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22 novembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Siamo a pag. 407. Qui Heidegger sta parlando della temporalità, questione fondamentale visto che il titolo della sua opera principale è Essere e tempo. Si potrebbe anche dire che l’essere “è” tempo, come storicità. La temporalità ha sì a che fare con la storicità ma non soltanto. In Heidegger la temporalità è questa sorta di movimento tra l‘Esserci, che è gettato, l’avvenire, quindi, la gettatezza, ma anche un rivenire su di sé, su ciò che è stato, su ciò che è sempre stato, che è ciò che è, ciò che è è sempre stato, appunto, gettatezza. Queste due cose, che sono simultanee e che lui chiama temporalità, insieme con la storicità definiscono l’Esserci. L’Esserci è soprattutto storico e questo, come sappiamo, è molto importante perché è come dire che ciascuna volta che si parla, che si fa una qualunque cosa, si è presi in una costellazione di parole, di fantasmi, di idee, di racconti, di sensazioni, quella cosa che lui chiama tonalità emotiva, che è ineludibile. La tonalità emotiva viene da che cosa? Viene da ciò che so, non posso avere un’emozione rispetto a qualcosa che ignoro totalmente, quindi, riguarda l’Esserci in quanto essere stato. Ma, in quanto essere stato, cioè, ciò che sempre è, è anche un avvenire, un essere gettato innanzi. È in questo essere stato, è lì che si muove la tonalità emotiva, che in Heidegger, sì, è espressa bene ma meglio, in modo più accurato, da Freud, il quale se ne è occupato di più, ovviamente, anzi, direi che si è occupato quasi esclusivamente di questo. Però, se mettiamo insieme le due cose, ne traiamo qualcosa di interessante, perché Heidegger sottolinea l’assoluta importanza della tonalità emotiva, dice che non c’è gettatezza senza tonalità emotiva, non incontro niente, non faccio niente, senza un’emozione, una sensazione connessa. Questa tonalità emotiva è quella che decide anche di ciò di cui mi prendo cura, quindi, anche la Cura ha a che fare con la tonalità emotiva. Il modo in cui io mi prendo cura di qualcosa, in cui l’Esserci si trova gettato verso qualcosa, si prende cura di qualche cosa, è caratterizzato dalla tonalità emotiva. Lui ne considera solo due ma di tonalità emotive ce ne sono a bizzeffe. Queste tonalità emotive, a parte l’angoscia, questo almeno per Heidegger, sono sempre agganciate alla deiezione, cioè, al Si, alla chiacchiera, ciò nondimeno sono sempre presenti, così come è sempre presente la deiezione, non è che si può eliminare, anzi, ciascuno nasce nella chiacchiera, nella deiezione, nel luogo comune, nel si dice. Potremo dire con Husserl che questo è il fondamento del sapere, di qualunque sapere, dal più banale al più sofisticato ed elaborato, dal sapere a che cosa devo fare uscendo di qua al sapere della meccanica dei quanti o a come si costruisce una bomba atomica. Cosa comporta che la tonalità emotiva, tranne l’angoscia che è connessa con il Si, con la deiezione, sia onnipresente? Potremmo anche indicare nella tonalità emotiva, di cui parla Heidegger, le fantasie. Se io sono contento di qualche cosa, se sono triste, se sono angustiato, tutte queste tonalità emotive, come direbbe Aristotele, queste affezioni dell’anima, procedono da un discorso, da un racconto, una fantasia è un racconto che dice delle cose a fronte delle quali, a partire da altre fantasie, reagisco in un modo o nell’altro, in base a luoghi comuni, in base a un Si. Ad esempio, mi rubano la macchina mi inquieto, se vinco un milione di euro avrò un moto giubilatorio, avrei risolto una serie di problemi. La tonalità emotiva da che cosa è data in questi casi? È data dal luogo comune, nel senso che entrambe le situazioni, una brutta e una bella, sono giudicate tali a partire da altri racconti, da altre storie, che ho acquisite nel corso della mia lunga vita. Senza tutte queste altre cose, che sono presenti in quel momento in cui giudico l’evento, non ci sarebbe niente, non ci sarebbe l’inquietudine, né la gioia, nulla. Quindi, potremo tranquillamente dire che la tonalità emotiva è una fantasia, che è sempre presente e che decide del modo in cui io incontro le cose, in cui mi vengono incontro, mi appaiono. Questo non è irrilevante, né in Freud né in Heidegger, perché ci mostra che qualunque cosa io mi trovi a fare, a dire, a pensare, alle spalle c’è una fantasia, una fantasia che decide non solo ciò che sto progettando di fare ma anche ciò che incontrerò in quel progetto. È questo che sta dicendo Heidegger: qualunque progetto io faccia, qualunque cosa io decida di progettare, qualunque cosa io incontrerò in questo progetto, è vincolato a una tonalità emotiva. È questa tonalità emotiva mi fa apparire le cose così come mi appaiono. Non decide della comprensione, questo lo abbiamo già visto, la comprensione è la condizione perché esista la tonalità emotiva, perché ci sia la possibilità di avere una fantasia; la comprensione, cioè, lasciare che le cose vengano incontro. Se non ci fosse questo “lasciare” tra virgolette perché non c’è propriamente un soggetto che compie questa operazione ma è l’Esserci che, in quanto gettatezza va incontro necessariamente. L’unica cosa che decide l’Esserci è quella di riflettere se stesso, di rinvenire l’Esserci in quanto pura possibilità, in quanto nulla. Se questo è presente, lo dice Heidegger, allora questo modifica tutto quanto: l’Esserci che riflette se stesso si modifica e si modifica, intanto, perché accoglie questa nullità. E che ne è, allora, delle fantasie? Non è che scompaiono, le fantasie non sono altro che i racconti di cui ciascuno è fatto. Sarebbe come pensare che l’Esserci, che riviene se stesso, cancella la sua storicità, il che è assurdo, perché cancellerebbe se stesso, totalmente. Ma sicuramente fa qualche cosa e fa qualche cosa, è per questo che Heidegger insiste così tanto. E che cosa fa? Mette nelle condizioni di affrontare differentemente ciò che incontro, ciò che incontro lo affronto come un “nulla di significato”, formulazione che è vera ma anche no. Un “nulla di significato” non perché le cose non significano più, le cose che incontro sono significato, ma questi significati è come se fossero fatti di nulla, sono semplicemente degli strumenti, delle macchine che consentono al sistema di procedere. Non possono che riferirsi ad altri significati, come diceva Peirce: un segno è per un altro segno, che è segno per un altro segno, e così via. Non c’è l’ultimo segno, sarebbe la fine della parola. Si tratta, quindi, di far lavorare questo nulla che si incontra, che, meglio, l’Esserci incontra riflettendo se stesso, cioè, rivenendo sé, farlo lavorare nel modo della gettatezza, cioè, nel modo in cui avviene la gettatezza. Non più, dunque, gettarsi sulle cose che il Si mostra, che fa vedere continuamente. Anche, certo, perché non posso evitare di essere nel mondo, se sono nel mondo ho a che fare continuamente con le cose, ma è il modo con cui mi approccio a queste cose che può essere modificato, tenendo conto della nullità del fondamento di ciascuna cosa che incontro. La volta scorsa facevamo il rapporto con l’aspetto linguistico-semiotico: nullità del significato, nel senso che questo significato non ha nessun fondamento, è qualcosa che mi serve soltanto per proseguire a dire. Niente di nuovo, certo, però è un altro modo per approcciare la questione. Ora torniamo a Heidegger. Qui, torniamo sulla questione della tonalità emotiva e riprende la questione della paura. Aveva detto che a paura comporta l’oblio, l’oblio dell’Esserci, dell’Esserci nel senso che non faccio lavorare l’Esserci nel modo più autentico, più proprio, cioè, quello di rivenire se stesso, perché questo porterebbe all’angoscia, che, come abbiamo visto mille volte, non è nulla di negativo, è soltanto l’approccio inevitabile con il nulla, il fondamento dell’Esserci e, insieme con l’Esserci, di qualunque altra cosa. L’oblio costitutivo della paura sconvolge l’Esserci e lo lascia vagare tra possibilità “mondane” non colte. A differenza di questa presentazione incostante, il presente dell’angoscia si mantiene nel riportarsi-indietro al più proprio esser-gettato. Si mantiene sempre nell’Esserci, non si disperde nel mondo. Si mantiene nell’Esserci se si mantiene nella “consapevolezza” di esser gettato, di essere pura possibilità. Per il suo stesso senso esistenziale, l’angoscia non può perdersi in qualcosa di cui ci si prende cura. Dice che, proprio perché lo stiamo considerando esistenzialmente, cioè come qualcosa che appartiene unicamente all’uomo, essendo l’unico esistente per Heidegger, l’angoscia non può perdersi in qualche cosa che incontra perché l’angoscia non è altro che il rilevare l’assenza di fondamento dell’Esserci. Quindi, se c’è angoscia c’è già stato un rivenire all’Esserci, l’Esserci ha già pensato se stesso. Se qualcosa di simile succede in una situazione emotiva simile all’angoscia, ciò significa che si tratta di quella paura che la comprensione quotidiana confonde con l’angoscia. Dice che nell’angoscia non può esserci paura. Però, questo ci rinvia a ciò che dicevamo poco fa, e cioè in che modo l’angoscia, cioè il rilevare l’assenza di fondamento dell’Esserci, modifica il modo con cui si approcciano le cose, il modo con cui si approccia un racconto, cioè, una fantasia. Questa angoscia, continuiamo a usare questo anche se a me non piace, è ciò che dovrebbe consentire un diverso approccio rispetto a qualunque tonalità emotiva, non soltanto la paura. Lui ha considerato due tonalità emotive ma ce ne sono uno sterminio. Quindi, così come l’angoscia modifica la paura, la fa cessare, non c’è più l’oggetto della paura perché non ha nessun fondamento, alla stessa maniera approccia qualunque tonalità emotiva, cioè qualunque fantasia. L’angoscia non fa che portare nella tonalità emotiva di un decidersi possibile. Qui ci dice in modo abbastanza criptico in che modo l’angoscia modifica l’approccio alle cose e, quindi, la tonalità emotiva di questo approccio. L’angoscia non fa che portare nella tonalità emotiva di un decidersi possibile. Cosa vuol dire? Vuol dire che l’angoscia, la consapevolezza della nullità del fondamento dell’Esserci, porta, sì, la possibilità della decisione ma anche qualcosa di più, porta la consapevolezza di essere pura possibilità. È questo che l’angoscia porta nella tonalità emotiva, è questo il modo con cui l’angoscia modifica ogni tonalità emotiva mostrando che qualunque decidersi è sempre un decidersi per una pura possibilità, non per questa cosa o per quell’altra ma per una pura possibilità, che l’Esserci è da sempre. Il presente dell’angoscia mantiene l’attimo pronto al balzo… Quell’attimo in cui non succede niente, però, è quell’attimo decisivo. …quell’attimo sulla cui base unicamente essa, e solo essa, può essere ciò che è. Quindi, questo presente dell’angoscia mantiene questo attimo pronto al balzo, ma è quel balzo soltanto rispetto al quale l’angoscia è ciò che è, cioè, il nulla. È pronta al balzo che non c’è ancora, è soltanto pura possibilità. Quell’attimo è soltanto pura possibilità, per questo non c’è niente, come diceva da qualche parte, non c’è nulla in questo attimo, è pura possibilità, nient’altro che questo. Nella temporalità caratteristica dell’angoscia, temporalità che si fonda originariamente nell’esser-stato e da cui soltanto si temporalizzano futuro e presente… Ricordate, l’esser stato è ciò che l’Esserci sempre è, è sempre un esser stato, che cosa? Pura possibilità, ed è ciò che è anche adesso, non è che lo è stato ed adesso non lo è più. …si rivela la possibilità della potenza posseduta dalla tonalità emotiva dell’angoscia. Nella temporalità, caratteristica dell’angoscia, si rivela la possibilità della potenza. L’angoscia ha a che fare con questa pura possibilità, perché l’essere pura possibilità è ciò che fa sì che l’Esserci, ritornando su se stesso, trova pura possibilità, non trova qualche cosa, si ritrova se stesso come pura possibilità, cioè, nulla, e da qui l’angoscia. In essa l’Esserci è decisamente ricondotto al suo nudo isolamento ed è tutto preso da esso. L’angoscia fa sì che l’Esserci sia ricondotto, dice Heidegger, al suo nudo isolamento, cioè al fatto che in questa nullità del suo fondamento non può aggrapparsi a niente, non ha un qualche cosa cui riferirsi. Tenete sempre conto che l’Esserci è gettatezza ed è chiaro che questa gettatezza è fatta della Cura, è gettato da qualche parte, ovviamente, quindi, la Cura, gli utilizzabili, però, l’Esserci, in quanto tale, è gettatezza, nient’altro che questo. Le due tonalità emotive della paura e dell’angoscia non si “presentano” però isolate nel “flusso delle esperienze vissute”, ma sempre determinano-tonalizzando una particolare comprensione e si determinano in base a essa. La paura trova il suo appiglio nell’ente di cui si prende cura nel mondo-ambiente. Non è che accada così, la paura trae la sua forza, la sua possibilità di essere, da un ente, da un qualche cosa che incontra, da un ente intramondano.

Intervento: sembra che la paura a questo punto sia la negazione del nulla perché ha sempre bisogno di qualcosa…

Esattamente. È per questo motivo che è agli antipodi dell’angoscia. È la stessa cosa che potremmo dire del Si. Anche il Si si costruisce in base alla necessità di evitare questa angoscia prodotta dalla nullità del fondamento, dalla totale assenza di fondamento. L’angoscia proviene invece dall’Esserci stesso. Questa è la differenza fondamentale: la paura, un oggetto; l’angoscia, invece, viene dall’Esserci stesso, non da qualcos’altro ma dall’Esserci stesso. La paura giunge improvvisa dall’ente intramondano. Entra di colpo l’uomo nero… L’angoscia si leva dall’essere-nel-mondo in quanto gettato nell’essere-per-la-morte. Essere per la morte comporta la nullità dell’Esserci, perché se io muoio questo esserci, che io sono, pur compiendosi completamente, come dicevamo tempo fa, si annulla. Compreso esistenzialmente, questo sorgere dell’angoscia dall’Esserci significa: il futuro e il presente dell’angoscia si temporalizzano a partire da un esser-stato originario che ha il senso del riportare-indietro alla ripetizione. È la stessa questione che si ripete. Il sorgere dell’angoscia dall’Esserci ci dice che futuro e presente dell’angoscia prendono formare a partire da un essere stato, o meglio, dalla ripetizione di un essere stato dell’Esserci che è già sempre stato ciò che è, cioè, pura possibilità. Da un esser-stato originario che ha il senso del riportare-indietro alla ripetizione, ripetizione di che? Di essere pura possibilità, è questo che si ripete continuamente, ed è questo che l’Esserci è sempre stato e continua a essere. L’angoscia può sorgere autenticamente solo in un Esserci deciso. Cioè, che si è posto la questione del decidere. Abbiamo già visto la differenza tra Esserci deciso, Esserci autentico, e l’Esserci che si disperde nel mondo della deiezione. È la questione della responsabilità: io decido una certa cosa, non la subisco. Non l’accorgo perché si dice, perché si fa; no, la faccio perché io, l’Esserci, ho deciso di farla. Un Esserci deciso è un esserci autentico, che quindi cessa di muoversi a partire da un sentito dire per decidere lui se quello che ha sentito è così, se quello che deve fare è quello oppure no, ma sono io che decido, c’è una decisione. Nel Si c’è ugualmente una decisione ma non è autentica, perché nel Si di questa decisione non ci si assume la responsabilità. Certo, anche nel Si c’è una decisione: io decido di fare quello che fanno tutti, però, dice Heidegger, non è una decisione autentica, perché decido di fare quello che fanno tutti ma io che cosa decido?

Intervento: …

Sì, certo, perché le fantasie rientrano in questo ambito della deiezione. La fantasia, in quanto racconto, se non è accolta come una decisione dell’Esserci, come sua, allora può accadere di non accorgersi che ciò che appare essere una mia decisione in realtà è una decisione di tutti, perché, per esempio, ho paura di fare brutta figura o di essere abbandonato, e allora faccio come fanno tutti. Queste paure possono non apparire così evidenti o così sapute però lavorano e fanno sì che io mi comporti come tutti. Per questo Heidegger dice che L’angoscia può sorgere autenticamente solo in un Esserci deciso. Soltanto se io prendo questa decisione, cioè, accolgo che io ho deciso una certa cosa, solo a questa condizione c’è la possibilità di accorgermi che ciò che decido, le cose che ho di fronte, le cose con cui mi confronto, ecc., non hanno nessun fondamento. Se non c’è questo passaggio importante, la decisione, quindi, la responsabilità, non c’è nessuna possibilità che io mi accorga di niente, continuo a vivere alla rinfusa. Chi ha deciso non conosce paura, ma comprende la possibilità dell’angoscia come possibilità della tonalità emotiva che non lo paralizza e non lo sconvolge. Occorre, quindi, questa decisione, cioè, l’assunzione di questa decisione. Io ho paura di fare una certa cosa. Nella deiezione la mia paura viene dal fatto di considerare che se io faccio una certa cosa gli altri faranno quest’altro, mi derideranno per tutta la vita, ecc., e quindi non la devo fare. Quindi, il primo passo, dice Heidegger, e qui siamo in piena psicoanalisi, io decido di non fare questa cosa, perché io ho deciso che se la faccio allora gli altri faranno questo, io ho deciso. Questo, dice Heidegger, è il primo passo per potermi quanto meno accorgermi che ciò che io penso non ha nessun fondamento. Chi ha deciso non conosce paura, ma comprende la possibilità dell’angoscia come possibilità della tonalità emotiva che non lo paralizza e non lo sconvolge. E qui ci dice perché l’angoscia non è qualcosa di negativo, l’angoscia né paralizza né sconvolge; l’angoscia, in Heidegger, non è altro che l’avere di fronte la totale assenza di fondamento di qualunque cosa, in prima istanza dell’Esserci. L’angoscia lo affranca dalle possibilità “nulle” e lo rende libero per le autentiche. Possibilità nulla, per esempio, è quella di astenersi dal fare qualcosa per la paura che altri mi abbandonino. E, quindi, lo rende libero da questo per le possibilità autentiche, nel senso che se io tengo conto di questa cosa, se mi assumo la responsabilità, dicendo che sono io che decido, allora ho di fronte delle possibilità autentiche. La filosofia di Heidegger è tutta qui, in buona parte, almeno per la questione fondamentale. A pag. 409. Solo un ente che in virtù del senso del suo essere si sente in una situazione emotiva, solo cioè un ente che, esistendo, è già sempre stato ed esiste nel modo costante dell’esser-stato, è suscettibile di affezioni. L’affezione presuppone ontologicamente la presentazione, affinché in essa l’Esserci possa essere riportato indietro a se stesso in quanto è-stato. Ci dice delle cose importanti questa frase. Dice solo un ente che in virtù del senso del suo essere, quindi, è un ente, che è l’Esserci, che ha riflettuto sul suo essere. Solo questo ente si sente in una situazione emotiva, può accogliere una tonalità emotiva, può accogliere una fantasia, naturalmente come fantasia. Solo un ente che esistendo è già sempre stato ed esiste nel modo costante dell’esser-stato, è suscettibile di affezioni. Cioè, solo un ente che è sempre stato, sta parlando dell’Esserci, è l’Esserci che è sempre stato e che è suscettibile di affezioni. Occorre, cioè, che questo ente, questo Esserci, rifletta se stesso, rivenga se stesso, perché possa accorgersi che è in una fantasia, sennò non se ne accorge. Questa cosa direi che è fondamentale insieme con quelle lette prima: soltanto se c’è una decisione autentica, cioè, io decido qualche cosa ma io decido non in base alla chiacchiera ma trovandomi come pura possibilità, soltanto a questa condizione, dice Heidegger, io posso accorgermi che, ad esempio, tutto ciò che appartiene alla chiacchiera è solo fantasia. Mi accorgo di una tonalità emotiva, per esempio, della paura, della gioia, della contentezza, dell’essere angustiato, ecc. Mi accorgo di questo in quanto tonalità emotiva, in quanto fantasia, e soltanto a questa condizione posso riconoscere una fantasia come fantasia, cioè, posso riconoscere la chiacchiera in quanto chiacchiera, sennò la prendo come realtà, come le cose che sono, come stanno le cose. La condizione perché io non prenda la chiacchiera come una descrizione di uno stato di fatto è che l’Esserci incontri l’angoscia, cioè, attraverso una decisione autentica, si accorge che questo io che sta decidendo, questo Esserci, non ha alcun fondamento, trova il nulla quando si rivolge a sé. È a questo punto che può, adesso diciamola come abbiamo detto spesso, può giocare questo nulla, può metterlo in gioco, nel senso di farlo giocare in ciò che pensa, in ciò che dice, in ciò che fa, sennò non lo può fare, sennò la chiacchiera, la deiezione, la fantasia diventa realtà e, quindi, non posso fare niente. Passiamo a pag. 410, al capitolo c – La temporalità della deiezione. Perché è importante per Heidegger parlare della temporalità della deiezione così come della temporalità emotiva e tante altre cose? Lui sta intendendo come la questione della temporalità, intendiamola qui anche come storicità, come questi aspetti dell’esserci siano fondamentali, e cioè che non c’è nessun aspetto dell’Esserci che non sia temporale, che non sia storico, cioè, che non sia determinato storicamente. Qualunque cosa riguardi l’Esserci, cioè l’uomo, è storicamente determinato. Storicamente determinato non significa qui che ciò che io faccio è la conclusione inevitabile di ciò che sono stato fino adesso. No, sarebbe un determinismo fuori luogo e soprattutto non è questo che intende Heidegger. Determinato è da intendersi che posso fare, ho delle possibilità, tutte le possibilità che mi si aprono sono tali grazie a tutto il percorso che ho fatto. Se non avessi fatto tutto questo percorso non mi si aprirebbero tutte queste possibilità: se fossi nato mille anni fa in Piccardia non mi potrei trovare qui oggi insieme a voi a leggere Heidegger, una possibilità che non avrei avuto. Dunque, questo è il motivo per cui si occupa della temporalità di questi vari aspetti, della deiezione e poi parlerà della temporalità dell’essere nel mondo, ecc., tutti quegli aspetti che riguardano l’Esserci. Sta indagando come la temporalità incide nell’Esserci e che fa in modo che l’Esserci sia quello che è, e cioè pura possibilità, ma pura possibilità storicamente determinata, sempre nell’accezione di cui dicevo prima. Tutte queste cose non vengono dal nulla, anche la deiezione non è che accade così, accade di farsi prendere dal mondo perché, per esempio, si è nati nella deiezione, nella chiacchiera, si continua a vivere nella chiacchiera e non c’è mai stata la possibilità per l’Esserci di essere un Esserci deciso, non si è mai assunto la responsabilità di ciò che fa, della sua decisione. I tre aspetti tipici della deiezione per Heidegger, come sapete, sono la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco. Comincia con la curiosità. Che cos’è la curiosità? La curiosità è una tendenza caratteristica dell’essere dell’esserci, in conformità alla quale esso si prende cura di un poter-vedere. Questo è ciò che lui intende con curiosità, una tendenza che è volta non al vedere ma al poter vedere. In questo caso il “vedere” non è limitato, come del resto il concetto di visione, alla percezione degli “occhi corporei”. La percezione in senso più ampio lascia incontrare in “carne ed ossa” l’utilizzabile e la semplice-presenza in se stessi nel loro aspetto. Dice che la curiosità non è esattamente questo, il lasciar venire incontro qualche cosa, e ha dovuto dirlo per precisarlo rispetto a tutta la sua elucubrazione precedente. Lasciar venire in “carne ed ossa”, l’ha messa tra virgolette perché è una formulazione husserliana: le cose in carne ed ossa, le cose stesse. Questo lasciar incontrare si fonda nel presente. Quindi, non si fonda sull’avvenire, su ciò che mi viene incontro, per via della gettatezza, della Cura. È il presente a offrire l’orizzonte estatico all’interno del quale l’ente può essere presente in carne e ossa. È il presente che offre l’orizzonte dell’essere. Orizzonte estatico, orizzonte che sta sempre fuori di sé, perché l’essere, nel momento in cui si manifesta, scompare. Nel momento in cui qualcosa è gettato, non c’è più la gettatezza, c’è l’incontro con l’utilizzabile, c’è la Cura. Ma la curiosità non presenta la semplice-presenza soffermandosi su di essa allo scopo di comprenderla; essa cerca di vedere soltanto per vedere e per aver visto. Questo è fondamentale, tanto più oggi. In questa frasetta di Heidegger c’è tutto. Essa cerca di vedere soltanto per vedere e per aver visto. Questo fa la curiosità, non vuole vedere per comprendere, per accogliere, ma per avere visto. E perché è così importante avere visto? Per dirlo a qualcuno. Perché si fotografa tutto quello che succede? Tutti vanno in giro fotografando qualunque cosa, perché lo fanno? Non per comprendere qualche cosa, per vedere meglio, no, soltanto per avere visto e avere visto importa per poter dire a qualcuno di avere visto. Quindi, la curiosità è una delle forme della volontà di potenza, anche, non soltanto, però, è un modo per mostrare che io ci sono e tutti quanti dovete tenere conto che io ci sono e sono importante perché ho fatto questo, quest’altro e quest’altro ancora. Tutte cose stupidissime, ovviamente, non è che ha fatto chissà che cosa. la bramosia del nuovo propria della curiosità è, sì, un incalzare verso qualcosa di non-ancora-visto, ma in modo tale che la presentazione cerca di sottrarsi all’aspettazione. La presentazione, cioè rendere presente, si sottrae all’attesa, si sottrae all’avvenire, non c’è niente che deve avvenire perché è già tutto avvenuto. È come nella chiacchiera: è già tutto detto, è già tutto saputo, tutto stabilito, non c’è più niente da comprendere. La curiosità si riferisce in modo del tutto inautentico all’ad-venire, e, daccapo, in modo tale che non si aspetta una possibilità… Cioè, questo modo di immortalare tutto non è assolutamente l’apertura di possibilità, è una chiusura totale: è così, io sono queste cose qua. …ma, nella sua bramosia, la appetisce già unicamente come qualcosa di reale. (pagg. 420-411) La possibilità diventa reale. Che cosa ci dice questo? Sappiamo che la pura possibilità è l’Esserci e la possibilità è l’Esserci in quanto è già sempre stato questo. Che cosa significa, invece, pensare a questa possibilità come reale, quindi, come già avvenuta?

Intervento: Questo mi fa pensare a ciò che diceva Roland Barthes rispetto alla fotografia…

Qui, se facciamo attenzione alle parole, Heidegger non le mette mai lì a caso, dice che l’appetisce già questa possibilità come unicamente qualcosa di reale. Significa che l’Esserci viene posto, anziché come pura possibilità, come qualcosa di già dato. Che è come dire, ancora, che l’Esserci ha un fondamento, cioè, è quello che è. Non essendo più pura possibilità, è ovvio che non incontrerà mai l’angoscia, nell’accezione di Heidegger come autenticità dell’Esserci che riflettendo se stesso incontra il nulla. Ponendo questa possibilità come qualcosa di reale, non incontrerà mai questo nulla ma si condanna alla deiezione, alla chiacchiera, all’infinito. Per Heidegger questa possibilità non è reale, è una pura possibilità che non è altro che la stessa gettatezza dell’Esserci. Infatti, dice, nell’attimo della decisione questo attimo è vuoto, non c’è niente dentro, è solo possibilità. Porre la possibilità come reale è porla, come dice lui, rispetto al sapere come un già saputo. Stessa cosa per la morte, pensare la morte come qualcosa che, sì, tutti sanno che ci sarà prima o poi ma per il momento no, quindi, non come possibilità autentica ma come un’eventualità tra le tante. In questo modo la curiosità cancella la possibilità di essere autentico, di un Esserci autentico. La presentazione costantemente “scaturente via” dall’aspettarsi una determinata possibilità rende ontologicamente possibile quella incapacità di soffermarsi che caratterizza la curiosità. La curiosità, dice Heidegger, non accoglie nulla di ciò che incontra perché pensando la possibilità come qualcosa di reale è come se la concretizzasse incessantemente in un’altra possibilità e, quindi, non si confronta mai con quella possibilità che lui stesso è, non può farlo perché è sempre un rinvio a qualche altra cosa che lo distrae.

Intervento: mi veniva alla mente quelli che viaggiano solo per il viaggiare…

Non proprio per viaggiare ma per dire di avere viaggiato. La parola che userebbe Heidegger sarebbe quella di viaggiare senza prendersi cura. Qui il prendersi cura è il tenere conto che ciò che incontro fa parte del mondo che io sono. Non posso non prendermi cura di qualche cosa dal momento in cui io sono gettatezza e se sono gettatezza sono gettato verso qualche cosa. Posso saperlo oppure no.