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22 ottobre 2025

 

Gregorio di Nissa Teologia Trinitaria

 

Questa sera iniziamo a parlare di Gregorio di Nissa, uno dei tre padri Cappadoci, insieme al fratello maggiore Basilio di Cesarea e il terzo, che non è imparentato, Gregorio di Nazianzo. Nazianzo è un paesino della Cappadocia. Gregorio di Nissa ci interessa per via della questione trinitaria, e la questione trinitaria ci interessa perché è una teoria del linguaggio, una delle prime e anche più elaborate. Inizieremo a dire qualche cosa a partire da questo libro, di un certo Jean Daniélou, francese, che tra l’altro è citato anche da Reale. Daniélou è stato un teologo gesuita, cardinale. Di lui si ricorda un aspetto un po’ particolare, che riguarda le circostanze della sua morte, perché morì di infarto a casa di una spogliarellista di 24 anni. Morto gloriosamente secondo alcuni, ingloriosamente per altri, anche perché la Chiesa si è premurata di dire che era andato lì per la redenzione della fanciulla, portandole i soldi appunto per la sua redenzione. Non ci ha creduto nessuno neanche per un istante, però è rimasta la versione ufficiale della Chiesa. Sapevo che questo avrebbe provocato una certa ilarità, anche perché una volta era un luogo comune che i prelati e i cardinali andassero a morire nei bordelli. Jean Daniélou, nelle vesti di teologo, ha scritto delle cose che a noi possono interessare. C’è una parola greca che utilizza molto spesso Gregorio de Nissa, ἀκολουθία (akolouthia), che significa infinite cose, come spesso accade col greco, ma generalmente si traduce con deduzione, argomentazione. Nel capitolo Akolouthia e logica Daniélou dice: Il primo significato della parola in esame è quello logico. indica il collegamento necessario tra due proposizioni di cui una è conseguenza dell’altra. E questo è il motivo per cui ci interessa, e cioè Gregorio di Nissa, teologo, anche lui, si è occupato di un problema importante, enormemente importante. Daniélou non affronta questo problema, lo enuncia, ma non lo affronta, meno che mai lo risolve, non avendo probabilmente né la capacità né la possibilità di farlo, perché si tratta di pensare molto al di là di quanto fosse in grado di fare lui. Perché la questione del passaggio da un antecedente al conseguente, è la questione fondamentale del pensiero, cioè: cosa autorizza il passaggio dall’antecedente al conseguente, dall’uno ai molti? Questo è il problema, che sfugge totalmente a Daniélou. Questo uso è molto frequente… La conseguenza, cioè l’implicazione. Che cosa dice, secondo Daniélou, Gregorio di Nissa? Che questa deduzione, questo procedere da una cosa all’altra, è necessaria. Ed è importante che lo sia, tutta la teologia non fa altro che quello, tutta la teologia trinitaria non fa che ribadire la necessità di questo rapporto tra un antecedente e il suo conseguente. Perché è necessario? In fondo, è lo stesso motivo per cui Plotino aveva immaginato che dall’Uno si procedesse all’Intelletto e all’Anima - cosa ripresa poi dalla Chiesa - per cui c’è una processione, ma rimane la stessa sostanza, cioè, questa processione avviene non per volontà di qualcuno ma avviene di necessità: è necessario che all’antecedente segua il conseguente. C’è una necessità nell’implicazione e questa necessità aggira il problema posto da Aristotele, che non risolve perché si accorge che non ha soluzione, perché tra l’antecedente e il conseguente non c’è nulla che garantisca che da uno si possa passare all’altro. Infatti, Aristotele parla di ύπάρχειν, è un comando, quindi, non c’è niente che garantisca. Dunque, è necessario che ci sia questa continuità, perché è di questo che si tratta, di una continuità tra l’antecedente e conseguente, una continuità tra l’uno e i molti, tra l’uno e il due: l’ipotesi del continuo. Anche per i matematici, in fondo, c’è un continuo, un passaggio naturale dall’uno all’altro. Ed è una cosa fondamentale, perché altrimenti cambia tutto. Daniélou non si rende conto del problema che ha di fronte. Questa akolouthia è importante, certo, però è quella cosa che è servita poi a Gregorio di Nissa per mostrare come la processione sia un fatto quasi naturale, e questo serve al cristianesimo per dimostrare che il Figlio e lo Spirito procedono dal Padre, ma sono la stessa sostanza, per cui non c’è un salto tra l’uno e l’altro ma c’è una continuità, un continuo e non un discreto. Dicevo che il problema è enorme, perché mette in discussione la possibilità stessa di pensare, perché il pensiero, il dire, non è altro che una serie di inferenze: se questo allora quest’altro, ma quest’altro, quindi quest’altro ancora, ecc. Ma se nulla autorizza, se nulla garantisce la necessità di questo passaggio dall’antecedente al conseguente, ogni volta è come se ci si dovesse rendere conto che è una decisione, non è un dato di fatto, un dato di natura. Anzi, lui dice poco dopo, L’akolouthia è quindi il mezzo di stabilire rigorosamente la verità di una proposizione. Ecco a cosa serve: a stabilire la verità di una proposizione, che è fatta di inferenze e, quindi, se queste inferenze sono garantite da una processione allora ne è garantita anche la verità. Se c’è un salto, un salto incolmabile tra l’antecedente e il conseguente, allora la verità della proposizione non c’è. Ma un altro uso dell’akolouthia è quello di mostrare le conseguenze assurde alle quali conduce questo o quell’argomento dibattuto. Qui, naturalmente, riprende Gregorio di Nissa, il quale stava confutando un tale Eunomio. Di Eunomio si sa molto poco, ha seguito l’eresia di Ario, che negava appunto la Trinità, e cioè che il Figlio, il Padre e lo Spirito Santo fossero della stessa sostanza; e, quindi, Gregorio di Nissa ha dovuto scrivere un testo che invece dimostrasse che la Trinità è fatta, sì, di tre che sono però uno, mentre per Ario sono tre e tali rimangono. Gregorio impiega spesso nelle controversie questo metodo di confutazione per assurdo. La dottrina di Eunonio ha per “conseguenza inevitabile” (akolouthia) non solamente che il Figlio è inferiore al Padre, ma che è nato dal nulla. Oppure: “Occorre attardarsi a parlare di tutte le bestemmie che escono inevitabilmente da un principio simile? Colui che considera la conseguenza logica akolouthon) di ciò che ha detto, comprenderà che (se il Cristo è considerato come una creatura), poiché in ciò che è mutevole per essenza il valore della natura segue necessariamente l’inclinazione della volontà, il Signore sarà capace del bene e del male”. Così, la parola indica anzitutto il legame necessario tra due materie. Legame necessario. Ma accanto a questo uso, che non ha nulla di originale, Gregorio ne presenta un altro, più interessante, dicevi. Akolouthia indica la serie di ragionamenti con i quali una dimostrazione completa procede, ad iniziare dal principio fino alle ultime conseguenze. L’akolouthia è così la concatenazione delle cause che va dall’arché fino al pèras. L’arché è l’origine, il pèras è il limite. Essa definisce la ricerca metodica che attraverso i legami necessari produce la conoscenza scientifica. Come dire che la conoscenza scientifica ha una base religiosa, senza la quale non sarebbe né conoscenza né scientifica. E qui aveva ragione Agostino - fa specie che il Daniélou non abbia citato anche Agostino - , il quale si è reso conto che solo Dio può garantire questa cosa, non c’è nessuno al mondo che possa farlo, solo Dio garantisce. Qui siamo al centro del metodo di Gregorio. In particolare, questo riferimento al bene supremo per giudicare di quelli particolari appare anche altrove. Nel trattato Sulla Verginità, Gregorio ci descrive anche l’ordine seguito. Dapprima l’elogio della verginità, poi la comparazione con la vita comune ed i suoi inconvenienti; infine, con buon metodo, una breve descrizione della vita “filosofica”: “I desideri del corpo si affievoliscono in coloro che vi hanno rinunciato; viene allora cercato, di conseguenza, ciò che è veramente desiderabile... Avendo svelato tutto questo, per quanto possibile, è parsa cosa buona, di conseguenza, cercare un metodo per ottenerlo”. Gregorio inizia collegando la verginità con la questione del bene supremo, poi cerca i mezzi per arrivarci. Ritroveremo questo metodo come chiave nei trattati Sui Salmi. Pertanto, il fine dell’akolouthia è quello di assicurare il carattere scientifico della conoscenza attraverso la riduzione ai primi principi. In alcuni casi, sembra che lo scopo di Gregorio sia di proporre una dimostrazione propriamente filosofica di alcune verità, d’altra parte conosciute con la Rivelazione. Così si sforza di dare una dimostrazione della resurrezione per mezzo della deduzione (akolouthia) razionale, parallelamente alla testimonianza della Scrittura. Ma più comunemente il suo proposito è quello di dimostrare la concatenazione di realtà che la Rivelazione presenta come fatti. Si tratta allora di parlare propriamente di teologia, nel senso di una sistematizzazione del dato rivelato. Ciò che a noi interessava era propriamente questo, e cioè la necessità di stabilire la pensabilità di un rapporto causa-effetto tra antecedente e conseguente. Questa volta, contrariamente al solito, leggeremo l’introduzione fatta da Reale, perché Reale in alcuni casi ci ha mostrato delle cose interessanti. Qui Reale si accorge - Daniélou non se ne è accorto - della prossimità tra il discorso di Gregorio di Nissa e la teoria del linguaggio. In fondo, qualunque eresia, compresa quella di Eunomio, che poi è arianesimo, ma tutte le altre eresie fondamentalmente sostenevano, anzi, negavano, la processione, quella stabilita da Plotino; negavano che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo fossero consustanziali, fossero la stessa sostanza, ma che il Padre è una cosa, una sostanza, il Figlio è un’altra sostanza; e, infatti, è creato dal Padre, non generato, per cui, essendo creato, è quindi un’altra cosa rispetto al Padre. Ma a questo punto, se è un’altra cosa, cade la Trinità, se è un’altra cosa, allora ecco che c’è quel salto fra l’antecedente e il conseguente, che non ha nessuna spiegazione. Daniélou non ha colte tutte queste cose. A pag. 31. Siamo all’introduzione di Reale. L’eresia, così rigorosamente articolata, di Eunomio, che ricorreva agli strumenti, derivati dalla filosofia pagana, della logica, della teoria del linguaggio, della struttura gerarchica dell’essere, non ebbe, come si è già detto, una grande diffusione, né poteva essere un movimento di pensiero veramente popolare.... In effetti, il pensiero di Eunonio era abbastanza astratto, era teorico. …e, in effetti, Eunonio non giocò un ruolo di rilievo nel corso delle controversie del IV secolo: fu tenuto in disparte dalle principali correnti del pensiero ariano, oltre che dalla Chiesa ortodossa, a causa della sua radicalità e della novità del suo insegnamento. Eppure, fu proprio quella diversità che, sul piano teorico, suscitò il maggior numero di repliche, evidentemente perché si imponeva sulla abbondantissima letteratura controversistica dell’epoca, che spesso non faceva altro che ripetere i medesimi temi dottrinali e ricorrere all’esegesi dei medesimi passi scritturistici - una caratteristica, questa, da cui non vanno esenti anche alcune personalità di rilievo, come Atanasio e Didimo, ma che è assolutamente estranea alla produzione di Eunomio, nel quale l’elemento scritturistico non ha gran peso, cioè il riferimento alle Sante Scritture, per quanto attiene allo svolgimento della dimostrazione. Lui voleva una dimostrazione prettamente logica, argomentata, che non si basasse solamente sul fatto che nella Bibbia c’è scritto questo, quindi è così. Non sappiamo se sia così. Anche perché, se fosse così, allora Dio sarebbe un transessuale, come abbiamo già visto. Se sul piano pratico, dunque, Eunomio non fu un grave pericolo per la Chiesa, sul piano teorico, invece, apparve come uno dei più temibili e agguerriti avversari dell’ortodossia e della dottrina di Nicea. La dottrina di Nicea è quella che ha stabilito che i tre - Padre, Figlio e Spirito - sono uno solo. A pag. 43. Se si intende, come facevano Basilio e Gregorio, un pensiero costituito dall’intelligenza umana, che si differenzia dalla manifestazione esterna del pensiero stesso (nel contesto della discussione: il pensiero che la realtà divina è inconoscibile, ma che di essa si possano dire alcune caratteristiche “secondo il pensiero”) … È sempre lo stesso paradosso tremendo: io dico qualche cosa, ma dicendo qualche cosa ne dico un’altra, per cui non so mai esattamente che cosa sto dicendo. E questa sarebbe una prerogativa dell’intelligenza umana, non di quella divina: in quella divina il λέγειν e il τί sono una cosa sola. Ché in tal caso la sostanza divina non potrebbe più conservarsi nella sua semplicità… Se è pensabile, e cioè riducibile al pensiero umano: il pensiero umano sono i molti, sono il complesso, sono la polivocità. …in quanto essa dovrebbe partecipare ai differenti pensieri che gli uomini possono formulare su di lei e avrebbe bisogno di questa partecipazione per poter essere perfetta… Facciamo l’esempio della Trinità. La Trinità viene pensata dagli umani, ma il pensiero degli umani non è così limpido e semplice, è complesso, in quanto questa Trinità è il prodotto di una serie di considerazioni, di argomentazioni, cioè, è il prodotto dei molti. E, quindi, come fare uno di questa Trinità? Occorrerebbe eliminare i molti, ma per eliminare i molti occorre porsi al di fuori del pensiero umano, perché il pensiero umano ha questa maledizione intrinseca, che pensa attraverso i molti. Il pensiero umano, quindi, non produce niente che sia attinente in modo sostanziale alla cosa manifestata, ma può solo esprimere cose inventate, false, insussistenti. Che in parte è anche vero. Quindi, le cose enunciate dal pensiero o esistono solo nell’atto del pensiero del singolo, o esistono solamente nel suono della voce che le manifesta. Questo fu poi il problema degli universali, nel XIV secolo: Guglielmo di Champeaux, Pietro Ispano, Tommaso, Abelardo. Per questa problematica sembrerebbe che Eunonio riprendesse certe considerazioni che erano state di Sesto Empirico (Contro i matematici) e di Epicuro. In Sesto Empirico s’incontra l’espressione “le cose che sono pensate secondo l’epìnoia (il pensiero manifestato), cioè “secondo il pensiero umano”: esse sarebbero il prodotto del processo intellettuale, anche semplice e non necessariamente sofisticato, in contrapposizione alle cose conosciute per esperienza dirette dei sensi: secondo Sesto, infatti, sia le nostre concezioni intellettuali sia le nostre immaginazioni dipendono dai sensi. Qui si vede già come anche Sesto Empirico di fatto avesse subìto l’influsso neoplatonico, perché le cose che dice stridono col pensiero presocratico: il “sentire qualcosa dentro” è un concetto che non c’era nei presocratici. Queste concezioni ci rimandano, per qualche aspetto, all’epicureismo. Infatti, mentre per lo stoicismo la epìnoia rappresenterebbe l’attività intellettuale nella sua funzione creatrice, per Epicuro essa sarebbe soltanto la causa del falso e dell’inventato, perché la verità è fornita dall’impressione sensibile. Già è interessante notare la differenza abissale che c’è tra questo “sentire dentro” e ciò che descrive invece Aristotele rispetto al pathos. Anche quello è un sentire, un sentimento, però è ciò che dà avvio alla parola: il pathos è parola, non è un’altra cosa.

Intervento: Soprattutto non è alieno alla persona che parla, non ha origini esterne.

Infatti, non ha origini esterne ma viene dal suo discorso, viene da ciò che lui pensa, dalle sue considerazioni. Così se la realtà di Dio fosse collegata in qualche modo con l’attività intellettuale dell’uomo, essa sarebbe macchiata da una sostanziale arbitrarietà e casualità. E questo è anche il motivo per cui era così importante e necessario stabilire l’assoluta consequenzialità o, meglio, la necessità della consequenzialità nella implicazione fra antecedente e conseguente: ci deve essere qualcosa che la garantisce, una necessità intrinseca. Questo era uno dei motivi per cui Eunomio fu tacciato di eresia.

Intervento: Quelle eresie che tendono a semplificare hanno sempre avuto il loro successo.

Sì, ed è l’accusa che fa Reale a Eunomio che, invece complicava, era un intellettuale, era un logico, ante litteram, perché non esisteva ancora la logica, però era uno che argomentava le cose, quindi le rendeva complesse. A pag. 44. …alcune che, pur tenendo conto che la natura di Dio è inconoscibile all’uomo, la esprimono in sé e per sé, nella sua realtà, come quelle di “perfetto”, “infinito”, “eterno”, ecc.; altre invece esprimono la sua esistenza nel rapporto con gli uomini, come quelle di onnipotente, misericordioso, provvidente, benefattore, ecc. Quindi, secondo Eunomio, che la non generazione e il non generato di Dio debbano essere intesi solo “secondo il pensiero umano”: essi devono essere dei termini giustificati direttamente dalla realtà stessa, non dall’invenzione del nostro intelletto, ché altrimenti noi sottometteremmo Dio alla nostra attività mentale. Dio è sempre quello che è, sia che gli uomini lo pensino o ne parlino, sia che non lo pensino o non ne parlino. Insomma, o riusciamo a dimostrare argomentativamente quello che la teologia trinitaria vuole imporre, sennò non andiamo da nessuna parte, perché non possiamo fidarci unicamente della Trinità così come è stata pensata, perché è stata pensata dagli uomini, non da Dio; non è lui che ci ha scritto un trattato di teologia trinitaria, non ha scritto neanche la Bibbia, l’ha fatta scrivere a Mosè, perché tra l’altro è anche analfabeta. Di fronte a questo attacco al concetto di epìnoia sta l’impiego di Basilio dell’espressione “secondo il pensiero umano”, ma tale impiego aveva avuto, a sua volta, una sua ascendenza ben legittima agli occhi dei Cappadoci, e cioè quella che riconduceva a Filone di Alessandria. Nel suo Trattato su La migrazione di Abramo, Filone afferma che mentre Dio può percorrere tutto l’universo realmente, l’uomo può farlo solo con la sua epìnoia. Ebbene, il termine significa, in Filone, ora un progetto, un intendimento umano, ora la conoscenza in generale. Filone è stato il primo che ha cominciato a far dire alla Bibbia tutto quello che voleva lui. Ben più interessante è un passo di L’erede delle cose divine di Filone: “Ma osserva ancora come l’arditezza di Abramo si mescoli alla deferenza… Quindi, già c’era l’idea ben precisa della necessità della sottomissione, che è sempre stata presente nel monoteismo. Le parole “che cosa mi darai?” mostrano l’arditezza, la parola “Signore” la deferenza. La Scrittura vuole usare due epiteti per indicare colui che è Causa: Dio e Signore. Ora, invece, non usa né l’uno né l’altro, ma il termine “Padrone”, in modo molto più rispettoso e assai più pertinente. Certamente, Signore e Padrone sono ritenuti sinonimi. /…/ Ancora, una autorevole applicazione della dottrina dell’epìnoia era stata presentata da Origene. Nel suo commento al Vangelo di Giovanni l’Alessandrino afferma: “Dio, quindi, è assolutamente uno e semplice; il Salvatore nostro, invece, siccome Dio l’ha posto come propiziazione e primizia di ogni creatura, a causa di questi molti beni, diventa molte cose e forse tutte le cose. Questo è stato uno dei motivi per cui Origene non è mai stato considerato un Padre della Chiesa. Quindi, la questione è quella del pensiero umano. Ci si è trovati di fronte a un problema: il concetto di Trinità come consustanzialità è il prodotto del pensiero umano oppure no? Se è il prodotto del pensiero umano è controargomentabile, se invece rappresenta la realtà divina no, perché la realtà divina non si può controargomentare. A pag. 45. Gregorio ora si volge alle considerazioni più semplici e retoriche, come quella del sottolineare l’importanza del pensiero umano, esaltarne le funzioni intellettuali, i benefici che esso arreca alla vita e il progresso che ha stimolato nella civiltà con la scoperta delle numerose scienze; ora imbastisce un ragionamento più approfondito e fruttuoso sottolineando l’impossibilità di mantenere la distinzione eunomiana tra parola e pensiero, facendo presente la relatività della parola umana che esprime la stessa cosa conformandosi in modo differente a seconda delle varie lingue esistenti (in sostanza la dottrina dell’arbitrarietà del segno linguistico): un’osservazione, questa, di particolare interesse nell’ambito della linguistica antica, che si basa sull’osservazione concreta della parola. Cioè, dice Gregorio, contro Eunomio, che non c’è distinzione tra parola e pensiero. Loro avevano avvertito delle cose importanti, cioè, il pensiero e la parola sono la stessa cosa, non si può pensare se non attraverso parole. Eunomio, nella sua furia di volere separare le cose, ha anche separato la parola dal pensiero, trovandosi poi in difficoltà e offrendo il fianco alle critiche di Gregorio di Nissa; perché così funziona anche la retorica: mettere pressione all’altro in modo che commetta degli errori, dimodoché questi errori possano essere colpiti dalle mie controargomentazioni. È un sistema vecchio come il mondo. Infatti, qual è la contraddizione in cui Gregorio de Nissa fa cadere Eunonio? E poiché aveva svalutato l’attività del pensiero umano nell’invenzione della parola, Eunonio era costretto a ricondurre la scoperta di essa addirittura a Dio stesso… Cioè, è Dio che ha scoperto la parola. …il quale, per logica conseguenza, avrebbe dovuto dare il proprio nome alle singole cose, anche se questo non è l’insegnamento della Scrittura, che, nella Genesi, ci fa sapere che fu l’uomo a dare i nomi alla realtà che lo circondava. È bensì vero che il racconto scritturistico ci presenta Dio che “parla”, di volta in volta che crea una cosa (la terra, il cielo, le acque, ecc.). alla quale, quindi, dà il proprio nome, ma tale “parlare” di Dio non deve essere inteso alla lettera, come un suono articolato, ché altrimenti si cadrebbe nell’antropomorfismo. Erano questi i temi allora: se tu dici questo, allora si cade nell’antropomorfismo di Dio, cioè, rendi Dio un essere umano e quindi, anatema su di te. A pag. 46. E ciò, nonostante il linguaggio umano, se è libero, utile e prezioso da una parte, dall’altra è determinato dalle condizioni del tempo e della realtà corporea. È arbitraria, quindi, l’affermazione di un Eunomio, il quale, volendo sottrarre la non generazione di Dio ad ogni concezione “secondo il pensiero”… Dio, secondo il cristianesimo, non è stato generato da nessuno, si è generato da sé. Anche la “non generazione”, in quanto parola, si dissolve come tutte le altre, non appena pronunciata. Questa è già la posizione dei Padri della Chiesa: non la parola, perché la parola si dissolve appena pronunciata. Cosa diceva Eraclito? Φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. Anch’essa, come tutte le altre, dipende dall’esistenza di coloro che la impiegano; anch’essa, come tutte le altre, è stata “inventata” non per il vantaggio di Dio, ma per il vantaggio nostro; e ciononostante, la “cosa” indicata da quella parola esiste di per sé e non subisce danno dallo svanire del nome appena pronunciato, perché la parola non è certo identica con l’essere. Ecco qui il problema teologico che diventa centrale, cioè la parola non è stata inventata da Dio perché veniva difficile provare una cosa del genere; la parola, che dilegua mentre si dice, non può essere quella che determina la cosa, occorre una realtà esterna. Non bastano significante e significato nel grafo di De Saussure, ma ci vuole l’alberello, a garanzia. A garanzia di che cosa? Che ci sia una naturale processione tra significante e significato, e cioè che dall’uno si passi all’altro. Ecco che questa operazione tra le parole che dice la verità.

Intervento: È la separazione tra la parola e la realtà

Certo. E, allora che facciamo? Dio diventa dipendente dalla parola? E di tutta la teologia negativa allora cosa ne facciamo? Ciò deriva dal fatto che anche il linguaggio, come tutte le altre cose umane, rientra nell’ambito della realtà caratterizzata dalla dimensione spazio-temporale, cioè dal diàstema (separazione), che è il segno fondamentale della realtà creata di fronte a quella increata... Sappiamo che Dio è al di sopra del tempo, prima dell’eternità, al di sopra del cielo.

Intervento: Tra l’altro Reale non fa altro che affermare che parliamo per misurare. Dire che Dio è irrelato vuol dire che Dio non è misurabile, non puoi calcolarlo.

Su questo anche loro, senza rendersene conto, avevano colto nel segno, cioè, per calcolare occorre l’incalcolabile. Il pensiero della mente umana, e il suo assegnare i nomi alle varie realtà, rientrano nell’ordine del creato, e non possono oltrepassare i limiti che li separano da ciò che è increato. Il dicibile non può varcare il limite dell’ineffabile, cioè l’ineffabile non può essere dicibile, per una questione logica, semplicemente. E il linguaggio, a sua volta, non è la rappresentazione diretta delle cose così come stanno: esso è sempre separato da quello che intende indicare, in quanto si riferisce ai processi mentali e non alle cose in se stesse. Limitato alla funzione intellettuale, per quanto libero e funzionale esso sia, il linguaggio è cosa specifica dell’uomo, perché l’uomo è una realtà corporea. Quindi, il linguaggio non può essere la rappresentazione diretta delle cose, altrimenti il linguaggio direbbe Dio; invece, deve essere necessariamente separato dalle cose, cioè da quella realtà che il linguaggio indica. Quindi, ha solo la funzione, come avrebbe detto Jakobson, di shifter, di un indicatore deittico: quando io indico con l’indice, questo indice è un operatore deittico, indica. Il linguaggio è una cosa dell’uomo, non appartiene a Dio, quindi, come ha detto prima, non è possibile che il creato superi i limiti dell’increato, cioè che il dicibile diventi ineffabile o viceversa: c’è una separazione precisa, Dio non potrà mai essere detto. È l’avvio della teologia negativa, detta anche apofatica.

Intervento: Sono platonicamente sempre due realtà.

Sì, è la differenza sostanziale tra Platone e Aristotele. Per Platone l’idea sta lassù e, quindi, è ineffabile. Per Aristotele non c’è niente di ineffabile perché anche l’universale è fatto di molti, di parole. Lo dice in modo chiarissimo nelle Categorie: la sostanza è ciò che se ne dice, è il dire. Per Platone, no.