogni cosa, capisce per davvero. Qui è da notare che nel discorso naturale παντα significa l’insieme, la somma. Il σοφός capisce τά παντα, l’insieme, la somma, senza però avere ottenuto una conoscenza καθ' καστον (del particolare), la conoscenza d ciascuna cosa per sé. Comprende la somma senza avere attraversato ciascuna unità. Questo discorso riguarda Aristotele; come aveva detto all’inizio, partiamo da Aristotele e torniamo a Platone. La σοφία è un πιστήμη che si pratica semplicemente in vista di se stessa… Mentre l’πιστήμη è sì un sapere certo, però sempre riferito a qualche cosa. …cioè in essa qualcosa viene scoperto unicamente in vista dello scoprire stesso e non avendo di mira ciò che potrebbe derivarne, vale a dire, la sua utilizzabilità pratica. La σοφία è quell’πιστήμη che è determinata soltanto dalla pura tendenza alla visione, essa ha luogo esclusivamente per vedere e vedendo sapere. Come tale essa guida e indirizza e prescrive. È su queste questioni che Nietzsche eleva una serie di obiezioni. Lui stesso qui dice per vedere e vedendo sapere, ma questo sapere è un sapere per qualche cosa, è un sapere per il superpotenziamento, sennò a che scopo dovrei cercare di sapere. Se è fine a se stesso, che me ne faccio? Assolutamente nulla, se non immaginando che questo sapere mi fornisca degli elementi che mi consentono il superpotenziamento, cioè di conoscere sempre meglio tutto ciò che mi circonda e, quindi, di poterlo gestire, di poterlo controllare. In che senso il σοφός (il saggio, il sapiente) comprende tutto? Il σοφός sa tutto perché dispone sommamente della facoltà di scoprire in generale. Essendo la σοφία un εδναι καθόλου, un tutto che si mostra, il σοφός capisce necessariamente παντα, tutto quanto. C’è da notare che la comprensione immediata vede il tutto come un insieme e, quindi, la comprensione del tutto le risulta tanto più oscura quanto le manca la conoscenza della singolarità come un tutto. Aristotele spiega questo παντα come uno ὄλον, nel senso del καθόλου. Al posto del παντα egli pone un ὄλον. Ora, non dice più il σοφός vede il tutto come somma di singole cose, anzi, il σοφός capisce quello che ciascuna singola cosa è insieme con le altre. Diremmo con Severino: coglie il concreto senza avere necessariamente una conoscenza dettagliata degli astratti. Naturalmente qui si pone un problema: come conosco il tutto? Come conosco questo όλόν se non attraverso gli astratti, attraverso deli elementi particolari, singolari? Adesso risulta che il παντα, di cui dispone il σοφός si fondano nell’ὄλον inteso come καθόλου (intero). Questo è propriamente il παν, il tutto, quindi, ἐν σοφός, il saggio. In questo capire tutto ne va del καθόλου, che è un ὄλον λεγόμενον (un dire del tutto); in altri termini, è in gioco un λεγόμενον affatto speciale, il λόγον ἐκεῖν, cioè un dire in vista di qualcosa. È per questo che Aristotele dice “Nella σοφία l’importante è questo, che il perché, ατιον, la causa, sia ricondotto al λόγος estremo, all’estremo chiamare in causa l’ente nel suo essere. La scoperta del καθόλου non ha bisogno di attraversare ciascuna singolarità prendendone esplicita conoscenza e non è da intendere come la somma di singolarità. In effetti, il concreto non è la somma dei vari astratti. “Questa lampada che è sul tavolo” non è la somma di tante cose, è il tutto, è l’intero, è l’Uno.

Intervento: Tra l’altro, la somma sarebbe il cattivo infinito…

Esatto. Oltre a essere una somma di astratti e, quindi, non è più l’intero. L’intero è il linguaggio, è il linguaggio che si pone come il concreto. Io on posso dire il linguaggio se non dire degli astratti del linguaggio, cioè degli elementi che di volta in volta posso discutere, considerare, ecc., ma il linguaggio non lo posso dire. Ciò è dovuto al fatto che fin da principio il σοφός compie già il balzo in direzione di quella totalità autentica, a partire dalla quale riceve l’orientamento per discutere i singoli casi concreti. È per questo che egli è in grado, pur senza possedere conoscenze settoriali, di dire da ultimo la sua nelle cose importanti. Così Aristotele riconduce il discorso generale sul παντα epistatzai, dimensione dello ὄλον come καθόλου. Il discorso generale su tutte le cose della conoscenza ha la dimensione del tutto, dell’intero. Come dire che si accorge che esistono le cose, il particolare, grazie all’universale, grazie al concreto. Io posso conoscere dei particolari perché sono nel linguaggio, sennò non potrei conoscere niente; è il linguaggio che mi dà l’opportunità di potere astrarre qualche cosa, ma astrarlo da che? Dal linguaggio, dall’intero, dal tutto. Qui adesso c’è una questione. I fondamenti dell’ente nel suo essere, ciò che è fondamentale in sommo grado, ciò che penetra in massimo grado nel da dove primario. Queste determinazioni prime, le prime determinazioni dell’ente, essendo più originarie oltre che essere semplici in sé, devono anche essere afferrate nel modo più netto, perché sono le più esigue di numero. La peculiarità delle ρχαι risiede nel fatto che esse sono limitate in quanto a numero. Ma tutto questo è necessario delimitare q uante esse siano (ρχαι) e conoscerle. E, quindi, solo per il fatto che ρχαι sono limitate è possibile, anzi, assicurata una determinazione dell’ente nel suo essere, una considerazione dell’ente come ορισμός, quindi, la scienza come forma di conoscenza definitiva. Cioè, come fondamento. E qui avviene il passaggio alla questione del numero. Il numero ha pochi principi e, quindi, è più facilmente conoscibile, determinabile. Il rigore della scienza, illustrato da Aristotele sulla scorta della μαθτεματική della αριτπητική e della γεωμετρία, le discipline più rigorose e più profonde sono quelle che muovono da poche ρχαι e dunque pongono meno determinazioni originarie nell’ente di cui si occupano. Ecco, dunque, ciò che distingue l’aritmetica dalla geometria, l’aritmetica ha meno ρχαι della geometria, e in geometria si trova, quanto alle ρχαι, una πρόσθεσις , un’aggiunta. Per capire questo dobbiamo brevemente orientarci su ciò che Aristotele intende per matematica… Dunque, la questione della matematica, come il cercare quell’ente più semplice, sul quale appoggiarsi, per intendere poi gli enti più complessi. È questo che ha condotto, prima Platone e poi Aristotele, a un interesse verso i numeri. L’ente geometrico consta di una molteplicità di elementi fondamentali, punto, linea, ecc., che sono i confini, πἐρατα, delle figure geometriche superiori. Ciò non significa che però queste ultime si confondano con tali limiti. Aristotele sottolinea che dai punti non nasce mai una linea, da una linea mai una superficie e da una superficie mai un solido. Fra due punti, infatti, c’è sempre una γραμμή (qualcosa che sta in mezzo). Aristotele assume una posizione di nettissimo contrasto rispetto a Platone. Certo, i punti sono le ρχαι dell’ente geometrico ma non in modo tale che le figure geometriche superiori possano essere costruite per la somma dei punti. Non è possibile procedere dalla στιγμή σμα, dal punto alla forma, non è possibile mettere insieme i punti per formare una linea, dal momento che ogni volta si frappone qualcosa che non può a sua volta essere costituito da elementi che lo precedono. Qui c’è in mezzo Zenone. Emerge così che con l’οσία /…/ è posta invero una molteplicità di elementi… Cioè, con la sostanza posizionata, situata. …ma che oltre a ciò è indispensabile una modalità determinata di interconnessione, un preciso criterio di unità del molteplice. La necessità di portare il molteplice verso l’unità. Perché? Per impedire che il molteplice sussista insieme con l’unità, anzi, siano due momenti dello stesso. Quindi, devo ricondurre la molteplicità all’unità, togliere la molteplicità, come direbbe Platone: togliere il male a vantaggio del Bene. Qualcosa di analogo accade in campo aritmetico. Per Aristotele la μονάς (l’unità) non è ancora in se stessa il numero; il primo numero, infatti, è il due… Questo è sorprendente perché bisognerà aspettare duemilacinquecento anni con la semiotica per ritrovare un’affermazione del genere, e cioè che si comincia dal due, non dall’uno. …poiché la μονάς, l’unità, a differenza degli elementi della geometria non reca in sé alcuna ϑέσις, nessuna posizione. Non è determinabile l’uno senza il due, non è determinabile un numero senza gli altri. È questo il problema che si è trovato di fronte: io voglio riportare all’unità la molteplicità, ma come faccio? Per stabilire l’unità già mi serve la molteplicità, per stabilire l’uno già mi serve il due. Il primo numero, dice, è il due. Come dire che un elemento, in questo caso un numero da solo, se non esistessero tutti gli altri numeri, cosa sarebbe? Niente. E, quindi, l’uno, reso da solo, come μονάς, come monade, come dirà Leibniz tempo dopo, cioè, come unità a sé stante, separata, non esiste, ma esiste quando incomincia a esserci il due, e cioè ciò che uno non è: c’è l’uno e poi il non-uno (due è non-uno). Questo è rimasto il maggior problema per la conoscenza, perché qui ciò che è in gioco è il problema della conoscenza: posso conoscere l’uno in quanto μονάς, in quanto unità assoluta? No. È questo che sta dicendo: lo posso conoscere solo se questo uno è non-uno, nel senso che è uno solo se c’è il due e, quindi, è uno solo se è non-uno, A è A solo se è anche non-A. Incomincia poi a considerare il fenomeno dell’essere insieme degli enti di natura, come i numeri, φσει ντα. In che modo le cose stanno insieme, si uniscono. Questa domanda sorge nel momento in cui c’è un problema nel portare la molteplicità, i molti, all’unità, a farli diventare uno. Ma che cosa vuol dire che sono molti, com’è che stanno insieme questi molti? Come li manipolo? Come li controllo? Come primo fenomeno dell’essere insieme con un altro o dell’essere per un altro, precisamente all’interno dei φσει ντα, gli enti di natura, Aristotele menziona lo μα (nel contempo), è nel contempo che è in un solo luogo… Per essere nel contempo, dice, deve essere in un solo luogo. Altro termine: κορίς, separato, ciò che è in un altro luogo. Il separato è ciò che si trova in un altro luogo. E qui dobbiamo tenere ferma la determinazione del luogo /…/ l’essere a contatto. Torna il primo momento, accade in quelle cose le cui terminazioni e estremità sono in un unico luogo dove cioè le terminazioni occupano lo stesso luogo. C’è poi quest’altra parola greca, έφεξής, il susseguente. Una volta descritte queste determinazioni, Aristotele esplora il loro rapporto. All’έφεξής compete una particolare distinzione. È evidente, dice Aristotele, che l’έφεξής è costitutivamente il primo: dovunque si parli è sempre già sottinteso e detto anche senza nominarlo è nominato. Cos’è questa cosa? Il susseguente è il fatto che un elemento linguistico rinvia necessariamente a un altro, ed è questo che è già sempre detto; è nel dire perché, dicendo, chiaramente a ciascun elemento ne segue un altro. Aristotele non ha inteso questo, non poteva farlo, Heidegger forse sì, ma non l’ha fatto nemmeno lui: questo έφεξής non è altro che l’essere ciascun elemento linguistico connesso con un altro. Ed è questo che lo rende un elemento linguistico, è questo che lo rende quello che è, per esempio un ente o un numero o quello che si vuole: il fatto di essere connesso con un altro, che lui chiama “susseguente”. È l’essere in connessione, è questo che fa di ciascun ente un ente, cioè, ciascun ente è ente in quanto rinvia a un altro ente. E qui, naturalmente, si pone la questione del continuo, perché questa sequenzialità appare come un continuo, ma questi elementi sono tuttavia considerati come separati. La questione del continuo, continuum, viene nuovamente affrontata nella matematica odierna e si ritorna ai pensieri di Aristotele poiché si capisce che il continuum non è risolvibile per gli Analitica, bisogna arrivare a intenderlo come qualcosa di già dato, prima ancora di pensare a una sua penetrazione analitica. Pensarlo, dunque, come qualcosa di già dato, qualcosa che non è ulteriormente analizzabile. Che cos’è che non è ulteriormente analizzabile? È il linguaggio. È lui che è già sempre dato, ed è già dato per il semplice fatto che ne stiamo parlando. Quindi, dice che il continuo è una questione che non è risolvibile per via analitica. In questa direzione si è mosso il lavoro del matematico Hermann Weyl… Egli ha raggiunto tale comprensione del continuo in connessione con la teoria della relatività della fisica contemporanea, per la quale, di contro a quella che egli chiama geometria non locale, i cui principi risultano dalla fisica moderna di Newton, è decisivo il concetto di campo: l’essere fisico è determinato dal campo. Da questi sviluppi è lecito attendersi che con il tempo i fisici magari giungano con l’aiuto della filosofia a comprendere ciò che Aristotele intendeva con movimento, rinunciando ai vecchi pregiudizi e smettendo di pensare che la nozione aristotelica di moto sia primitiva e che il movimento debba essere definito unicamente per mezzo della velocità, la quale è invece un carattere del movimento. Potremmo dire così, e cioè che a questione del continuum non può essere risolta, dice bene lui, unicamente per via analitica. Perché? Perché la soluzione per via analitica lo pre-suppone. Soluzione qui sarebbe da mettere tra virgolette perché non è propriamente una soluzione, ma il continuum può intendersi solo come qualcosa che è già da sempre. Il problema è quello di prima, e cioè come accade che una cosa sia susseguente a un’altra? In che modo è susseguente? È susseguente perché se non lo fosse non sarebbe. È questa la questione del continuo: ciascun elemento segue a un altro senza soluzione di continuità, ma questa non è un’immagine fisica rispetto al pensiero, ma è più una questione, potremmo dire metafisica, in una certa accezione. Vale a dire, posso considerare il continuo a condizione di pensarlo come qualche cosa che appartiene al linguaggio, e cioè al fatto che ciascun elemento non può darsi senza il susseguente: ciascun elemento non è se non rinvia a qualche cos’altro. È in questo che c’è la continuità, come dire che questi elementi… e qui Aristotele porrebbe subito la questione: questi vari elementi che si susseguono sono elementi separati o si toccano in un punto? Naturalmente, questa è una questione che, posta in questi termini, immagina che sia oggetti fisici, enti di natura. Se non li poniamo come enti di natura ma come enti di ragione ecco che allora la questione cambia aspetto, e cioè si volge verso una considerazione del modo in cui il linguaggio agisce, in cui funziona, e cioè che ciascun elemento ha necessariamente un continuo nell’altro elemento. La domanda se questi elementi siano separati oppure no perde di portata, perché sono distinti, in quanto uno non è l’altro, ma uno non c’è senza l’altro. È poi la questione fondamentale di Hegel. Quindi, sono separati e non sono separati. La questione può essere intesa solo così e naturalmente questo porta all’impossibilità di trasferire i molti nell’uno. I molti rimangono molti perché non possiamo togliere il fatto che ciascuno di loro è separato. Sono molti e sono uno, e rimane sempre la stessa questione, da qui non si scappa, si tratta solo di lasciarla lavorare, con tutto ciò che si incontra.