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22 luglio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

C’è una questione che mi interessa porvi, che è connessa indirettamente anche alla politica, nel senso lato del termine. È una questione che ha a che fare con la dialettica servo-padrone, di cui Hegel parla nella Fenomenologia dello spirito – per molti Hegel è conosciuto solo per questo. Forse è il caso di riassumere in due parole la dialettica servo-padrone. È una sorta di mito, come quello di Freud rispetto a Totem e tabù. Il padrone è colui che agisce, che vuole il potere subito, adesso, qui. E, quindi, elimina qualunque cosa lo ostacoli. Naturalmente, gli si para innanzi un altro tizio che ha la sua stessa intenzione; quindi, si prendono a sciabolate e, generalmente, avviene che uno dei due muore. Il padrone, quindi, compie questa operazione ma a rischio della propria vita. C’è un altro personaggio, dice Hegel, il servo, che invece teme per la propria vita e non vuole affrontare l’altro e, di conseguenza, si sottomette al padrone, perché il non sottomettersi comporterebbe l’affrontarlo e, quindi, il rischiare la pelle, cosa che preferisce non fare. Detto questo, ciò che a noi interessa è la dialettica servo-padrone, una dialettica che è stata posta in questo ultimo secolo in modo particolare, nel senso che è passata prevalentemente attraverso la interpretazione di Kojève e, quindi, attraverso una interpretazione marxista, dove il servo sta per il proletariato, per il lavoratore. Ciò che dice Kojève, seguendo in parte ciò che dice Hegel, è che a un certo punto il lavoratore, che è colui che serve il padrone, e lo fa modificando la natura, lavorando per lui, si accorge che può fare tantissime cose, può fare delle cose che il padrone non fa e, quindi, attraverso il suo lavoro, si affranca dal padrone. A un certo punto il padrone cessa di avere la sua funzione, che è quella in parte di proteggere il lavoratore, e il lavoratore acquisisce la propria consapevolezza – la coscienza di classe. Tenete conto che in questa operazione che fa Kojève – parlo non di Marx ma di Kojève, che ha dato un grosso contributo all’ideologia marxista – queste due figure, il servo e il padrone, il proprietario e il lavoratore, restano figure separate. Perché? Perché era inaccettabile, rispetto all’ideologia summenzionata, che il lavoratore diventasse padrone. Il massimo che gli era consentito era di diventare padrone dei mezzi di produzione, non di diventare lui, in quanto tale, padrone, perché sarebbe stata una sovrapposizione intollerabile, per Kojève e in particolar modo per il partito comunista francese al quale era iscritto. Queste due figure dovevano restare separate, non doveva esserci nessuna commistione tra l’una cosa e l’altra, anche perché solo a questa condizione era possibile scatenare la lotta di classe, e cioè che ci fosse un padrone contro cui lottare. A questo punto torniamo a Hegel perché lui ci dice una cosa importante quando parla della dialettica servo-padrone, e cioè che il servo e il padrone, in quanto due momenti di un processo, devono integrarsi, come in ciascun caso dove ci sono due momenti, questi devono integrarsi: ciò che rimane è la relazione fra i due, vale a dire, scompaiono tanto il padrone quanto il servo e rimane una relazione. A questo punto c’è una figura che può intervenire, in questo caso posta da Nietzsche, l’Übermensch, che non è da tradurre come superuomo. Occorre tenere conto che buona parte della tradizione nietzschana è stata portata avanti dalla sorella di Nietzsche, per la quale l’Übermensch era effettivamente il superuomo ma nell’idea del giovane SS, alto, biondo, con gli occhi azzurri e di pura razza ariana. La sorella di Nietzsche fu una violenta sostenitrice del nazismo, per lei il superuomo era effettivamente quello. Ma non era quello che intendeva Nietzsche, molto probabilmente, anche perché quando lui morì il nazismo ancora non esisteva. L’Übermensch è l’oltreuomo, cioè, colui che riesce, attraverso la fatica del concetto, a oltrepassare la separazione tra le due figure e, quindi, a integrarle, diventando lui padrone di se stesso e del suo lavoro, cioè del suo pensiero. Leggere l’Übermensch in questo modo indubbiamente pone una differenza notevole dalla lettura di Kojève, anche perché nella lettura di Kojève, che era marxista, il proletario, il lavoratore, era destinato a rimanere servo in eterno. E questo si è verificato con l’Unione Sovietica, dove anche chi era al comando era servo, nel senso che era cancellata l’idea del padrone, era servo del popolo, il popolo era servo dell’idea, del marxismo. Era come se potessero esistere soltanto servi. È interessate tutto ciò anche rispetto alla piega presa negli anni successivi ai soviet: l’ideologia del servo, di colui che è in un certo senso destinato a servire. Questo si è impiantato nel marxismo anche a partire dal cristianesimo. Anche il cristianesimo parla di servitù, di servi, di sacrifici, di sottomissione. E, quindi, il marxismo ha avuto agio a riprendere certi temi del cristianesimo, appunto quelli del sacrificio e della servitù – siamo tutti servi di Dio. Nel caso del cristianesimo Dio non è servo di nessuno, è questa l’unica differenza, ma tutti quanti i popoli sono servi di Dio.

Intervento: …

Il partito serve, è lì per servire il popolo, mentre Dio no, la sua funzione non è servire il popolo; anzi, il popolo deve servire Dio, onorarlo, ecc. Il partito è composto di persone che devono servire il popolo, i funzionari di partito sono loro stessi servitori. Tutto questo ci riporta, usando il termine di Nietzsche,all’Übermensch, l’oltreuomo, cioè colui che va oltre la separazione: non c’è più né servo né padrone, ma sono integrati, nel senso che diventa padrone di sé e del proprio pensiero. Pensiero come lavoro, perché il pensiero è essenzialmente un lavoro. Quindi, attenendoci propriamente a Hegel, è a questo cui dovremmo giungere, mentre l’interpretazione di Kojève appare straordinariamente ideologica e ideologizzante perché mantiene e avalla la separazione di servo e padrone. Come dicevo prima, per il partito comunista francese non poteva in nessun caso essere eliminata questa separazione, sennò la lotta di classe non avrebbe avuto più nessun senso.

Intervento: …

Per Marx l’idea era che comunque i proletari si sarebbero affrancati. Il Manifesto si conclude appunto con l’appello: Lavoratori di tutto il mondo unitevi.

Intervento: …

La rivoluzione si fa per un motivo, e cioè per abbattere un padrone. Marx, nel III Libro del Capitale, giunge a considerare che il capitalismo economico è stato utile, nonostante per Marx costituisca comunque un problema, in quanto c’è un padrone che sfrutta i dipendenti, ma considera questa cosa come un male che è stato necessario, anche perché in questo modo il proletariato ha avuto la possibilità, vivendo meglio, arricchendosi, ecc., di acquisire una sorta di autocoscienza. Si scaglia, invece, contro il capitalismo finanziario, che secondo lui, e non solo, è una pratica da gangsters. La lettura di Kojève è funzionale a una certa ideologia, in realtà. Ma se dovessimo attenerci al discorso di Hegel, non possiamo non porre la questione in questi termini, e cioè servo e padrone sono due momenti, direbbe Hegel, dello stesso. Tenerli separati è l’operazione che fa il discorso religioso, dove appunto ci sono gli umani e poi c’è o un Dio, che è il tutto, oppure il Partito, che ha una visione generale e che è al di sopra di tutti. Ma Hegel non poteva pensarla così, doveva pensarla come due momenti.

Intervento: …

Sì, perché questo movimento dialettico è lo stesso che anche in questo caso, a proposito del giudizio, riprende incessantemente. Il giudizio di per sé è la determinazione del concetto che determina se stesso. Il concetto è la simultaneità dell’essere e dell’essenza: qualcosa è ma in quanto la sua essenza lo fa essere quello che è. Che cos’è l’essenza di qualche cosa? Ciò che quella cosa non è. Ora, il giudizio è qualcosa su cui occorre riflettere perché è ciò che ciascuno pone in atto ininterrottamente. Rispetto al giudizio potrebbe di nuovo venire in soccorso Nietzsche. Su che cosa è fondato il giudizio? Hegel dice a questo punto delle cose importanti. Intanto dice che il giudizio più semplice, quello positivo, cioè “A è B” è già contraddittorio perché A non è B. Poi, pone ancora l’individuale, cioè il soggetto, come l’universale, cioè come predicato. Quindi, potremmo dire che il giudizio già parte male, parte come qualcosa di autocontraddittorio: per potere giudicare devo contraddirmi, sennò non giudico niente. È una considerazione bizzarra ma della quale forse occorrerebbe tenere conto ciascuna volta in cui si esprime un giudizio. A pag. 716. Ma in ogni giudizio, anche nel giudizio più riccamente determinato nella sua forma, viene affermata la proposizione avente questo determinato contenuto: l’individuo è universale; in quanto cioè ogni giudizio è anche in generale giudizio astratto. /…/ Se d’altronde appunto non si pensa che con ogni giudizio, e prima di tutto almeno con ogni giudizio positivo, si fa l’affermazione che l’individuo è un universale, ciò accade perché da una parte non si presta attenzione alla forma determinata per cui si distinguono il soggetto e il predicato… Non ci si rende conto che si sta affermando qualcosa che è intrinsecamente contraddittorio. Che è poi la cosa che dicevamo tempo fa quando dicevamo che per dire di quella cosa che cos’è, devo dire ciò che non è; quindi, affermare un giudizio negativo. E, infatti, lui passa dal giudizio positivo al giudizio negativo, perché dice che non solo l’individuo è universale ma anche che l’universale è individuo. A pag. 717. Per es. nella proposizione: la rosa è odorosa, esso non esprime che una sola delle molte proprietà della rosa; la isola, mentre, nel soggetto si è venuta saldando colle altre, a quel modo che vengono isolate, quando si dissolve la cosa, le molteplici proprietà che le sono inerenti, in quanto si riducono a star per sé come materie. Il principio del giudizio suona quindi da questo lato così: L’universale è individuo. Cioè: la rosa diventa universale; e il fatto che sia odorosa è individuo, cioè, una determinazione singola, particolare, specifica. Mettendo dunque insieme questa mutua determinazione, nel giudizio, del soggetto e del predicato, ne vien questo doppio: 1. che il soggetto è bensì immediatamente come l‘essente o come l’individuo, e il predicato invece è l’universale; ma siccome il giudizio è la relazione dei due, e il soggetto è determinato mediante il predicato come universale, così il soggetto è l’universale;… Quindi, per Hegel, un giudizio positivo è di fatto un giudizio negativo. Lo dice in questo modo a pag. 719. Il giudizio, dunque, considerato in primo luogo secondo la sua forma, significa: L’individuo è universale. A è B significa questo: l’individuo è universale. Ma anzi cotesto individuo immediato non è universale; il suo predicato è di maggior estensione; dunque non gli corrisponde. Il soggetto è un immediato esser per sé e quindi l’opposto di quell’astrazione, di quell’universalità posta dalla mediazione che di esso si dovrebbe enunciare. In secondo luogo, considerando il giudizio secondo il suo contenuto, o come la proposizione: L’universale è individuo, il soggetto è un universale di varie qualità, un concreto, che è infinitamente determinato; e siccome le sue determinatezze non sono che qualità, proprietà, o accidenti, così la totalità sua è la loro falsamente infinita pluralità. Quindi un soggetto simile è tutt’altro che una sola di coteste proprietà, come il suo predicato vuole attestare. Entrambe le proposizioni debbon pertanto esser negate e il giudizio positivo deve anzi esser posto come negativo. Del giudizio negativo ci dice una cosa interessante a pag. 720. Già in addietro si parlò dell’ordinaria rappresentazione secondo cui dipenderebbe soltanto dal contenuto del giudizio ch’esso sia vero o no, in quanto che la verità logica non riguarderebbe che la forma e richiederebbe soltanto che quel contenuto non si contraddica. Ancora oggi è presente nella logica formale la differenza, rispetto a una proposizione, tra la validità e la correttezza. Una proposizione è valida formalmente a condizione che sia valida l’implicazione: l’implicazione è vera in tutti i casi tranne nel caso in cui sia vero l’antecedente e falso il conseguente. Se io dicessi “siccome sono nato a Berlino, allora oggi è il 22 luglio”, questa affermazione è valida formalmente, perché l’antecedente è falso e il conseguente è vero; ma non è corretta, appunto perché l’antecedente è falso. La proposizione è corretta quando entrambi sono semanticamente veri. Si è però mostrato che questi due concetti non hanno semplicemente la determinazione irrelativa di un numero di volte, ma si riferiscono l’uno all’altro come individuo e universale. Queste determinazioni costituiscono il vero contenuto logico, e precisamente in questa astrazione il contenuto del giudizio positivo. Quello che conta è il riferirsi l’un l’altro, tra un individuo universale, in quanto l’individuo è universale, e l’universale e individuo. Qualsiasi altro contenuto intervenga in un giudizio (il sole è tondo, Cicerone fu un grande oratore romano, ora è giorno, ecc.), non tocca il giudizio come tale; questo non esprime se non che: Il soggetto è predicato, ovvero (poiché questi non son che nomi) più determinatamente: L’individuo è universale e viceversa. Qualunque cosa io dica sto continuando a dire che l’individuo è universale e che l’universale è individuo. A cagione di questo puro contenuto logico il giudizio positivo non è vero, ma ha la sua verità nel giudizio negativo. Basta soltanto, suol chiedersi, che nel giudizio il contenuto non si contraddica. Ma in quel giudizio si contraddice, come si è mostrato. Nondimeno è affatto indifferente che quel contenuto logico venga chiamato anche forma, e che per contenuto s’intenda soltanto il rimanente riempimento empirico. Così la forma non contien soltanto la vuota identità, fuor della quale starebbe la determinazione di contenuto. Il giudizio positivo non ha allora per via della sua forma come giudizio positivo alcuna verità. chi chiamasse verità l’esattezza di un’intuizione o di una percezione, la corrispondenza della rappresentazione all’oggetto, non avrebbe per lo meno più alcuna espressione da poter adoperare per quello che è oggetto e scopo della filosofia. Cioè, di capire come funziona questa cosa. Ha parlato della corrispondenza: sarebbe la modalità che i greci chiamavano ρθτης, la adæquatio rei et intellectus, la corrispondenza. Bisognerebbe almeno dare a quest’ultimo il nome di verità razionale; e allora ognuno converrà che dei giudizi, come quello che Cicerone fu un grande oratore, che ora è giorno, ecc., non sono verità razionali. Ma non son tali, non perché abbiano quasi accidentalmente un contenuto empirico, sibbene perché son soltanto dei giudizi positivi, che non possono né debbono avere altro contenuto che un individuo immediato e una determinazione astratta. Il giudizio positivo ha anzitutto la sua verità nel giudizio negativo. A pag. 722. Il giudizio positivo è la relazione dell’individuo e dell’universale immediati, epperò di tali, che l’uno di essi in pari tempo non è quel che è l’altro. La relazione è quindi altrettanto essenzialmente una separazione, ossia è negativa; perciò il giudizio positivo doveva esser posto come negativo. Non era quindi il caso per i logici di far tanto chiasso perché il Non del giudizio negativo fosse riferito alla copula. Quel che nel giudizio è determinazione dell’estremo, è parimenti una relazione determinata. La determinazione di giudizio, ossia l’estremo, non è la determinazione puramente qualitativa dell’essere immediato, la quale de solo star contrapposta a un altro fuor di lui. Il contrapposto ha solo questa funzione di determinare l’altro. E nemmeno è la determinazione della riflessione, che secondo la sua forma universale si comporta come un positivo e un negativo, ciascuno dei quali è posto come esclusivo e soltanto in sé è identico coll’altro. Nella riflessione, in effetti, è tanto positivo quanto negativo, cioè, afferma di essere se stesso ma, al tempo stesso, affermando di essere se stesso, pone questo se stesso come altro; quindi, è entrambe le cose. A pag. 725 c’è una nota di Moni. La particolarità del predicato del giudizio negativo risulta nella maniera più chiara dalla considerazione fatta qui sopra, ossia da ciò che, per avere un senso, ogni giudizio negativo deve presupporre un giudizio positivo che affermi del medesimo soggetto il genere (o più in generale, come dice Hegel, la “sfera”) cui appartiene il predicato negato. È certo che il giudizio negativo: Questa rosa non è rossa, presuppone il giudizio positivo: Questa rosa è colorata. L’aceto non è dolce, presuppone: L’aceto ha un sapore, e così via. Se non si dice: La prudenza non è rossa, l’ipotenusa non è dolce, ciò avviene appunto perché di cotesti soggetti non si può affermare nemmeno il genere cui tali predicati appartengono, il colore e il sapore. Cotesti giudizi sono affatto privi di senso. Qui la mette giù semplice, ma in realtà non è così semplice. Dire che la prudenza non è rossa non è automaticamente un non senso. È chiaro che a noi appare tale ma appare tale per una tradizione, perché siamo stati addestrati a pensare in un certo modo; non è un dato di fatto assoluto, è soltanto un modo di pensare. Negli altri invece, che sono i soli veri giudizi negativi, il negare dei rispettivi soggetti il rosso e il dolce mette in rilievo come questi predicati siano delle particolarità rispetto a quelle universalità o generi che dei soggetti stessi si potrebbero affermare e implicitamente si affermano. È vero che anche il giudizio positivo importa che del soggetto si debba parimenti affermare il genere cui il predicato appartiene (secondo la nota regola per cui ciò che si predica del predicato si predica anche del soggetto). Ma nel giudizio positivo non è ancora posta alcuna distinzione tra predicato particolare (negato) e predicato universale (affermato); tutti e due sono affermati, sebbene il primo esplicitamente e il secondo solo implicitamente; perciò tutti e due non son costì riguardati che nella loro semplice, immediata universalità. Nel giudizio negativo invece la negazione separa i due predicati, e pone quello esplicito come particolare, e quello implicito (il genere) come universale. Qui incomincia a verificarsi quella che tra poco indicherà come separazione. Del giudizio infinito leggo solo l‘esempio che fa Hegel: lo spirito non è rosso, … non è acido, non è alcalino, ecc. Dico di una cosa che non è questo, non è questo, non è questo, e così via all’infinito. Da qui il giudizio negativo infinito. A questo giudizio negativo infinito pone argine il giudizio della riflessione, quando un elemento, riflettendo su se stesso, si determina in quanto tale. Ciò che a noi interessa di più è il giudizio universale. A pag. 733. L’universalità, qual è nel soggetto del giudizio universale, è l’universalità esterna della riflessione, la totalità. Universalità esterna della riflessione vuol dire che l’universale riflette su se stesso e si pone come totalità, perché l’universalità, finché non riflette su se stessa, non sa di essere universalità, non è niente. Quando sa di essere universalità, si pone come totalità. Tutti son tutti gli individui; l’individuo vi resta invariato. Questa universalità non è quindi che una raccolta degli individui sussistenti per sé; è una comunanza che compete loro soltanto nel confronto. Questa comunanza suol anzitutto affacciarsi alla rappresentazione soggettiva, quando si parla di universalità. Si pensa l’universalità come la somma di tutti gli enti. Anche nell’analisi sta soprattutto dinanzi alla mente questo concetto dell’universalità, in quanto p. es. lo sviluppo di una funzione in un polinomio vale come ciò ch’è più universale, in confronto allo sviluppo di quella medesima funzione in un binomio; perché il polinomio offre un maggior numero d’individualità che non il binomio. La pretesa che la funzione venga esposta nella sua universalità richiederebbe propriamente un pantonomio, l’infinità esaurita; ma qui si affaccia di per sé il termine di quella pretesa e l’esposizione della moltitudine infinita è costretta a contentarsi del dover essere di essa, epperò a contentarsi di un polinomio. Nel fatto però il binomio è già il pantonomio in quei casi in cui il metodo o la regola concerne soltanto la dipendenza di un termine da un altro termine, e la dipendenza di molti termini da quelli che li precedono non si particolarizza, ma resta costì in fondo una sola e medesima funzione. Il metodo o regola si deve riguardare come il vero universale. Nel proseguimento dello sviluppo e nello sviluppo di un polinomio il metodo o regola non fa che ripetersi; per l’aumentata moltitudine dei termini non guadagna dunque nulla in universalità. Si è già tenuta parola in addietro della cattiva infinità e della sua illusione. L’universalità del concetto è l’Al di là raggiunto. Ha detto prima che qualcosa deve essere ma, di fatto, non è raggiungibile, ma noi lo poniamo come raggiunto. Perché? Perché sì, non c’è un motivo particolare. La pluralità nondimeno, sia pur grande, rimane pura e semplice particolarità, e non è totalità. In cotesto però sta in maniera oscura dinanzi alla mente l’universalità, in sé e per sé, del concetto; è il concetto, quello che spinge violentemente al di là della persistente individualità, cui la rappresentazione sta attaccata, e al di là dell’estrinseco della riflessione di quella, e sostituisce qui il tutti come totalità, o meglio come il categorico essere in sé e per sé. Qui interviene la volontà di potenza. È la volontà di potenza che mette in atto questa cosa: non c’è nessuna ragione se non il volere che sia così. E lo dice in modo molto preciso a pag. 735. La totalità empirica rimane perciò un compito, un dover essere, che non può così esser presentato come essere. È un dover essere, quindi, non è essere. Una proposizione empirica universale (poiché se ne stabiliscono pure di tali) riposa ora sulla tacita convenzione che, purché non si possa portare alcuna istanza del contrario, la pluralità dei casi debba valere come totalità; ossia si fonda sull’ammettere che la totalità soggettiva, la totalità cioè dei casi giunti a conoscenza, possa esser presa per una totalità oggettiva. La questione qui è importante, perché questa universalità, che compare sempre e che dà una sorta di fondamento al giudizio, in realtà, è un’imposizione, un atto di volontà: io decido che la pluralità diventa un tutto. Il che è anche corretto, per un certo verso, se noi poniamo però la totalità come linguaggio. Cosa che Hegel non fa direttamente, lo fa di traverso quando dice che perché ci sia il primo elemento occorre che ci siano già tutti gli altri; in questo senso allora la totalità può porsi, non più come somma possibile di tutti gli elementi, ma come ciò che è necessario che ci sia perché ci siano gli elementi; cioè, il linguaggio come un tutto. Ché a questo punto non ha più bisogno di un conteggio, non ha nessun senso; anzi, è un’altra cosa, si è passati totalmente a un’altra cosa, a un altro modo di pensare la totalità, l’universale. E l’universale non può che essere pensato così; lo dice Hegel che se lo continuiamo a pensare come un dover essere, non sarà mai. Quindi, questo universale, che in alcuni casi pongo a fondamento di un’argomentazione, non è propriamente, perché deve essere ma non è. Invece, la totalità posta come linguaggio è come se fosse un’altra dimensione, letteralmente. Non c’è un passaggio logico da una all’altra, è un’altra cosa, è un altro modo di pensare, che non deriva da quello precedente. Questo è interessante perché va a inficiare un discorso, che Hegel farà poco più avanti, riguardo al giudizio apodittico, al giudizio dimostrativo, quello che per potere porsi deve procedere da qualche cos’altro. In questo caso la totalità, posta come l’abbiamo posta, non procede da niente, non viene da qualche cos’altro, né per deduzione né per induzione né per abduzione (le tre forme del giudizio aristotelico), ma viene da un’altra considerazione totalmente differente, che Hegel fa, e che riguarda invece l’occorrenza che perché si dia il primo elemento occorre non solo che ci sia il secondo ma che il secondo sia già inserito all’interno di un processo tale per cui il secondo diventa il primo, riflettendosi sul primo. Potremmo dire che questo concetto di totalità, per usare i termini di Hegel, non è deducibile. Da che cosa lo deduciamo? Lo stesso Hegel, in effetti, non ne dà una ragione logica, e non può darla perché è come se fosse fuori dalla logica in quanto ne costituisce il fondamento. Senza il linguaggio indubbiamente non possiamo parlare di logica, non c’è nessuna logica. Che cos’è il linguaggio? È questa serie infinita di relazioni, dove ciascuna di queste relazioni si connette continuamente ad altre, in questo processo che Hegel chiama dialettica: ciò che dico pone un qualche cosa che non è quello che dico, è già altro, ma questo altro che sto dicendo, che non è ciò che dico, ritorna su ciò che dico facendo in modo che ciò che dico sia ciò che dico. È questa la difficoltà del pensiero di Hegel. È sempre un percorso a ritroso, che lui intuisce a partire dal funzionamento stesso del linguaggio: se io dico qualche cosa è ciò che accade mentre dico che determina il mio dire, non è già presente. Per farla più semplice, riprendendo l’esempio del significato e del significante: il significante, cioè l’immanente, il particolare, l’immediato, l’essere, diventa qualche cosa nel momento in cui c’è il significato, cioè la sua essenza, senza la quale il significante non esiste. Quindi, il significante innesca questo movimento, è il “primo” momento, ma un primo momento che esiste soltanto in questo momento di ritorno; senza questo non sarebbe mai esistito.

Intervento: …

È in un cero senso il primo, ma lo veniamo a sapere soltanto dopo. Quando veniamo a sapere che è il primo è già diverso da ciò che era prima, per cui è il primo ma anche non lo è. Questo è tutto Hegel: qualche cosa è ma anche non lo è, simultaneamente; ciò che dico è quello che dico ma anche non lo è. Quindi, il problema dell’universale è difficile a porsi come fondamento. Come abbiamo visto, non può essere una enumerazione, non è calcolabile, ma è un atto di forza che procede dal fatto che sono nel linguaggio. Quindi, la totalità è quella cosa che mi consente di pensare la totalità, e questo qualcosa è il linguaggio, che quindi deve già esserci. È l’intuizione che ebbe Heidegger quando disse che ciascuno di noi nasce nel linguaggio, che gli piaccia oppure no. Fa poi ancora delle considerazioni intorno ai modi del giudizio: giudizio categorico, giudizio ipotetico. Il giudizio categorico è l’affermazione: A è B; il giudizio ipotetico è l’implicazione. A pag. 739. Se A è, è B, ossia, l’essere di A non è il suo proprio essere, ma è l’essere di un altro, cioè, di B. Ciò che è posto in questo giudizio è il nesso necessario di determinatezze immediate, che non è ancora posto nel giudizio categorico. È l’implicazione: se A allora B. Infatti, quand’è che è fala l’implicazione? L’unico caso in cui è falsa è quando è vero l’antecedente e falso il conseguente, cioè quando non mantiene ciò che promette. Cotesto essere è quindi anche come semplice possibilità. Il giudizio ipotetico non contiene che A è, ovvero che B è, ma soltanto che se uno sia, allora è l’altro; il solo nesso degli estremi è posto come quello che è, non già gli estremi stessi. Cioè: è posto come implicazione. Il principio di identità afferma che A è soltanto A, non B, e che B è soltanto B, non A. Nel giudizio ipotetico all’incontro è posto dal concetto l’essere delle cose finite secondo la loro verità formale, che cioè il finito è il suo proprio essere, ma in pari tempo non è il suo essere, ma è anzi l’essere di un altro. Ecco la dimostrazione immediata di ciò che dicevamo prima: loro verità formale, che cioè il finito è il suo proprio essere, ma in pari tempo non è il suo essere. Questo non è altro che il funzionamento del linguaggio, funziona così. Il giudizio disgiuntivo sarebbe l’oppure, l’aut-aut oppure il vel, a seconda dei casi. Il vel sarebbe la disgiunzione non esclusiva, mentre l‘aut aut è quella esclusiva, o uno o l’altro. A pag. 742. I cosiddetti concetti contrari e contraddittori dovrebbero propriamente trovare luogo soltanto qui, poiché nel giudizio disgiuntivo è posta la differenza essenziale del concetto. Ma hanno anche in pari tempo la loro verità in questo, che cioè il contrario e il contraddittorio sono appunto distinti in maniera tanto contraria quanto contraddittoria. Contrarie sono le specie in quanto sono soltanto diverse … contraddittorie sono poi in quanto si escludono. Ricordate il quadrato logico. Ciascuna di queste determinazioni è però per sé unilaterale e senza verità. Nell’o-o del giudizio disgiuntivo è posta l’unità loro come loro verità, secondo cui quella sussistenza per sé stante è appunto come universalità concreta anche il principio dell’unità negativa, per cui a vicenda si escludono. A pag. 745. Il giudizio disgiuntivo ha anzitutto nel suo predicato i termini della disgiunzione, ma in pari tempo è anch’esso disgiunto. Il giudizio ha due elementi disgiunti, ma lui stesso è disgiunto. Il suo soggetto e il suo predicato sono i termini della disgiunzione. Essi sono i momenti del concetto posti nella loro determinatezza, ma insieme come identici; come identici α) nell’universalità oggettiva, che è nel soggetto come semplice genere e nel predicato come sfera universale e come totalità dei momenti del concetto; e parimenti come identici β)nell’unità negativa, nel nesso sviluppato della necessità secondo il quale la determinatezza semplice nel soggetto si è smembrata nella differenza delle specie e vi costituisce appunto la loro essenziale relazione e il con sé identico. Identici nella universalità oggettiva: una cosa è quella che è, identica con sé. Ma anche nell’unità negativa, e cioè è identico con il suo negativo, cioè, il soggetto è il predicato, il soggetto è identico con il suo negativo; ma il soggetto è identico con sé. È come se ci stesse mostrando tutti i meccanismi attraverso i quali funziona il linguaggio. Per il momento ci fermiamo qui. Passerà poi ai sillogismi. Ora, la sillogistica può anche essere intesa come retorica, perché il sillogismo è un giudizio… A è B, Socrate è mortale. Uno può chiedere: perché? Ecco che interviene la apodissi, cioè la giustificazione, la dimostrazione. Perché Socrate è mortale? Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque, Socrate è mortale. Quindi, il sillogismo, che sarebbe l’ultima parte di questa sessione intorno alla soggettività, dà il giudizio compiuto, non soltanto l’affermazione semplice ma la sua ragione d’essere. Ragione d’essere che, come poi vedremo, è retorica, non può essere altrimenti.