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22 settembre 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Ci sono alcune cose interessanti rispetto al lavoro che sta facendo Aristotele. Ma incominciamo a leggere alcune cose, poi ne diremo altre. 1038b, 20. …è evidente che la differenza ultima dovrà essere la sostanza della cosa e la definizione della cosa. Lui dice che la sostanza si vede dalle differenze. Infatti non bisogna dire più volte le medesime cose nelle definizioni, perché ciò è superfluo. E tuttavia questo accade quando, per esempio, si dice animale provvisto di piedi bipede; il che vuol dire niente altro che questo: “animale avete piedi, avente due piedi”, e se si dividerà anche questo con divisione che gli è propria, si tornerà a dire più volte la stessa cosa: precisamente, tante volte quante saranno le differenze. Qui è un altro modo per dire che a un certo punto bisogna fermarsi. Così come nelle definizioni: si definisce e poi, quando sembra che le cose incomincino a ripetersi, ecco, lì siamo arrivati alla definizione, e di quella ci appaghiamo. Ma la questione è più complessa e adesso la vedremo. 1038b, 35. Risulta evidente da queste riflessioni che nulla di ciò che è universale è sostanza e che nulla di ciò che si predica in comune esprime alcunché di determinato, ma esprime solo di che specie è la cosa. Se così non fosse, oltre alle molte altre difficoltà, sorgerebbe anche quella del “terzo uomo”. Ecco perché bisogna fermarsi. Il terzo uomo: dico che quello è Cesare, c’è un’immagine che io ho di Cesare, però devo stabilire tra me e Cesare che cosa mi consente di dire che quello è Cesare e, quindi, ci vuole un altro Cesare che io mi rappresento, e così via all’infinito. Ma ancora non siamo alla questione. 1039a, 25. Da questi stessi argomenti risultano evidenti le conseguenze cui vanno incontro coloro i quali sostengono che le Idee sono sostanze e che sono separate… Separate, cioè, che non sono in relazione con altro. …e ad un tempo fanno derivare la Forma dal genere e dalle differenze. Se, infatti, le Forme esistono, e se l’Animale si trova e nell’uomo e nel cavallo, allora esso (a) sarà uno solo e medesimo quanto al numero, oppure (b) sarà diverso nell’uno e nell’altro; /…/ (Se, dunque, c’è un uomo che esiste in sé e per sé ed è un alcunché di determinato e separato, è necessario che anche ciò di cui risulta composta, ossia l’animale e il bipede, esprimano un alcunché di determinato, siano realtà separate e siano sostanze; sicché anche l’animale sarà un alcunché di determinato, una realtà separata e una sostanza). Che è esattamente il contrario di ciò che, secondo lui, dice Platone: la Forma è una, non può scomporsi in tante cose, di una certa cosa c’è una forma e, quindi, non si moltiplica, come invece, secondo lui, dovrebbe accadere in questa circostanza. 1039b, 20. Il sinolo e la forma sono due differenti significati della sostanza: il sinolo è sostanza costituita dall’unione della forma con la materia, l’altra è sostanza nel senso di forma in quanto tale. Tutte le sostanze intese nel primo significato sono soggette a corruzione, così come sono soggette a generazione. Invece la forma non è soggetta a corruzione e neppure a generazione: infatti, non si genera l’essenza di casa ma solo l’essere di questa concreta cosa qui; le forme esistono oppure non esistono senza che di esse vi sia processo di generazione e di corruzione: è chiaro, infatti, che nessuno le genera né le produce. Per questa ragione, delle sostanze sensibili particolari non c’è né definizione né dimostrazione, in quanto hanno materia, la cui natura implica possibilità di essere e di non essere: perciò tutte queste sostanze sensibili individuali sono corruttibili. La materia non è determinabile perché la materia è potenza e la potenza può essere o non essere in atto. Ora, se la dimostrazione c’è solo di ciò che è necessario e se la definizione è un procedimento scientifico, e se, d’altra parte, come non è possibile che la scienza sia in un certo momento scienza e in un altro momento ignoranza /…/ allora è evidente che di queste sostanze non ci sarà né definizione né dimostrazione. 1040a, 10. Ma eppure è possibile definire alcuna Idea, perché l’Idea, come alcuni sostengono, è una realtà individuale e separata. Infatti, è necessario che la definizione consti di nomi, e colui che definisce non potrà coniare nuovi nomi, perché, in tal caso, la definizione resterebbe incomprensibile; ma i termini correnti sono comuni a tutte le cose, e pertanto è necessario che essi si applichino anche ad altro (oltre che alla cosa definita). Quindi, non viene definita in quanto tale. 1043a, 5. E, come nelle definizioni della sostanza ciò che si predica della materia è l’atto stesso. Ciò che si dice della materia non è altro che l’atto. Possiamo dire della materia solo quando la materia è in atto, sennò non possiamo dirne niente. 1043b,25. Cosicché c’è, sì, una sostanza di cui è possibile una definizione e una nozione, e questa è la sostanza composta (sia essa sensibile, sia essa intelligibile); ma, degli elementi primi di cui essa risulta composta, non è mi possibile una definizione, dal momento che la nozione definitoria implica sempre il riferimento di qualcosa a qualcos’altro (dove il primo termine deve fungere da materia e il secondo da forma). Dice che, sì, certo, è possibile una definizione di sostanza, ma definisco la sostanza che, in fondo, è l’atto, la forma, anche se c’è la materia. Non posso però definirne gli elementi, perché gli elementi li posso definire solo se sono forme, sennò rimangono indeterminati. Come dicevamo l’altra volta, la materia è coglibile solo in quanto formata. 1044b, 30. Per esempio: se il corpo è in potenza sano, e se la malattia è contraria alla salute, il corpo è forse in potenza e salute e malattia? E l’acqua è in potenza vino e aceto? O non si dovrà forse dire che la materia è potenza di quello positivo dei due contrari secondo il possesso e la forma, mentre è potenza dell’altro contrario solo secondo privazione e secondo corruzione contro natura? Qui incomincia a porre delle questioni impegnative, perché incomincia a dire che la potenza volge in atto, ma c’è un modo positivo e c’è un modo negativo di porsi in atto. Il corpo, dice, è in potenza salute e malattia. Sì, certo, ma la materia è potenza di quello positivo, sottintendendo ovviamente la salute. Quindi, c’è un modo buono e un modo non buono di passare dalla potenza all’atto. Questo incomincia a dirci di quanto per Aristotele sia importante fare intendere che il bene non è altro che il necessario passaggio all’atto di qualche cosa in potenza, ma in senso positivo. 1045b, 15. La radice di questi errori sta nel fatto che costoro ricercano la ragione unificatrice della potenza e dell’atto e la differenza che c’è tra l’una e l’altro. Invece, come abbiamo detto, la materia prossima e la forma sono una unica e medesima realtà; l’una è la cosa in potenza e l’altra è la cosa in atto. Pertanto, ricercare quale sia la causa della loro unità è lo stesso che ricercare la causa per cui ciò che è uno è uno: infatti, ogni cosa è un’unità, e ciò che è in potenza e ciò che è in atto, sotto un certo aspetto, sono una unità. Pertanto non c’è alcun’altra causa che faccia passare la cosa dalla potenza all’atto, se non la causa efficiente. Invece, le cose che non hanno materia sono tutte assolutamente ed essenzialmente unità. Dice che non si deve ricercare la causa come, per esempio, sapere perché l’uno è uno: l’uno è uno, e basta. Dice infatti, ogni cosa è un’unità, e ciò che è in potenza e ciò che è in atto, sotto un certo aspetto, sono una unità. Ci sta dicendo, ma già lo diceva prima, che c’è un limite, non si può andare all’infinito. Perché no? Perché sennò facciamo come gli eleati, facciamo come quelle persone che non hanno capito che il sinolo, l’unione di materia e forma, non è altro che ciò che Peirce chiamava segno, unione di significante e significato, è la stessa cosa. Ma gli eleati, e in parte anche Platone, non si sono resi conto del fatto che la materia è importante. È importante che ci sia qualche cosa di concreto, perché è il qualche cosa di concreto, qualcosa di reale, che consente la credibilità: qualcosa di reale, di tangibile, di materiale. Questo comporta naturalmente la presenza della materia, la quale però è indeterminata e, quindi, non dobbiamo chiederci che cos’è esattamente la materia. Quale giustificazione dà Aristotele per dire che la materia è necessaria? Dice che la materia è necessaria perché altrimenti non si spiegherebbe il movimento, cioè, non si spiegherebbe l’accrescimento o lo spostamento di qualche cosa, che riguarda “necessariamente” l’aspetto materiale: se non c’è materia non c’è accrescimento. Ma chi vieta di pensare che l’accrescimento sia qualche cosa messa in atto dal pensiero? E, poi, accrescimento: se la materia è indeterminata, come faccio a sapere se qualcosa l’accresce o la diminuisce? Lo diceva lui stesso qualche pagina addietro: fra quattro e mille come faccio a sapere qual è più grande se non ho un limite? Se ho un limite lo so, ma se non ho un limite non significa niente dire che mille è più grande di quattro. E così la materia: come posso pensare che la materia possa accrescersi se lui stesso dice che non determinabile? 1048b. …non bisogna cercare definizione di tutto, ma bisogna accontentarsi di comprendere intuitivamente certe cose mediante l’analogia. 1048b, 5. Non tutte le cose si dicono in atto nello stesso modo, ma solo per analogia: come questo sta a questo o rispetto a questo, così quest’altro sta a quello o rispetto a quello. Alcune cose, infatti, sono dette in atto come movimento rispetto a potenza, altre come sostanza rispetto a qualche materia. Non bisogna cercare definizione di tutto. E, poi, aggiunge: bisogna accontentarsi di comprendere intuitivamente certe cose mediante l’analogia. Perché? Che succede se invece cerco la definizione di tutto, cioè, cerco il perché di qualunque cosa? Succede quello che succede con gli eleati, con i sofisti, con Democrito non c’è più il fine, e cioè non posso più gestire nulla. Il τέλος, il bene, cui tutti devono tendere, mi scappa di mano perché come lo determino, come lo fermo, come so che è quello che è? Quindi, questa cosa qui, che non bisogna fare, non bisogna farla per mantenere l’idea di controllo. 1048b, 15. …invece l’infinito non è in potenza nel senso che esso possa diventare in atto una realtà di per sé sussistente, ma è in potenza solo in ordine alla conoscenza, giacché il fatto che il processo di divisione non abbia mai un termine, fa sì che questa attività esista come potenza, ma non che esista come realtà separata. Ma nel momento in cui ne parla, in cui discute questa cosa, cioè dell’infinito, ne fa una forma, necessariamente, e quindi anche l’infinito diventa qualche cosa di cui è possibile parlare, a condizione naturalmente che sia una forma. Qui entriamo proprio nel merito della questione perché lui dice che non bisogna cercare definizioni, ma d’altra parte dice che ciascuno deve cercare il bene: quindi, questo non devi, questo devi. Questa è una posizione etica. La metafisica, in effetti, è come se ponesse o tentasse di porre delle basi teoriche all’etica. In fondo, si tratta di puntare al bene, si “deve” puntare al bene e non si deve cercare definizione di ogni cosa. Eh sì, perché se cerco la definizione di ogni cosa, metti mai che voglia cercare la definizione di bene e ritrovarmi a questo punto di fronte a quel problema che Aristotele stesso ha ravvisato in tante occasioni: o trovo una definizione che è un’ipostasi, che dice che è questo, oppure se incomincio a definire non mi fermo mai; quindi, non bisogna andare oltre un certo punto. Quale punto? Lo diceva prima, molto banalmente: quello in cui, dicendo delle cose, incomincio a ripetermi, cioè, a dire la stessa cosa. Ma che razza di ragionamento è? Magari dico la stessa cosa perché non me ne viene in mente nessun’altra o perché non sono capace di andare oltre. Questa nozione di etica è sorretta, come sappiamo, dalla nozione di entelechia. L’atto è la forma e l’entelechia è la forma perfetta, quella in cui la potenza diventa atto, diventa cioè ciò che “deve” diventare. Come dire che il bene ciascuno ce l’ha in potenza ma “deve” tradurlo in atto. Porre questo bene come ciò che si “deve” ricercare, con le indicazioni di ciò che non si deve fare, questo è notevole perché costituisce la base di quella che, un paio di millenni dopo, è stata definita servitù volontaria. La servitù volontaria consiste principalmente nel fatto che io credo che esista un bene perché è stato “dimostrato”, come dire che è stata dimostrata la necessità del bene. Il bene è il passaggio in atto della potenza e sappiamo anche che il bene è quello che fa compiere questo passaggio in positivo. Ora, la servitù volontaria è quella che accetta il fatto che esista un bene superiore a cui io devo tendere, perché tutti gli uomini hanno questa idea di bene in potenza ma che devono produrre in atto, e questa è la condizione per potere essere buoni cittadini. Il fatto di porre in essere un’etica di questo tipo, che è ancora più pesante di quella che si trova nelle tre etiche più famose di Aristotele (la Grande etica, l’etica Eudemia e quella Nicomachea) perché questa è retta da qualcosa che appare necessario: il passaggio dalla potenza all’atto. È qualcosa di necessario, cui non è possibile sottrarsi: ciascuno è chiamato a compiere questa sorta di missione. E perché ciascuno lo fa volentieri, anziché ribellarsi a una cosa del genere? Il primo motivo è che si tratta di una necessità, il che significa che opporsi a tale necessità comporta l’andare contro natura, perché è nella necessità delle cose. L’entelechia è qualcosa di necessario per intrinseca struttura delle cose, per natura: non c’è una cosa che sia in potenza che non debba tramutarsi in atto, perché il restare in potenza significa non esistere, di per sé la potenza non è niente, non è determinabile. Quindi, naturalmente ciascuno non può non volere il bene come il passare dalla potenza all’atto, il non fare questo, come dicevo, è compiere un atto contro natura. La questione morale comincia con Socrate, è lui il primo moralista, è lui che incomincia a vagheggiare un bene supremo, un bene sovrasensibile; Platone lo articola, gli dà una forma; Aristotele lo ipostatizza, lo sistematizza fornendogli un supporto teorico con la nozione di entelechia. Non posso vedere Il bene superiore, ultrasensibile, ma tutti lo devono conoscere e riconoscere necessariamente, perché il non riconoscerlo è contro natura, perché per natura la potenza deve diventare atto, deve diventare ἐνέργεια. Quindi, con Aristotele ecco che si è costituita la pensabilità della servitù volontaria. Lui ancora non la pone come sistema, ci vorrà qualche cosa in più, occorreranno ancora i neoplatonici (Plotino, Porfirio e Proclo), perché questo Uno, la Forma, che per emanazione produce le altre cose, sia il Bene assoluto. Questo Uno non può essere negato, perché, negandolo, ci si trova di fronte al molteplice, ma, dicono loro, per pensare il molteplice questo molteplice lo penso come Uno. È possibile, certo, ma il passaggio, che incomincia con i neoplatonici, diventa poi esplicito con la Patristica: questo Uno diventa il Dio che più o meno conosciamo, è il Bene supremo a cui tutti devono tendere – che poi questo si chiami in un modo o nell’altro, è irrilevante – però, la pensabilità di una cosa del genere, ecco, questo è merito di Aristotele. Dico pensabilità perché nei presocratici, negli eleati, nei sofisti, in Democrito, questa cosa invece non è pensabile e, infatti, nessuno di loro costruisce un’etica, perché non può farlo. Il primo è stato Socrate, con poi la derivazione degli stoici, dei cinici e anche degli scettici, e cioè una vita condotta secondo la morale e più la morale è ferrea e più va bene.

Intervento: Socrate è anche morto moralmente.

Nietzsche diceva che il “porgi l’altra guancia” è il gesto della più grande tracotanza e superbia che si possa immaginare. Il gesto di Socrate di morire in omaggio alle leggi ateniesi, anche questo è una manifestazione di assoluta e totale superiorità nei confronti di tutti: io sono superiore a tutti. Una manifestazione di volontà di potenza. 1049b, 15. …la nozione di atto, di necessità, precede il concetto di potenza e la conoscenza dell’atto precede la conoscenza della potenza. Qui vedete come Aristotele abbia colto il funzionamento del linguaggio. Quello che dice qui è quello che dirà duemila anni dopo Peirce, semiotico americano, fondatore della semiotica contemporanea, e cioè che è dall’ultimo elemento, dalla Terzietà, direbbe Peirce, che posso cogliere i due elementi che vengono prima, soltanto dall’ultimo posso sapere qual è il primo. Aristotele ha anticipato anche la semiotica entro certi limiti, pensate alle quattro cause: causa materiale, formale, efficiente e finale. È la causa finale, dice Aristotele, che dice che cos’è questa cosa e perché è quella che è. Prendiamo l’esempio della statua di bronzo: c’è il bronzo come materia, la causa materiale; c’è, poi, la statua come forma, fatta dallo scultore, che è causa efficiente; quindi, la causa finale, l’idea che lo scultore ha della statua che vuole fare, che in fondo è la sua forma. È la causa finale ciò che muove tutto, che fa essere ciascuna cosa quella che è. Anche il bronzo, come materia, diventa quello che è, ha una sua ragion d’essere, per via della statua che è fatta di bronzo. Aristotele, il quale conosceva bene gli eleati essendo loro contemporaneo, dicendo queste cose dice qualcosa di straordinaria importanza; lui stesso si avvede dell’importanza che hanno. La causa finale, la forma – anche molti commentatori sovrappongono la causa finale e la causa formale – è quella che decide tutto, decide del perché una certa cosa è quella che è. Ora, qui ci sarebbe da fare una riflessione sulla questione del bene come causa finale. Quindi, il bene come forma. Sì, certo. È come dire che il bene è ciò che dà un significato a tutti gli atti che vengono compiuti, è ciò che dà un senso a ogni cosa. Ma questo bene da dove arriva? Arriva da considerazioni che lui aveva fatto in precedenza rispetto alle quali vige il suo divieto: non cercare oltre, noli quaerere, non ricercare, non lo devi fare, sennò tutto si dissolve, tutto scompare. Così come scompare ciò che io dico: mentre lo dico scompare in ciò che sto dicendo, e questo scomparirà in ciò che dirò subito dopo, e così via. Quindi, come lo definisco questo bene, come lo determino? Lo determino attraverso un divieto, attraverso l’idea che l’entelechia si orienti naturalmente verso il bene e cerchi di necessità la sua attuazione nel bene. È un bene che viene costruito, però Aristotele coglie la questione del linguaggio: inserisce il bene per dare un limite, per arginare, perché se non lo facesse si ritroverebbe esattamente nella posizione di quelli che lui vuole confutare (eleati, sofisti, Democrito, ecc.), e cioè in un domandare che non ha requie, tregua, anziché nella quiete tranquilla di chi pensa di avere trovato il punto di arresto, di avere trovato il finito essendosi sbarazzato dell’infinito. In fondo, il bene non è altro che un mettere un limite all’infinito. Aristotele dice che l’atto è anteriore alla potenza e dice (1050a, 5) …è anteriore, perché tutto ciò che diviene procede vero un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto, e in grazia di questo si acquista anche la potenza. Cioè: la potenza l’acquisto con l’atto, il significante lo acquisto con il significato, se vogliamo dirla alla de Saussure. 1050a, 20. L’operazione, infatti, è fine e l’atto è operazione, perciò anche l’atto vien detto in rapporto all’operazione e tende allo stesso significato di entelechia. L’entelechia è l’atto perfetto, l’atto compiuto, compiuto nel senso che ha in sé il sensibile, la materia. Non ci sarebbe, quindi, nulla di etico in tutto ciò, ma diventa etico nel momento in cui Aristotele immagina che tutto questo processo conduca necessariamente al bene, che abbia il bene come fine. In effetti, avrebbe potuto intendersi benissimo come una interessante riflessione intorno al funzionamento del linguaggio, e cioè che soltanto il significato fa esistere il significante, ciò che dico, o, per dirla con Hegel, l’in sé non esiste se il per sé non torna sull’in sé. 1051a, 5. Che rispetto a una potenza buona sia migliore e di maggior pregio l’atto della medesima, risulta evidente da ciò che segue. Tutte le cose che si dicono essere in potenza, sono, ciascuna, in potenza ambedue i contrari: per esempio, ciò di cui si dice che può essere sano, è quel medesimo soggetto che può anche essere malato, ed esso ha potenza di essere sano e malato nello stesso tempo. /…/ La potenza dei contrari, dunque, esiste ad un tempo in una medesima cosa, mentre non è possibile che i contrari stessi esistano insieme. 1050a, 35. L’essere e il non-essere si dicono, in un senso, secondo le figure delle categorie, in un altro senso, secondo la potenza e l’atto di queste categorie o secondo i loro contrari, e, in altro senso ancora, secondo il vero ed il falso. Per quanto riguarda le cose, l’essere come vero e falso consiste nel loro essere unite o nel loro essere separate, sicché sarà nel vero chi ritiene essere separate le cose che effettivamente sono separate ed essere unite le cose che effettivamente sono unite; sarà, invece, nel falso, colui che ritiene che le cose stiano in modo contrario a come effettivamente stanno. Come stanno le cose? Ce lo ha detto prima: innanzitutto, non devi chiederti oltre un certo limite; dopodiché, lo sappiamo attraverso l’analogia, l’induzione: se questo è in rapporto a quello, allora quest’altro, che è simile, sarà in rapporto a quell’altro. Stanno, quindi, così le cose, e cioè in un modo totalmente indeterminabile. Per poterle determinare, lui deve mettere un divieto. È esattamente l’operazione che fa Bertrand Russell quando parla dei paradossi: la sua teoria dei tipi non è altro che un divieto. Se vieto di chiedere ancora e ancora, è ovvio che ho già la risposta, una risposta banale, triviale, ovviamente, però una risposta, che quindi ferma il percorso. Questo percorso deve essere fermato pena il tornare ai presocratici, cosa che lui non può, non deve e non vuole fare. 1052a, 5. È anche evidente che, per quanto concerne gli esseri immobili, non è possibile errore relativamente al tempo, se li si considera appunto come immobili. Per esempio, se uno ritiene che il triangolo non muti, non potrà ritenere che, talora, i suoi angoli siano uguali a due retti, e talaltra, invece, no: in tal caso, infatti, il triangolo muterebbe. Può darsi, invece, che uno ritenga che, nell’ambito di uno stesso genere di cose, una abbia una certa proprietà e un’altra no: per esempio, nell’ambito dei numeri, che nessun numero pari sia primo, oppure che alcuni lo siano e altri no. Ma, intorno ad un numero singolarmente considerato, questo non è possibile; in tal caso, infatti, non lo si potrà più ritenere, in un certo senso, pari, e, in un altro, no; e il nostro giudizio sarà o vero o falso, dal momento che quello esiste sempre nello stesso modo. Qui c’è un richiamo alla dottrina pitagorica e platonica del numero. Per i pitagorici il numero era un’entità a sé, immaginavano fosse un quid che stava da qualche parte. Ciò che abbiamo letto e considerato questa sera merita anche una piccola aggiunta presa da un testo di Reale Concetto di filosofia prima e unità della Metafisica di Aristotele. Dice Reale Riferendosi alla caratterizzazione del concetto di atto, scrive Aristotele, ciò che vogliamo dire diventa chiaro ricorrendo a casi particolari. Induttivamente non bisogna esigere la definizione di tutto, ma talora accontentarsi di intuire il significato dei termini nel loro rapporto (νάλογον, per analogia). È stato notato che συνορãν sia un termine con cui Platone nel Fedro designa l’intuizione dell’Idea. Tuttavia, non ci sembra che in base a questo fatto si possa parlare di un ritorno al procedimento platonico da parte dello Stagirita. Συνορãν deve intendersi in relazione alla παγογή, di cui si parla immediatamente prima, cioè, del significato specifico dell’induzione aristotelica o, in un senso, che sia con quella conciliabile. Atto e potenza sono concetti che noi conosciamo con procedimento intuitivo e induttivo; dobbiamo vederli immediatamente nei particolari, la giustificazione della loro validità è data dalla loro stessa evidenza; si tratta di un vedere che le cose stanno così e non altrimenti. C’è di più: ἐνέργειαδύναμις non si possono caratterizzare singolarmente presi ma solo nel loro reciproco rapporto; non è possibile cogliere il significato del secondo, l’uno condiziona la comprensione dell’altro, e viceversa. Qui è dove Aristotele sembra cogliere veramente il linguaggio. E, infatti, dice a un certo punto nel Libro Z della sillaba, e cioè che i due elementi della sillaba BA, A e B, non sono più gli stessi di prima ma diventano una sillaba. Pone proprio la questione del segno, in modo preciso. Lui fa questo esempio per fare intendere il sinolo, unione di materia e forma, dove è l’unione, nell’esempio la sillaba, quella che conta e i due elementi non sono più quelli di prima ma diventano relazione. In un’altra nota Reale dice Questo dei significati analogici del concetto di atto è un passo molto importante perché Aristotele, nell’istante stesso in cui distingue i differenti significati di atto e di potenza, dice qual è il rapporto di unità che li lega, il rapporto di analogia! Parliamo di atto non in un senso univoco ma neppure equivoco, bensì analogo. I termini dell’analogia sono: l’atto, nel senso di movimento, sta alla potenza del movimento così come l’atto, come sostanza formale o forma, sta alla potenzialità della materia, e l’analogia, qui chiamata in causa, è l’analogia di proporzione… È chiaro poi che il significato di potenza come materia e di atto come forma vale per la prima categoria, la sostanza, e solo per essa; l’altro significato di potenza è atto connesso al movimento vale non solo per la prima ma per tutte quelle categorie cui è connesso il movimento e il mutamento. Si chiarisce, inoltre, in via definitiva, come il significato relativo alla sostanza sia quello che qui preme ad Aristotele, giacché tramite l’approfondimento di esso egli avrà modo di guadagnare un’ultima essenziale dimensione della sostanza stessa, cioè l’essere.

Intervento: Trovato il passo… 1041b, 10.

Lo leggiamo. È evidente, allora, che delle cose semplici non è possibile ricerca né insegnamento e che, di queste, dovrà esserci un altro tipo di ricerca. Ciò che è composto di qualche cosa in modo tale che il tutto costituisce una unità, non è come un mucchio, ma come una sillaba. E la sillaba non è solo le lettere da cui è formata, né BA è identica a B e A, né la carne è semplicemente fuoco e terra: infatti, una volta che i composti, cioè carne e sillaba, si siano dissolti, non esistono più, mentre le lettere, il fuoco e la terra continuano ad essere. Dunque, la sillaba è un qualcosa che non è riducibile unicamente alle lettere, ossia alle vocali e alle consonanti, ma è un qualcosa di diverso da esse. Vale a dire, la relazione è qualcosa di diverso, la relazione è il terzo, diceva Greimas nella Semantica strutturale, è la relazione che fa dei due elementi, di cui è composta, quelli che sono. Questi elementi sono un’altra cosa: la B e la A, come dice Aristotele, sono un’altra cosa nella loro relazione. Ora, se ciascuna cosa è in quanto è in relazione, è chiaro che se scompongo la cosa ottengo un qualche cosa che non è più ciò che sto considerando nella relazione.