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22 agosto 2018

 

Kant e il problema della metafisica M. Heidegger

 

Questa sera leggeremo alcune cose tratte dal testo di Heidegger, Kant e il problema della metafisica. È un testo che, a mio avviso, può fare da ponte tra il testo che abbiamo appena finito di leggere e il testo di Severino, La struttura originaria. Heidegger sta considerando Kant, la Critica della ragion pura. Per “pura” si intende che non ha nulla a che fare con l‘esperienza. Andiamo a pag. 164. Il tempo, come autoaffezione pura… Autoaffezione, cioè, qualcosa di cui ci si accorge da sé, senza avere bisogno dell’esperienza. Il tempo, come autoaffezione pura, è quell’intuizione pura finita che, in generale, sorregge, rendendolo possibile, il concetto puro (l’intelletto), il quale sta essenzialmente al servizio dell’intuizione. È importante la questione dell’intuizione perché è ciò da cui parte Kant per fondare la metafisica; intuizione pura perché non è viziata da nessuna esperienza, né presente né futura. Questo gli serve per potere poi giustificare il passo successivo che riguarda la sensibilità, che riguarda l’intelletto, perché queste cose devono pur muovere da un qualche cosa. Da che cosa? Da un’autoaffezione pura. L’autoaffezione pura è il tempo. Senza l’idea di tempo non c’è la possibilità di pensare alcunché, perché il pensiero si snoda nel tempo: io so quello che ho pensato prima, so quello che sto pensando adesso, so forse, in parte, quello che penserò dopo, ma è il tempo che mi consente di ordinare le cose, di ordinare i pensieri. Se non ci fosse il tempo per Kant, e non solo per lui, non ci sarebbe neanche il pensiero, pensiero inteso come una successione di eventi, di stati. Il concetto di tempo è stato molto criticato; il problema è che, per poterlo criticare, occorre un tempo fatto in quel modo: se non c’è non posso criticare nulla. L’autoaffezione pura definisce la struttura trascendentale originaria del se-stesso finito in quanto tale. La struttura trascendentale originaria per Kant rappresenta ciò che è la condizione del pensiero, che è quello che consente di avere un’intuizione pura. Non si ha mai la conoscenza dell’oggetto in sé, si ha la conoscenza attraverso un qualche cosa, la conoscenza è sempre mediata. Trascendentale in Kant indica propriamente questa funzione, cioè di indicare quali sono i modi del pensiero che consentono di accedere al pensare, quali sono i “modelli” di pensiero che mi consentono di pensare le cose. Il riferimento di qualcosa a sé e l’esercizio di autoposizioni non costituiscono affatto un aspetto supplementare e occasionale del modo di esistenza di un animo. Il muovere da sé, dirigendosi a…, per tornare su di sé costituisce, al contrario, in via esclusiva, proprio il carattere specifico dell’animo, in quanto se-stesso finito. Sta considerando la questione dell’autoaffezione: l’accorgersi da sé di qualche cosa. Per Kant l’autoaffezione pura è il tempo; aveva messo anche lo spazio, però poi, di fatto, ha lasciato unicamente il tempo perché anche lo spazio ha bisogno del tempo. Ogni altra cosa, secondo Kant, è una sintesi di pensiero, mette insieme varie cose attraverso l’esperienza o attraverso un ragionamento, mentre l’intuizione pura non è ragionamento. Il giudizio sintetico a priori è, per esempio, il giudizio logico; non ho esperienza che se a allora b, se b allora c, quindi, se a allora c, non ho esperienza diretta di una cosa del genere e anche se la vedo non mi dice nulla se non ci ragiono, se non so cosa vogliono dire quelle cose. Quindi, la sintesi per Kant è qualcosa che è fondamentale ma che ha sempre bisogno di una intuizione pura, che è il tempo, senza la quale non può fare niente. Ma vediamo più da vicino la questione che a noi interessa, perché a noi interessa sapere come Heidegger intende questo tentativo di Kant di fondare la metafisica. A pag. 168. La fondazione kantiana della metafisica indaga circa il fondamento dell’intrinseca possibilità dell’unità essenziale della conoscenza ontologica. Kant, dopo avere accertato che la cosa in sé non è raggiungibile, si è occupato delle condizioni. Il trascendentale è questo: occuparsi delle condizioni della conoscenza. Il fondamento nel quale essa si imbatte è l’immaginazione trascendentale. Contro la tesi iniziale delle due fonti basilari dell’animo (sensibilità e intelletto) … L’intuizione pura è la sensibilità e l’intelletto è la ragione. …l’immaginazione trascendentale si impone come facoltà intermedia. Fa, cioè, da tramite tra queste due, tra l’intuizione e l’intelletto, il ragionamento. L’interpretazione originaria di tale facoltà intermedia, posta come fondamento, ha svelato, oltre alla sua funzione originaria di termine medio unificante, la sua natura di radice dei due ceppi. Heidegger, parlando di Kant, sta dicendo che l’immaginazione è, sì, posta come medio tra i due - Kant cerca un’unità, per fondare la metafisica occorre qualcosa di unitario – ma, in realtà, diventa un elemento prioritario, come dire che tutta la conoscenza è fondata sull’immaginazione, il che non è poco. Si è aperta così la via verso il terreno d’origine delle due fonti basilari. Sensibilità e intelletto. L’interpretazione dell’immaginazione trascendentale come radice, ossia il chiarimento del modo in cui la sintesi pura dà sviluppo e sostentamento ai due ceppi, ci ha spontaneamente condotti a scoprire dove è radicata questa radice, ci ha ricondotti, cioè, al tempo originario. Solo il tempo, in quanto formazione originaria della triplice unità di futuro, passato e presente in generale, rende possibile la “facoltà” della sintesi pura, o meglio, rende possibile ciò che essa è in grado di effettuare: l’unificazione dei tre elementi della conoscenza ontologica, nell’unità dei quali si forma la trascendenza. I tre elementi sono: l’intuizione, l’immaginazione, che sta in mezzo, e l’intelletto. I modi della sintesi pura – apprensione pura, riproduzione pura, ricognizione pura – sono tre non per un riferimento ai tre elementi della conoscenza pura, ma perché, grazie alla loro intrinseca unità originaria, formano il tempo e ne costituiscono lo sviluppo. Come dire che questi tre momenti sono il tempo: presente, passato e futuro. L’apprensione pura è il presente, ciò che si dà, ciò che appare; la riproduzione pura è il passato, riproduco qualcosa che c’è stato ma non c’è più; la ricognizione pura è il vedere in avanti, è il vedere il futuro. A pag. 172 fa un’annotazione interessante rispetto alla questione dell’interpretazione. È vero che Kant non ha potuto pronunciarsi direttamente in proposito, ma è anche vero che in ogni conoscenza filosofica il fattore determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì il non ancora detto immediatamente suggerito dalle enunciazioni esplicite. Ciò che importa non è ciò che si dice esplicitamente ma ciò che non è detto, ciò che, potremmo dire, si dice tra le righe; quello che si dice apre ad altre cose, che sono quelle che importano. A pag. 173. La fondazione kantiana della metafisica fa capo alla immaginazione trascendentale. Questa per Kant diventa a un certo punto il fondamento della conoscenza. Quest’ultima è la radice dei due ceppi: sensibilità e intelletto. In quanto tale, essa rende possibile l’unità originaria della conoscenza ontologica. La radice stessa, però, è radicata nel tempo originario. Il fondamento originario, che diviene manifesto nella fondazione, è il tempo. Su questa questione del tempo ha insistito molto Heidegger perché ha interessato molto anche lui: il tempo, la storicità. Ora, è curioso che, per fondare la metafisica, sia Kant sia Heidegger si sono rivolti al tempo. Come dire che qualcosa è fondato sulla temporalità, sul fatto che qualcosa appare qui e adesso, per cui la mia intuizione pura non è svincolata dal tempo, anzi, è il tempo. È il tempo che mi fa intuire qualche cosa, perché è adesso. Poi, sì, c’è la riproduzione, la ricognizione, ma c’è l’adesso ciò su cui si fonda ogni cosa, l’adesso che per Heidegger è storico, in quanto è un adesso che tiene conto di una quantità sterminata di cose. A pag. 185. Che cosa è risultato veramente nel corso della fondazione kantiana? Non che il fondamento è l’immaginazione trascendentale, non che questa fondazione si traduce in una domanda circa l’essenza della ragione umana, ma che Kant, nello svelare la soggettività del soggetto, indietreggia di fronte al fondamento da lui stesso posto. Dunque, l’immaginazione, per fondare la soggettività del soggetto, cioè qualche cosa che potesse costituire un elemento solido, però, arretra di fronte al fondamento che lui ha posto, l’immaginazione, non lo porta fino alle estreme conseguenze. Adesso vediamo perché. A pag. 186. …l’indietreggiare di Kant di fronte al fondamento da lui svelato (l’immaginazione trascendentale), l’indietreggiare rispondente all’intento di salvare la ragion pura, ossia di mantenere stabile il proprio terreno di base, è quel movimento del pensiero filosofico, che palesa il cedimento di tale terreno e, insieme, l’abisso della metafisica. Avete già forse intuito quale potrà essere; poi, Heidegger lo dirà: è l’uomo, l’esserci. Kant vuole fondare la soggettività del soggetto senza tenere conto dell’uomo: è questo che sta dicendo Heidegger. È per questo motivo che dice che Kant indietreggia di fronte a questa, perché qualunque possibilità di fondazione vacilla: se devo mettere l’uomo a fondamento, metto un qualche cosa che è continuamente diverso, che continuamente muta. A pag. 188. La fondazione della metafisica trova la sua base nell’interrogazione sulla finitezza dell’uomo, in guisa tale che la finitezza medesima può, ora soltanto, diventare problema. La fondazione della metafisica è “risoluzione” (analitica) della nostra conoscenza, ossia della conoscenza finita, nei suoi elementi. Per trovare qualcosa come fondamento questo qualcosa deve essere qualcosa che è quello che è, di finito, non può essere infinito, sull’infinito non posso fondare nulla. Questo studio, peraltro, può evitare di essere una ricerca arbitraria sull’uomo, condotta alla cieca, e può costituire anzi per il filosofo un dovere, solo se la problematica, che essenzialmente lo guida, viene afferrata in modo sufficientemente originario e comprensivo, e se, a partire da essa, la “natura interna” del nostro se-stesso viene posta in questione come finitezza inerente all’uomo. Qui Heidegger ha già posto la questione dell’uomo. La questione del fondamento della metafisica è la questione della fondabilità della soggettività del soggetto, cioè, di un soggetto individuato, che è quello che è. Però, se questo soggetto è l’uomo diventa complicato. È come se Kant volesse obiettivare il soggetto, renderlo un oggetto obiettivato, che è quello che è necessariamente; mentre con l’uomo diventa più difficile, perché sappiamo che l’uomo è l’esser-ci. A pag. 190. La fondazione kantiana della metafisica incominciava con il dar fondamento a ciò che costituisce la base della metafisica propriamente detta (metaphisyca specialis), ossia alla metaphisyca generalis. La metaphisyca generalis si occupa dell’ente in quanto ente, dell’essere dell’ente; mentre la metaphisyca specialis dell’ente in quanto ente particolare. Ma questa (la metaphisyca generalis) – in quanto ontologia (che si interroga sull’essere dell’ente, su che cosa rende l’ente quello che è) è la forma, consolidata in disciplina, di ciò che gli antichi, da ultimo con Aristotele, classificarono stabilmente come problema della πρτη ϕιλοσοϕία, del filosofare autentico. La domanda sull’ṏν ṏν (l’ente in quanto ente) si trova però, nella stessa sede, oscuramente connessa con quella sull’ente in totale (ϑείον) (l’ente nella totalità dell’ente). Quindi, la domanda sull’ente. È come se Heidegger avesse ravvisato che già in Aristotele l’interrogazione sull’ente verte sulla totalità dell’ente. Quindi, se io voglio considerare un ente non posso considerarlo se non considerando la totalità degli enti e la totalità dell’ente in quanto ente che mi si presenta, in questo momento, così com’è. A pag. 196. La comprensione dell’essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. La comprensione dell’essere come ciò che appare; ciò che appare è l’essere. E tuttavia, se la comprensione dell’essere non avesse luogo, l’uomo non sarebbe mai in grado di essere l’ente che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L’uomo è un ente che si trova in mezzo all’ente, e vi si trova in modo tale, per cui l’ente che egli non è e l’ente che egli stesso è gli sono già sempre manifesti. L’uomo è un ente tra enti, però, è quell’ente che può interrogare l’ente, ovviamente. Ma questi enti gli sono già sempre manifesti, dice Heidegger, è la famosa pre-comprensione di cui parlava in Essere e tempo, perché l’essere è già da sempre manifesto. Se c’è l’ente questo ente è un ente, quindi è, questo essere gli è già da sempre conosciuto. Il fatto che qualcosa sia qualcosa: questo gli è già da sempre conosciuto. Con l’esistenza dell’uomo si produce un’irruzione nella totalità dell’ente, ed è solo per questo evento che l’ente, in un raggio più o meno ampio e secondo diversi gradi di chiarezza e di certezza, diviene manifesto in se stesso, cioè in quanto ente. Ma questo privilegio (dell’uomo) di non limitarsi a esser presente fra l’ente restante senza che questo ente divenga, fra sé, manifesto come tale, e di trovarsi invece in mezzo all’ente, consegnato all’ente in quanto tale, e rimesso a se stesso come a un ente, questo, che è il privilegio di esistere, reca in sé la necessità, il bisogno della comprensione dell’essere. È tutto il discorso che faceva intorno agli animali: solo l’uomo comprende l’ente in quanto ente, nella sua totalità; l’animale non comprende l’ente, è in mezzo agli enti ma non può in nessun modo avere la percezione di un ente, di qualcosa che è in quanto qualche cosa. L’uomo non avrebbe la facoltà d’esser l’ente che è, ossia “gettato” come un se-stesso, se non potesse lasciar-essere, in genere, l’ente come tale. Cioè: se non si aprisse all’ente in quanto ente. Ma per poter far sì che l’ente sia ciò che è e sia così com’è, l’ente esistente deve già sempre aver progettato ciò che incontra, quanto al suo esser ente. Per far sì che ci siano degli enti occorre che questo esser-ci abbia già da sempre progettato l’ente, cioè, occorre che già da sempre si stia occupando di qualche cosa. Ma, detta così, potrebbe far intendere che occuparsi di qualcosa prevede già l’esistenza di un qualche cosa di cui mi occupo, mentre per Heidegger non è esattamente così. Il fatto che io mi trovi a volere modificare un qualche cosa… Adesso, parlando di enti, si può fraintendere, possiamo però parlare di parole, di significanti: io voglio modificare il significante, ed è per questo che questo significante mi appare in quel modo, proprio perché lo voglio modificare. È il discorso che Heidegger faceva in Essere e tempo rispetto all’utilizzabile: è perché voglio modificare qualcosa che questo è un utilizzabile, ma perché lo voglio modificare? Per la volontà di potenza. Esistenza significa stato di assegnazione all’ente in quanto tale, nella remissione all’ente così assegnato, in quanto tale. Perché qualcosa esista occorre che esista in quanto tale, che ci sia la possibilità di mettere quella distanza, che consente di accorgermi di un significante in quanto significante e non come suono, come rumore. L’esistenza, come modo d’essere, è in sé finitezza e, in quanto finitezza, è possibile soltanto sul fondamento della comprensione dell’essere. La finitezza, cioè il fatto di avere a che fare con cose finite. È perché la cosa è finita che posso dire che questo è un libro - se fosse infinito, non mi fermerei mai - e, quindi, posso avere cognizione dell’essere, perché quando dico che questo “è” un libro sto parlando dell’essere. Così, la comprensione dell’essere che, senza essere riconosciuta nella sua vastità, costanza, indeterminatezza, indubitabilità, domina l'esistenza dell’uomo, si palesa come il più intimo fondamento della finitezza umana. Per dire che qualcosa è, per confrontarmi con l’essere dell’ente, occorre che questa cosa sia finita, al di là del fatto che l’uomo stesso è finito, a un certo punto si spegne e chiuso il discorso. La comprensione dell’essere non ha l’innocua generalità di una proprietà riscontrabile con frequenza nell’uomo, fra molte altre; la sua “universalità” è l’originarietà stessa del più intimo fondamento della finitezza dell’esserci. Solo perché la comprensione dell’essere è quanto v’è di più finito, essa può rendere possibili anche le capacità cosiddette “creative” dell’essere umano finito. E solo perché ha luogo nel fondo della finitezza, essa ha l’ampiezza e la costanza che le abbiamo riscontrato, ma ha anche la caratteristica di essere nascosta. Sul fondamento della comprensione dell’essere l’uomo è il “ci” (Da), con l’essere del quale si produce l’irruzione nell’ente, che apre l’ente medesimo, dandogli la possibilità di rivelarsi a un se-stesso. Più originaria dell’uomo è la finitezza dell’esser-ci, nell’uomo. Ciò che quindi è originario nell’uomo è questo esser-ci. Questo “ci”, che è l’uomo, è attaccato all’essere e, quindi, esser-ci. Tutto questo è per Heidegger l’indice della finitezza, perché io sono qui, in questo momento; non sono infinito, sono qui, adesso. A pag. 198. Il problema della fondazione della metafisica trova la sua radice nell’interrogazione sull’esser-ci nell’uomo, o meglio sul suo più intimo fondamento, la comprensione dell’essere come finitezza essenzialmente esistente. Questo lo sta dicendo Heidegger: per fondare la metafisica occorre interrogarci sull’esser-ci, o meglio, sul suo più intimo fondamento, la comprensione dell’essere come finitezza essenzialmente esistente. La comprensione dell’essere, cioè, quando io dico che questo è un libro, che cosa sto dicendo? Cos’è questa “è”? Lo vedremo meglio in Severino, ma “questo” non è avulso da “libro”, la “è”, sì, li mette in relazione ma fa qualcosa di più. Come dice Heidegger, mette in mostra l’essere che fa esistere questo come libro. A pag. 200. La costituzione dell’essere di ogni ente, e, in senso precipuo, quella dell’esser-ci, diviene accessibile solo nella comprensione, e solo in quanto questa comprensione ha carattere di progetto. Qui sta dicendo una cosa impegnativa, cioè, la costituzione dell’essere di ogni ente ha carattere di progetto, è un progetto. È il progetto che dà all’ente il suo essere. È un’affermazione impegnativa perché è come dire che è l’esser-ci, l’uomo, che fornisce l’essere all’ente. Vedete che qui l’essere non ha più nulla a che fare con l’essere tradizionale della filosofia, come la sostanza o l’essenza di qualche cosa che starebbe immobile da qualche parte. No, qui l‘essere è temporalità. È l’uomo, in quanto progetto, che costituisce l’essere di ogni ente. Giacché la comprensione – come mostra appunto l’ontologia fondamentale – non è soltanto un modo del conoscere, ma è prima di tutto un momento fondamentale dell’esistere in generale… Ricordate che l’esistere, per Heidegger, riguarda solo l’esser-ci; gli animali non esistono, ci sono ma non esistono. …l’esplicita esecuzione del progetto… Ci sta dando un’altra indicazione importante: il conoscere è prima di tutto un momento fondamentale dell’esistere in generale, cioè, è l’esplicita esecuzione del progetto. Il conoscere non è altro che l’esplicita esecuzione del progetto. …specialmente trattandosi della comprensione concettuale ontologica, deve essere necessariamente costruzione. Costruzione, però, qui non significa libera e incontrollata invenzione di qualcosa. È piuttosto un progettare, nel quale tanto la direttiva preliminare, quanto l’esito del progetto devono essere determinati e assicurati in precedenza. L’esser-ci deve essere costruito nella sua finitezza e precisamente partendo dalla considerazione di ciò che rende possibile la comprensione dell’essere. Ciò che rende possibile la comprensione dell’essere è il progetto. Vedete come tutti questi elementi è come se si sostenessero l’un l’altro; potremmo dire che sono tutte facce della medesima questione. A pag. 203. L’unità della struttura trascendentale della più intima indigenza dell’esser-ci nell’uomo ha preso il nome di “cura”. La parola, per se stessa, non ha alcuna importanza; tutto sta a capire ciò che l’analitica dell’esser-ci ha tentato di portare in luce, usando questo termine. La cura, il prendersi cura, è del progetto. Il progetto è prendersi cura. A pag. 206. È la concezione dell’ente propriamente detto come οσία, παρουσα, secondo un significato che in fondo è quello di “presenza”, di possesso immediato e ognora presente, di “avere”, che cosa implica? Questo progetto denuncia che “essere” vuol dire persistenza nella presenza. Qui risolve un problema che si era posto anche Aristotele: sì, certo, la presenza, però, la presenza qui, adesso, in questo istante, ma l’essere svanisce anche lui all’istante? No, dice, l’essere vuol dire persistenza nella presenza, ciò che persiste nella presenza. Che cos’è che persiste nella presenza? Quando dico “questo è un libro”, cos’è che persiste nella presenza di questo libro? L’essere un libro, è questo che persiste, ed è in questo senso che può dire che l’essere persiste nella presenza. A pag. 208. La metafisica non è affatto ciò che l’uomo “crea” sistemi e dottrine… La “metafisica” è l’accadere fondamentale nell’irruzione nell’ente, irruzione che si verifica con l’esistenza effettiva di un ente qual è l’uomo in generale. Quando l’esser-ci irrompe nell’ente irrompe metafisicamente, nel senso che irrompe con il suo fondamento. E qual è il fondamento dell’esserci? Il progetto, semplicemente. Quindi, ciascuno irrompe nell’ente in quanto progetto, ed è l’irruzione in quanto progetto che costituisce il fondamento, non c’è un fondamento da qualche altra parte. Questo già si intuiva in Essere e tempo. A pag. 209. Il tempo, nella sua essenziale unità con l’immaginazione trascendentale, viene ad assumere, nella Critica della ragion pura, la funzione metafisica centrale non perché funge da “forma dell’intuizione” ed è interpretato in tal senso all’inizio dell’opera, ma perché la comprensione dell’essere, muovendo dal fondo della finitezza dell’esserci nell’uomo, deve progettarsi sul tempo. Come faccio a progettarmi se non c’è il tempo? Un progetto è qualcosa che va verso il futuro. Se non ci fosse il tempo, se tutto, per assurdo, fosse istantaneamente presente, se ci fosse solo un adesso e basta, quale progetto si potrebbe formulare? Nessuno. La Critica scuote così la supremazia della ragione e dell’intelletto. La “logica” perde il primato prima goduto fin dall’antichità in seno alla metafisica. L’idea stessa di logica vien posta in questione. E viene scalzata dalla questione del tempo, o meglio, per dirla con Heidegger, della temporalità delle cose. Sarebbe, come diceva nei Concetti fondamentali della metafisica, l’aspetto del pre-logico. Il tempo è pre-logico, è quella che cosa che consente la costruzione anche della logica, perché la logica, nel sillogismo più banale, prevede la premessa maggiore, quella minore e la conclusione, tre momenti che devono essere distinti ed è il tempo che ci consente di distinguerli. In definitiva, senza il tempo non c’è logica, né nessuna altra cosa, naturalmente. Se l’essenza della trascendenza ha il suo fondamento nell’immaginazione pura o, più originariamente, nella temporalità, una “logica trascendentale” risulta senz’altro inconcepibile, soprattutto quando la si consideri ancora, contro l’intento originario di Kant, autosufficiente e assoluta. Tutta la metafisica contemporanea è fondata sulla logica, la metafisica odierna ha come modello la filosofia analitica, la filosofia del linguaggio. Kant deve aver avuto qualche sentore di questo crollo della supremazia della logica in seno alla metafisica se, a proposito dei caratteri fondamentali dell'esser’, della “possibilità” (essenza) e della “realtà attuale” (per Kant “esistenza” (Dasein)) ha potuto dire: “Possibilità, esistenza, necessità non si sono mai potute spiegare senza manifesta tautologia, quando si voglia ricavare la loro definizione unicamente dall’intelletto puro”. Kant a questo punto si accorge che non basta l’intelletto puro, che ci vuole qualche altra cosa. E tuttavia, nella seconda edizione della Critica, Kant non ha forse restituito la supremazia all’intelletto? E in seguito a ciò, la metafisica non si è, con Hegel, trasformata in “logica” così radicalmente come mai era accaduto? Riprende quello che aveva detto prima, e cioè che Kant si è ritratto a un certo punto di fronte alla eventualità della complessità immane della fondazione della metafisica. Pensare di fondarla sulla logica, sui caratteri formali della logica, è certo più semplice, non offrono grossi problemi, però, chi garantisce della validità di tutte le pre-supposizioni di cui la logica ha bisogno per potere avviarsi? Più avanti si trova in una discussione con Cassirer, filosofo tedesco contemporaneo di Heidegger. Cassirer fa delle obiezioni a Heidegger. Una di queste obiezioni dice, a pag. 220: C’è un punto nel quale siamo d’accordo, ed è che l’immaginazione produttiva in effetti sembra anche a me avere una posizione centrale in Kant. A questa conclusione sono stato condotto dai miei studi sul simbolico. Cassirer era noto per i suoi studi sul simbolico in filosofia. L’immaginazione è la relazione di tutto il pensiero all’intuizione. Kant la chiama: synthesis speciosa. La sintesi è la facoltà fondamentale del pensiero puro. Se non c’è sintesi non c’è intelletto. Va bene che ci sia intuizione pura ma se non c’è l’intelletto che ce ne facciamo? Ma a Kant non importa la sintesi senz’altro, bensì in prima linea la sintesi che si serve della species. Ma questo problema della species porta nel cuore del concetto di immagine, del concetto di simbolo. Qui lui tira l’acqua al suo mulino. Però, Heidegger non è d’accordo e risponde a pag. 224. E ora veniamo alla domanda di Cassirer circa le verità eterne universalmente valide. Quando dico: la verità è relativa all’esserci, non si tratta di un’asserzione ontica nel senso di dire: è sempre soltanto vero quello che pensa l’uomo singolo. Heidegger non ha mai pensato una cosa del genere, anzi, questa per lui sarebbe la chiacchiera. Si tratta invece di una proposizione metafisica che significa: la verità ha in generale può essere come verità, e, come verità, un senso soltanto se esiste l’esserci. Mi sembra più che ragionevole, cioè, la verità può essere tale, può avere un senso, se esiste l’esserci, se c’è qualcuno che dice che questa cosa è vera. Se non esiste l’esserci, non c’è alcuna verità e non c’è nulla in generale. Soltanto con l’esistenza di qualcosa come l’esserci giunge la verità nell’esserci stesso. Ma allora si pone la questione: come stanno le cose per quanto riguarda la validità dell’eternità della verità? Questa questione viene sempre considerata dal punto di vista della validità della proposizione enunciata, e soltanto muovendo da questo termine di riferimento si torna poi al problema di ciò che vale, e a questo scopo si trovano poi valori o simili. Io credo che il problema vada sviluppato in altro modo. La verità è relativa all’esserci, ma questo non significa che non ci sia alcuna possibilità di render manifesto l’ente per tutti, così com’è. Direi però che questa intersoggettività della verità, questo erompere della verità al di là del singolo stesso come essere-nella-verità, significa essere consegnati all’ente stesso, esser posti nella possibilità di formarlo. Quello che può esser qui riscosso come conoscenza oggettiva, ha in conformità all’esistenza singola via via effettiva un contenuto di verità che come tale dice qualcosa circa l’ente. È un’interpretazione errata della validità peculiare che gli viene attribuita, dire: di fronte al flusso dell’esperienza vissuta c’è qualcosa di permanente, l’eterno, il senso e il concetto. Io pongo piuttosto l’interrogativo opposto: che vuol dire qui propriamente “eterno”? di dove prendiamo il sapere di questa eternità? Questa eternità non è soltanto la permanenza nel senso dell’άεί del tempo? Come posso parlare di una verità eterna? Cosa intendo con eterno? Per parlare di eterno ho bisogno del tempo, quindi, c’è già un qualche cosa a fondamento della verità, in questo caso assoluta, per cui rende condizionata la verità assoluta che, a questo punto, non è più assoluta. Quest’eternità non è soltanto ciò che è possibile in base a una trascendenza interna del tempo stesso? La mia interpretazione della temporalità ha quest’intento metafisico e cioè domandare: tutti questi termini della metafisica trascendentale come a priori, άεί ṏν, οσία sono contingenti, oppure di dove vengono? Da dove vengono le parole? È questa in fondo la domanda fondamentale di Heidegger. Lui risponde: dalla temporalità, dall’esserci, dal fatto che io mi trovo nel mondo, io ente mi trovo immerso negli enti, e questi enti, che mi vengono incontro, mi vengono incontro perché io per qualche motivo li voglio modificare. Pensate ai significanti, le parole, sono enti anche loro, da dove vengono? È possibile che qualche cosa sia fuori del linguaggio? La risposta è no, ovviamente. Fuori dal linguaggio non viene niente, da nessuna parte, quindi, se qualcosa mi viene incontro viene dal linguaggio, è perché c’è la possibilità di cogliere un significante in quanto significante, un ente in quanto ente, nella sua totalità, cioè, così come appare.

Intervento: Quando dice “ente nella sua totalità” penso alla parola che è parola nella sua totalità in quanto è nel linguaggio.

È nella sua totalità in quanto è ciò che è, ma è quello che è perché è nel linguaggio. Lo diceva anche de Saussure, a modo suo ma lo diceva in modo chiaro: un significante è un significante in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, cioè, potremmo dire, con la totalità dei significanti. Quindi, quando parla di totalità dell’ente intende l’ente come un tutto ma un tutto che deve il suo esser tutto alla totalità degli enti. Questo ci apre alla questione che pone Severino, che viene post in termini molto interessanti. Per esempio, rispetto all’identità, all’impossibilità di negare il principio di non contraddizione. Negare il principio di non contraddizione sarebbe un’autocontraddizione. Dice, per esempio: A è A. Questa identità, in effetti, mostra la contraddittorietà di questa proposizione, cioè A, soggetto, è A, predicato; quindi, uno è soggetto e l’altro è predicato. Sta dicendo, in definitiva, che qualunque proposizione è autocontraddittoria; quando dico che questo è… qualunque cosa, non importa, questa affermazione è autocontraddittoria, necessariamente. Che è esattamente ciò che diciamo noi: per dire che qualcosa è devo dire ciò che non è. Infatti, dicendo che A è A dico che A, il soggetto, è un predicato, ma il soggetto non è un predicato; quindi, la prima A, il soggetto, è qualche cosa che non è, per cui, per dire che cosa è A, devo dire che cosa non è.