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22 novembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

A pag. 857. Poiché è necessario che essere convinti e avere conoscenza di un oggetto risiedano nel possedere quel sillogismo che chiamiamo dimostrazione, dal momento che questo sillogismo c’è perché ci sono queste cose qui, quelle da cui procede il sillogismo è necessario non soltanto conoscere preliminarmente le cose prime, o tutte o alcune, ma conoscerle anche meglio. Aristotele si pone qui delle questioni intorno alla conoscenza. Naturalmente, per Aristotele la conoscenza autentica procede dal sillogismo, il quale sillogismo deve avere come premessa maggiore le cose prime. Ma c’è un problema che è sfuggito ad Aristotele, un problema interessante, e cioè la conoscenza avviene attraverso gli universali… è attraverso l’universale che posso costruire un sillogismo e quindi posso conoscere; se non c’è l’universale, almeno uno, non posso conoscere niente. Ma come conosco l’universale? Per conoscerlo, perché si dia la possibilità della conoscenza dell’universale, devo cogliere l’universale come un particolare; per usare i termini di Severino, posso conoscere il concreto attraverso l’astratto. Solo se è particolare, cioè, solo se è finito posso conoscerlo, ma l’universale non è finito, l’universale è ᾂπειρον. Infatti, rispetto a “tutte le A sono B” dovrei, per potere affermare questo con certezza, dovrei enumerare tutte quante le A, dalla prima all’ultima; ma c’è l’ultima? Se non c’è l’ultima allora non possiamo conoscere; non possiamo conoscere l’universale se non come un particolare, come qualcosa di finito. Ma, invece, come conosco il particolare? Il particolare, cioè, il “questo qui”, il τόδε τί, questa cosa qui, questo libro, come lo conosco? Per conoscere il particolare occorre che questo particolare permanga: questo libro occorre che sia un libro anche fra cinque minuti, deve quindi permanere come se fosse un eterno. Ora, questa permanenza di questa cosa qui che cosa garantisce? Garantisce una sola cosa, l’universale, e cioè la considerazione che questo libro è quello che è e non può essere altrimenti, perché è quello che è e sarà così sempre, cioè, un universale. E allora ci troviamo in questa bizzarra situazione, che è poi un altro modo di formulare il problema del linguaggio, vale a dire che posso conoscere l’universale solo come particolare; ma il particolare non potrei conoscerlo se non fosse retto e sostenuto dall’universale. È lo stesso problema del finito e dell’infinito, è la stessa cosa; però in questo caso è più evidente perché è come se affermando qualcosa lo stessi affermando sia come particolare sia come universale, cioè, occorre che esistano entrambe le cose simultaneamente per potere parlare. Occorre che questo libro sia un universale, che sia sempre quello che è e che tra cinque minuti non diventi una caffettiera, rimanendo un libro. E così quello che dico rimane quello che è, non è un’altra cosa, e io confido che le mie parole rimangano anche tra dieci minuti, ho questa fiducia, ben riposta o mal riposta questo è un altro discorso; però, mi trovo nella condizione di affermare qualche cosa che, come abbiamo detto varie volte, non è mai quello che è, perché io lo affermo, per esempio, come un universale, come quando dico “tutte le A sono B”, ma se vogliamo verificare non ne usciamo più, quindi, devo porlo come un particolare. Occorrono entrambe le cose, e cioè ciascuna cosa che io affermo, ciascun particolare necessita dell’universale e ciascun universale necessita del particolare, ciascuna cosa che affermo occorre che sia quella che è a condizione di non essere quella che è. Questo, come dicevo, potrebbe in fondo essere considerato il problema del linguaggio. Perché tanto darsi da fare da parte degli antichi, soprattutto in Platone, intorno all’uno? Perché l’uno, posto così come lo pone Platone, sarebbe l’uno che non ha più bisogno dei molti e, se non ha bisogno dei molti, è autosufficiente. Ma Platone non ha tenuto conto che senza i molti scompare anche l’uno. Come sappiamo, è invece diversa la posizione di Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, cioè, l’uno è i molti. Eraclito aveva colto benissimo, senza tanti fronzoli, solo tre parole, ἒν πάντα εἰναι, più semplice di così! Per arginare queste tre parole ci sono voluti duemila anni di filosofia, per chiuderle, per contenerle, per bloccarle, contraddirle; e occorreva arrivare fino ad Hegel perché qualcuno le riprendesse. Ecco, dunque, la conoscenza. Aristotele ce lo dirà nuovamente che ci sono alcuni che dicono che la conoscenza è impossibile. Sì e no. Ad Aristotele non è venuta in mente questa obiezione, che è la più semplice: se davvero fosse inconoscibile, come fai a conoscere il fatto che la conoscenza è inconoscibile? Per poterlo affermare devi conoscere delle cose e, quindi, la conoscenza è possibile e non impossibile come affermi tu. La conoscenza è impossibile se con conoscenza intendiamo il dominio dell’ente esente dai molti. È quello a cui la religione allude e che illude, e cioè che questa separazione sia possibile. Su questa separazione si è costruita tutta la civiltà così come la conosciamo. Quando parliamo di conoscenza, di che cosa parliamo? Parliamo di una cosa estremamente complicata perché non possiamo dire né che sia possibile né che sia impossibile. Non hanno torto, dice Aristotele, quelli che dicono che la conoscenza non è possibile, perché o conosco cose che io so già oppure come faccio a conoscere le cose che non so, da dove arrivano? Però, se le so già, vuol dire che c’è stata una conoscenza. Si è sempre rimbalzati continuamente dall’una all’altra. Ma vediamo cosa Aristotele dice qui della conoscenza. A pag. 857. Infatti, a ciò in forza di cui ciascuna determinazione inerisce a qualcos’altro, questa inerisce sempre in grado maggiore: come, per esempio, è amato maggiormente ciò in virtù di cui amiamo. Di conseguenza, se veramente conosciamo e siamo convinti in forza delle cose prime, conosciamo e siamo convinti di quelle cose maggiormente, perché in forza di queste conosciamo e siamo convinti anche di quelle posteriori. Qui deve sostenere a tutti i costi la sua idea, che le cose prime sono le più importanti da conoscere; se conosco le cause prime, pur non conoscendone le conseguenze, ho comunque in mano il nocciolo della questione. Non è possibile essere convinti maggiormente di ciò che si sa, eppure non capita di averne né conoscenza, né di essere una condizione migliore rispetto ad esse che se capitasse di conoscerle. Accadrebbe ciò, se colui che è convinto attraverso la dimostrazione non avesse conoscenze precedenti: infatti è necessario essere convinti maggiormente dei principi, di tutti o di alcuni, rispetto alla conclusione. A pag. 859. Ora, ad alcuni, per il fatto che si devono conoscere scientificamente le cose prime, non sembra che ci sia conoscenza scientifica, ad altri invece pare che ci sia, e addirittura che ci sia dimostrazione di tutte le cose. Nessuna di queste due posizioni è vera o necessaria. Infatti, quanto ai primi, i quali suppongono che non ci sia affatto conoscenza scientifica, costoro ritengono che si regredisca all’infinito in quanto non si conoscono scientificamente le cose posteriori attraverso le anteriori, se di queste non vi sono cose prime. In questo parlano correttamente: infatti è impossibile attraversare cose infinite. Se poi ci si arresta e ci sono principi, affermano che questi sono inconoscibili, poiché di essi non vi è certo dimostrazione, e proprio in questa solo consiste – così dicono – il conoscere scientificamente. Quindi, per conoscere o regredisco all’infinito e pertanto non conoscerò mai, oppure muovo da qualche cosa che pongo come causa prima ma che come tale non è dimostrabile. Come forse dicevamo la volta scorsa, se è dimostrabile vuol dire che c’è qualcosa prima. Se non è possibile conoscere le cause prime, non sarà possibile neppure conoscere scientificamente le cose che procedono da queste né in senso assoluto, né in senso proprio, ma in base all’ipotesi che quelle sono. Gli altri concordano a proposito del conoscere scientificamente sul fatto che esso avvenga solo tramite dimostrazione; tuttavia, niente impedisce che vi sia dimostrazione di tutte le cose: infatti è possibile che la dimostrazione avvenga in modo circolare e reciproco. Qual è la dimostrazione circolare? Perché Gabriele è Gabriele? Perché Gabriele è Gabriele. Noi invece diciamo che non ogni conoscenza scientifica è dimostrativa, ma che quella degli immediati non è dimostrativa. L’immediato è quello che vedo, non ha dimostrazione. Ed è manifesto che questo è necessario: se infatti è necessario conoscere scientificamente le cose anteriori e quelle da cui procede la dimostrazione e inoltre ci si arresta a un certo punto – alle cose immediate – queste è necessario che non siano dimostrate. Se dimostrate non sarebbero più immediate ma mediate. Noi sosteniamo ciò in questo modo e affermiamo non solo che vi sia conoscenza scientifica, ma anche un certo principio della conoscenza scientifica, in forza del quale conosciamo i termini ultimi. Qui Aristotele cerca di dimostrare la necessità della dimostrazione come unica fonte del sapere scientifico; però, si trova di fronte a dei problemi. Aristotele diceva prima di questi altri che dicono che la conoscenza o regredisce all’infinito oppure è un’ipotesi, per cui di fatto non conosciamo; lui non li confuta, non c’è propriamente una confutazione, ma dice soltanto che si muove necessariamente da un qualche cosa per potere dimostrare. Ma questo qualche cosa da cui si muove, come sappiamo bene, non è altro che la δόξα. Quindi, si muove dalla δόξα per dimostrare qualche cosa e, una volta stabilita con un atto totalmente arbitrario la δόξα come principio primo, allora è possibile fare tutte quelle operazioni che Aristotele faceva negli Analitici Primi. Sulla dimostrazione circolare la questione è facile, si prova facilmente qualunque cosa: se dico che Gabriele è quello che è perché è quello che è, posso dimostrare qualunque cosa, senza limiti. A pag. 863. D’altra parte, la dimostrazione circolare non è neppure possibile, eccetto per quelle cose che si conseguono a vicenda, come le caratteristiche peculiari. Ora, è stato dimostrato che, posta una sola cosa, non è in alcun modo necessario che vi sia qualcos’altro (intendo “posta una sola cosa” nel senso che venga posto un solo termine o una sola tesi) e che invece è possibile da almeno due tesi prime, se davvero è possibile anche costruire sillogismi da esse. Se io pongo una sola cosa, da questa non posso trarre nulla, mi serve, dice Aristotele, una premessa maggiore, una minore, e solo allora posso trarre una conclusione, sennò non concludo niente, faccio un’affermazione e nient’altro. La dimostrazione circolare non è né più né meno che una tautologia. Andiamo avanti e troviamo anche qui dei problemi. Qui affronta i concetti di “di ogni”, “per sé” e “universale”. A pag. 865. Dal momento che è impossibile che sia altrimenti ciò di cui vi è conoscenza scientifica in senso assoluto… Perché è impossibile? Per via del terzo escluso: o è così o non è così. L’impossibilità è soltanto questa. …ciò che si conosce scientificamente in base alla conoscenza scientifica dimostrativa risulterà necessario. È dimostrativa quella conoscenza scientifica che acquisiamo per il fatto di avere dimostrazione. Dunque, la dimostrazione è un sillogismo che procede da premesse necessarie. Bisognerà pertanto stabilire quali e di che natura siano le premesse da cui hanno luogo le dimostrazioni. In prima istanza definiremo cosa intendiamo per “di ogni”, “per sé” e “universale”. Intendo allora con “di ogni” ciò che non si predica di qualcuno sì e qualcuno no, né talvolta sì né talvolta no: per esempio, se animale si predica di ogni uomo e se è vero affermare che costui è un uomo, è vero affermare anche che è animale, e se ora è vero l’uno, allora lo è anche l’altro; allo stesso modo se in ogni linea vi è il punto. Ecco un segno di ciò… Già il fatto che deve ricorrere ai segni come se fossero una cosa strana è sospetto. …quando ci viene chiesto se qualcosa si dica di ogni, muoviamo in verità obiezioni o se non si predica di qualcuno o se talvolta non si predica. Questo sarebbe il segno che esiste l’universale perché, se qualcuno mi dice che c’è un universale, io posso obiettare che non è vero. Che prova sarebbe questa? Senza contare poi tutti i “se” di cui riempie le proposizioni: se animale si predica di ogni uomo e se è vero affermare che costui è un uomo, ecc. Quando affronta la questione della conoscenza Aristotele, volendo a tutti i costi trovare una conoscenza definitiva e scientifica, si trova invece di fronte a qualcosa che continua a sfuggirgli. Dice che la conoscenza scientifica è quella che muove dall’universale; l’universale è ciò che si predica di tutte le cose; per cui se animale si predica di ogni uomo allora… Sì, certo, “se”, ma “se non”? In effetti, questo, che dovrebbe costituire il fondamento dell’universale, in realtà non è sostenibile – e lui stesso, Aristotele, lo sa – perché avrei dovuto avere sottomano tutti gli uomini, verificare che siano stati mortali, che tutti i presenti lo siano e che tutti i futuri lo saranno, e solo allora avrei un sillogismo scientifico; ma questo non lo si può fare e, dunque, dovremmo ammettere che non esiste sillogismo scientifico. Intendo con “per sé” quelle cose che ineriscono a qualcosa nel che cos’è: per esempio, linea a triangolo e punto a linea (infatti la loro sostanza proviene da queste cose ed è presente nella definizione che dice che cosa sono). Anche qui Aristotele sta facendo un gioco di prestigio. Già nelle Categorie diceva, e tra poco lo ribadirà anche qui, che la sostanza non è altro che ciò che si dice di qualche cosa, non ciò che è. Rileggo la frase di Aristotele: Intendo con “per sé” quelle cose che ineriscono a qualcosa nel che cos’è… Lui sembra qui alludere a qualche cosa che è per se stessa, ma stiamo parlando di enti di natura o di enti di ragione? In effetti, lui non fa altro che parlare di definizioni, di categorie e le categorie sono in fondo definizioni. Come dire che il per sé è ciò che noi definiamo in un certo modo. Questo “per sé”, questo καθαύτά, a che cosa corrisponde esattamente? Alla sostanza? Sì, certo, lui stesso ci ha detto nelle Categorie che le categorie sono le cose che si dicono e la sostanza è nulla, è come l’essere, è nulla – l’essere è qualche cosa in quanto essere di qualche cosa – ma l’essere in quanto tale, la sostanza in quanto tale non c’è, è nulla, ma c’è in ciò che se ne dice, cioè nelle altre nove categorie. Inoltre, intendo con “per sé” ciò che non si dice di un qualche altro soggetto… Ciò che non si dice e non ciò che è. …per esempio ciò che cammina è una qualche altra cosa che cammina, così pure il bianco; la sostanza, invece, ossia ciò che significa questa cosa qui… La sostanza è il significato. Ora, che cosa abbiamo a questo punto? Che la conoscenza deve passare attraverso l’universale, ma qui abbiamo visto una serie di problemi non risolti; questo universale è il “di ogni”, ciò che si predica di tutti e non di qualcosa sì e qualcosa no. Quindi, questo “per sé”, che dovrebbe determinare, definire la cosa, cosa ci dice qui Aristotele che è? È un significato, nient’altro che un significato. Questo va quasi a completare ciò che diceva nelle Categorie, nel senso che l’ούσία, in quanto significato, è ciò che viene detto nei modi che sappiamo. Aristotele diceva che la categoria più importante è l’ούσία, la sostanza, detta anche ύποκείμενον. Ma ricordiamoci bene della traduzione di ύποκείμενον che faceva Heidegger: l’ύποκείμενον non è la soggiacenza ma il ciò di cui si parla. L’ούσία è questo, è il ciò di cui si parla; come se ne parla? Ecco le categorie, e cioè quanto è grande, che colore ha, dove si trova, con cosa è in relazione, subisce questa cosa, ecc. Quindi, vedete come in Aristotele, nonostante il suo tentativo tenace di trovare la dimostrazione scientifica, quella che è per sé… Poi, questo “per sé” non è altro che un significato. Insomma, comporta ciò che abbiamo indicato prima, e cioè il sillogismo scientifico, così come lo vorrebbe Aristotele, non esiste, non può esistere. Poi aggiunge altre cose, ma sono tautologie. In un altro senso ancora è “per sé” ciò che inerisce a ciascuna cosa in forza di sé… Non è che siamo andati molto lontano. …mentre “accidente” ciò che inerisce non in forza di sé… Va bene, ma cosa abbiamo detto in più? Niente, è una tautologia, come dire che il per sé è il per sé. Se invece qualcosa inerisce in forza di sé, inerisce per sé, per esempio se una vittima è morta sgozzata, e nel corso dello sgozzamento, è morta in forza dell’essere sgozzata, ma che sia morta mentre veniva sgozzata non è capitato. Non è un accidente, è morta proprio perché le hanno tagliato la gola. Ora, prendete in considerazione questa sua affermazione. Dunque, le cose che si dicono per sé nell’ambito di ciò che si conosce scientificamente in senso assoluto… Cosa che ancora non è ben chiara che sia. …o nel senso che sono presenti nelle cose di cui vengono predicate o nel senso che queste ultime sono presenti in esse, sono in forza di sé e di necessità. In base a che cosa? In base al fatto che queste cose che vengono predicate; cioè, predichiamo le stesse cose dell’una e dell’altra… sono cose che accadono in forza di sé. “Di ogni” e “per sé” vanno dunque definiti in questo modo. Intendo con “universale” ciò che, potremmo dire, inerisce insieme “di ogni per sé e in quanto tale”. Cioè, è quello che è per virtù propria, sembrerebbe, ma non è così perché prima ci ha detto che è un significato e se è un significato è quanto meno un atto linguistico. Dunque, è manifesto che ciò che è universale inerisce di necessità ai suoi oggetti. No, non è proprio così. Il fatto che inerisca non è stato provato nell’accezione che vorrebbe Aristotele, cioè, come direbbe Severino, in modo incontrovertibile; possiamo controvertere in qualunque momento e in qualunque modo; in definitiva, non ha dimostrato niente. È interessante questo suo “fallimento”, perché non poteva non fallire; viene da domandarsi come facesse a non accorgersene perché non poteva non sapere che questa operazione era fallimentare. Se io pongo come premessa universale appunto un universale, e questo universale è costruito dall’induzione, cioè dall’analogia, cioè dalla chiacchiera, come posso costruire su qualcosa di incontrovertibile? Già ciò da cui muove, la sua condizione, è completamente arbitraria. È lo stesso impiccio che è rimasto fino ad oggi, anche in Mendelson: dimostriamo la deduzione, certo, la facciamo diventare un teorema, quindi, la possiamo utilizzare perché abbiamo dimostrato che è vera. Sì, certo, a partire dalla induzione; quindi, dobbiamo dimostrare che l’induzione è vera, ma come? Attraverso l’analogia. L’ho detta in modo molto rapido, ma è così. Poi si perde in cose quasi a volere distrarre l’attenzione dalle questioni precedenti non risolte. A pag. 869. Il “per sé” e l’“in quanto tale” sono la stessa cosa, per esempio punto e retto ineriscono per sé alla linea, e in effetti in quanto linea… È una cosa singolare: il punto inerisce alla linea; ma il punto è un ente di natura o un ente di ragione? Il punto non è quello fatto con la matita su un pezzo di carta, quella è una macchiolina, il punto è un’altra cosa… Usa questi esempi che, però, vanno contro ciò che lui stesso afferma e torno a dirvi di nuovo che è incredibile il fatto che non se ne sia reso conto, oppure se ne è reso conto ma cercava di sviare l’attenzione. Per esempio, l’avere gli angoli uguali a due retti non è universale per la figura: certamente è possibile provare di una figura che ha gli angoli uguali a due retti, ma non di qualunque figura, e neppure ci si serve di una figura qualunque nel provarlo; infatti, il quadrangolo è una figura, ma non ha gli angoli uguali a due retti. Un qualunque triangolo isoscele ha sì gli angoli uguali a due retti, però non li ha per primo… In quanto triangolo isoscele. …ma il triangolo li ha anteriormente. Si perde in queste cose assolutamente inutili. A me ha dato questa sensazione di volere sviare l’attenzione rispetto ai veri problemi che ha incontrato e che non ha risolto; e, allora, ci dice la somma degli angoli è uguale a due retti non per questo triangolo qui, non perché è isoscele ma perché è triangolo.

Intervento: …

Sì, lui vorrebbe dimostrare logicamente la logica e si trova di fronte a questo paradosso. Gli serve un’altra logica che dimostri la logicità di quest’altra logica. E dove la trovo? Allora hanno ragione quegli altri che parlavano di regresso all’infinito perché quest’altra logica, che dovrebbe dimostrare la logica che tu vuoi sostenere, da dove arriva? A pag. 871. Non deve sfuggire che spesso capita di sbagliare e che ciò che è provato non inerisca come primo e universalmente, in quanto in apparenza è provato come primo e universalmente. Commettiamo quest’errore qualora non sia possibile assumere nulla al di sopra del particolare, oppure quando si possa, ma non abbia nome rispetto agli oggetti che differiscono per specie, oppure qualora capiti che ciò su cui si applica la prova sia un tutto parziale; infatti, la dimostrazione inerirà alle cose parziali, e sarà ognuna di queste, ma ugualmente la dimostrazione non sarà di questa cosa primariamente e universalmente. Certo che non lo sarà perché non abbiamo questa dimostrazione e, quindi, dice bene. Quando è di questa cosa primariamente e universalmente, dico che la dimostrazione è di questa cosa prima in quanto tale. Sì, certo, quando è di questa cosa primariamente e universalmente. Intanto, se è primariamente non è dimostrabile, e allora come la assumo? È ύπάρχειν e tanto basta. Tutti questi problemi, che sono i veri problemi della logica, Aristotele li aggira continuamente. Tenete conto che questo testo, l’Organon, costituisce ancora oggi il fondamento di tutta la logica, e se, come diceva Kant, nessuno è riuscito a mettere in dubbio la logica di Aristotele allora vuol dire che la logica di Aristotele è valida. È un’argomentazione questa che poteva accettare mia nonna ma non Kant. A pag. 873. …neppure se qualcuno provasse per ciascun triangolo con una dimostrazione unica o con differenti dimostrazioni che ciascuno ha gli angoli uguali a due retti, separatamente per l’equilatero, lo scaleno e l’isoscele, costui non saprebbe ancora che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, se non in modo sofistico, né che il triangolo li ha universalmente, anche se non c’è altro triangolo oltre questi. Continua a dire che l’universale deve essere per tutti e non per qualcuno. Ma lui non può non sapere che non può essere per tutti. Come faceva a non saperlo? O mente sfacciatamente oppure è una distrazione, ma mi sembra così strana una distrazione del genere da parte di Aristotele. Di ipotesi ne possiamo fare quante ne vogliamo, naturalmente, ma rimane interessante per noi il tentativo furioso da parte di Aristotele di stabilire un qualche cosa che non può stabilire.

Intervento: …

Qui ritrova il problema cui accennavo all’inizio, e cioè che possiamo dire dell’universale soltanto se lo poniamo come particolare, sennò non possiamo neanche pensarlo, non possiamo dirlo: Tutte le A sono B. Bene, vediamo. E, allora, possiamo andare avanti all’infinito. Non lo possiamo fare e l’universale lo conosciamo, lo possiamo pensare solo come particolare, sennò non lo pensiamo. E il particolare è quello che è perché si riferisce a qualche cosa… E qui Platone aveva colto in parte parlando dell’idea: conosciamo il particolare, il questo qui, perché c’è l’idea da un’altra parte. Il fatto è che l’idea non è da un’altra parte, è sempre qui. Ma se Platone avesse detto questo non sarebbe stato utilizzato né sarebbe utilizzabile.

Intervento: Questo meccanismo è presente nella struttura dell’universale che delinea Aristotele, qualcosa c’è sottotraccia…

Sì. Infatti, Platone e Aristotele rappresentano rispetto due momenti dello stesso. Aristotele ha perfettamente ragione a dire che le cose sono quelle che si dicono, ma perché ci siano le cose, perché io possa pensare una cosa devo innanzitutto pensarla, e come faccio a pensarla? Attraverso l’idea, e qui ecco Platone. Che poi questa idea non venga dall’iperuranio è un altro discorso. Non viene dall’iperuranio ma è già qui, è già presente, insieme con la cosa, di cui il pensiero è pensiero. Anche questo aveva intuito Platone: non c’è λέγειν se non come λέγειν τί, il dire è sempre un dire qualcosa. Aristotele inserisce il λόγος quando parla dell’ούσία, della sostanza, che per Platone in fondo era l’idea, dice che è significato, cioè la riconduce al linguaggio, però anche lui non toglie l’idea, non si può togliere.