22 luglio 1999
Dicevo, l’eventualità
che non si racconti per descrivere ma si descriva qualcosa per raccontarlo,
ponendo l’accento sul raccontare come ciò che appare, in prima istanza,
necessario. Abbiamo posto la questione, ora si tratta di verificare, potrebbe
anche non essere. Dunque, come si procede? Si procede così: si prende il
racconto e si dice del racconto ciò che in nessun modo può negarsi, come
abbiamo cominciato a fare la volta scorsa, e cioè affermare che il racconto non
è altro che una sequenza di proposizioni connesse fra loro, abbiamo visto che
il dizionario non ci è stato di nessun aiuto, quindi possiamo dire una serie di
proposizioni connesse fra loro e basta.
Intervento: Poi
c’era la questione delle regole e delle implicazioni. Implicazioni come regole.
Sì, certo. Il fatto
che le proposizioni siano connesse tra loro comporta che, essendo proposizioni
siano inserite all’interno di un gioco linguistico e, pertanto, vincolate a
delle regole, necessariamente e quindi sono proposizioni connesse fra loro e
vincolate da regole.
Le regole a cui sono
vincolate sono innanzi tutto quelle del linguaggio, però c’è l’eventualità che
ci siano anche regole specifiche del racconto. Quali sono le regole
eventualmente specifiche di un racconto? Quelle che connettono le proposizioni
fra loro in un modo particolare, ossia consequenziale, perché uno può enunciare
una serie di proposizioni slegate fra loro, completamente slegate fra loro,
questo generalmente non si chiama un racconto, anche se taluni contemporanei
quasi hanno utilizzato questa apparentemente slegata così come forma di
rottura.
Intervento:
Joyce? Come tecnica
Come tecnica narrativa
e quindi... il fatto che siano necessariamente connesse fra loro da un dato
tipo di connessioni non è vincolante, sono comunque connesse fra loro, non
possono non esserlo, però non c’è un tipo particolare di connessione che sia
specifico del racconto. Possiamo dire che quel tipo di racconto ha quel tipo di
connessione, quell’altro un altra, a me interessa il racconto in linea di
massima, non un particolare tipo di racconto.
Quindi, se diciamo che
il racconto non è altro che una sequenza di proposizioni connesse fra loro non
descriviamo nient’altro che il funzionamento del linguaggio. Funzionamento del
linguaggio che, a questo punto è nel racconto, ciò che stiamo dicendo è che
ciascuna volta che si parla si racconta, inesorabilmente.
Intervento:
cioè necessariamente
Sì. Chiaramente avendo
definito il racconto in questo modo qualunque cosa si dica è necessariamente
una serie di proposizioni connesse fra loro, non può essere altrimenti. Poi
quale sia il tipo di connessione a noi non interessa, a noi interessa la
connessione. Quindi, a questo punto, possiamo dire che il linguaggio o, meglio,
il racconto non è altri che il linguaggio stesso. Quindi l’analisi del racconto
è l’analisi del linguaggio, cioè delle proposizioni che intervengono, occorrono
letteralmente cioè intervengono a costruire questa sequenza. Più propriamente,
se vogliamo specificare ancora, potremmo dire che il racconto è una particolare
sequenza del linguaggio. Una sequenza che ha un inizio ed una fine, esattamente
come un discorso. Una sequenza, un segmento individuabile. Ora, dobbiamo
considerare la questione posta la svolta scorsa cioè se effettivamente si descrivono
le cose, cioè si parla delle cose allo scopo di raccontare e non al contrario.
La questione è notevole, perché se riusciamo a mostrare che effettivamente la
cosa funziona in questo modo è un argomento in più che fa intendere, una volta
di più, l’atto linguistico e che in seconda istanza c’è ancora l’atto
linguistico e così via. Che non c’è null’altro che questo.
Se io racconto
qualcosa per descrivere un oggetto allora il racconto è in funzione della
descrizione, se descrivo qualcosa, per definizione. Non posso non descrivere
nulla, lo raccontano le regole del linguaggio. Così come non posso parlare di
nulla, se parlo, parlo di qualcosa necessariamente, è una contraddizione di
termini dire di parlare di nulla.
Intervento:
Qualcuno ci riesce...
Questa è un’altra
questione. Dunque, se descrivo qualcosa questo qualcosa o è un atto linguistico
o è fuori dal linguaggio. Dimostrare che è fuori dal linguaggio è arduo. Non ci
resta che accogliere, saltando tutta una serie di passaggi, che ciò che io
voglio descrivere è un atto linguistico. Quale è il fine di un atto
linguistico? Abbiamo visto che l’unico fine che possiamo attribuire all’atto
linguistico è quello di produrre se stesso, quindi l’atto linguistico della
descrizione di questo aggeggio ha come fine il produrre se stesso, nient’altro
che questo e quindi dire che la descrizione dell’accendino non è nient’altro
che un pretesto per produrre un altro atto linguistico.
A questo punto
possiamo dire che la descrizione, un racconto che racconta qualcosa ha come
obbiettivo finale la produzione di atti linguistici, gli atti linguistici
connessi tra loro sono esattamente il racconto quindi, la finalità di un
racconto è produrre un racconto.
Questo così, per dirla
in termini un po’ schematici, però cosa comporta questo dal lato pratico? Il
fatto che ciascuna volta in cui dico qualcosa, che racconto, che parlo,
qualunque cosa faccia, il fine di ciò che sto facendo è la produzione di atti
linguistici e, pare, non possa trovare nessuna altra finalità, la produzione di
atti linguistici fine a se stessa cioè fine alla produzione di atti
linguistici.
Come dire, in altri
termini ancora, che non posso fare nient’altro durante tutto il corso della mia
vita finita o infinita che sia, che produrre atti linguistici.
Se ciascuna cosa che
io dica, faccia, pensi, esegua è un atto linguistico a questo punto l’effetto
immediato del tenere conto di una cosa del genere è che ciò che sta avvenendo
ciò che sto facendo, meglio ciò che sta avvenendo non ha nessun altro referente
all’infuori di sè. Cosa vuol dire questo? Che non si riferisce a null’altro al
mondo nè fuori dal mondo che sia altro da sé. Se io descrivo a qualcuno per
esempio che ne so come è fatto questo accendino allora glielo descrivo.
Pare che questo mio
operare sia rivolta alla descrizione di un oggetto e che quindi il referente
ultimo sia l’oggetto, il referente proprio come nella accezione antica del
termine come ciò a cui ci si riporta, letteralmente re-fero. Che sia questo
oggetto ma, questo oggetto noto più come accendisigari, fuori dal linguaggio né
esiste né non esiste, quindi il definirlo non è altro che compiere altri atti
linguistici. Ora quindi io posso ovviamente descrivere questo accendino, anche
in modo più dettagliato, se voglio ma, non avrò fatto null’altro che attenermi
a delle regole di un gioco che prevede un certo numero di regole per la
costruzione di atti linguistici, e quindi ho fatto un gioco particolare il cui
scopo è la produzione di atti linguistici.
Però chi me lo chiede
vuole effettivamente sapere come è fatto questo accendino? Qui siamo un po’ nel
campo della logica più stretta e cerchiamo l’aspetto più retorico, quello
dell’intenzione. Abbiamo accennato una volta mi sembra?
Intervento:
L’intenzione non è altro che la produzione di altri atti linguistici.
Che cos’è
un’intenzione, Elisabetta? Etimologicamente l’intendere.
Intervento:
Tendere dentro.
Sì, intendere in
qualcosa, verso qualcosa, dentro qualcosa, certo. Quindi l’intenzione anche
l’intensione, usata dai logici, l’intensione e l’estensione, l’intenzione è
l’atto del muoversi verso una direzione precisa, ma quale? Perché uno può
tendere in tantissime direzioni, tuttavia quando c’è un’intenzione questa muove
da una serie di proposizioni che possono essere le più disparate, questo accendino
mi piace e voglio sapere com’è fatto perché, eventualmente, ne compero uno, per
dire una banalità. Ora uno potrebbe domandarsi perché vuol comprarsi un
accendino come questo, per esempio, visto che questa è la sua intenzione.
Qualunque cosa la persona adduca come motivazione per compiere un’operazione
del genere sarà comunque la conclusione di una serie d’inferenze, perché ho una
particolare predilezione per gli aggeggi in argento, perché è uno status
symbol, perché ecc... perché ce l’aveva mio nonno, e allora? Un po’ così come
avviene nell’itinerario analitico, questa domanda, anche se non si formula così
“e allora?”, cosa muove quello che stai dicendo, cioè a che pro stai parlando,
verso che cosa stai andando? Tutto questo allude alla produzione di altri atti
linguistici che vengono connessi alla proposizione che afferma voglio comprare
questo accendino. Se uno risponde perché ce l’aveva mio nonno non è
propriamente una risposta o come tale non è intesa, è soltanto qualcosa che è
adiacente e chiaramente uno può andare avanti all’infinito, perché ce l’aveva
mio nonno quindi perché questo se no quest’altro e via all’infinito, come dire
che può rispondere ad una qualunque domanda all’infinito. Un po’ come mimano i
bambini quando fanno il gioco del perché, e un po’ anche il gioco della
filosofia solo che portato alle estreme conseguenze, e in effetti il cosiddetto
gioco dei perché non ha fine. Così come i filosofi si sono accorti che già
Sesto Empirico, figura nota come tropo del diallele, non è altro che un rinvio
infinito da una cosa all’altra, se A allora B, se B allora C eccetera e se
fosse vivo sarebbe ancora lì , Sesto Empirico, ad andare avanti.
Quindi il motivo non è
reperibile, perché ciascuno rinvia ad un altro. Cosa ci suggerisce una cosa del
genere? Due le questioni: una perché le persone generalmente si fermano al
primo o al secondo? Esempio: perché ti piace questo accendino? Perché ce
l’aveva mio nonno. Chiuso.
L’altra questione
invece che cosa comporta l’impossibilità di definire in termini precisi i
motivi, visto che non c’è possibilità d’arresto. Ma il fatto che generalmente
le persone si arrestino al primo o al secondo può essere indotto a poca pratica
con la struttura del linguaggio, per questo dicevo tempo fa che occorre, per
approcciarsi al discorso che stiamo facendo, un certo addestramento al
funzionamento del linguaggio. Una persona è indotta a pensare che gli piace
l’accendino perché ce l’aveva il nonno questo è più che sufficiente , non si
pone la fatidica domanda e allora?
In effetti se pensate
a tutto l’addestramento che avviene in un incidente ma non soltanto è fatto per
costruire un pensiero, a domanda c’è la risposta. Adesso, ultimamente qualcuno
comincia ad accorgersi che forse la questione non è così semplice. Certo,
all’interno di alcuni giochi è previsto che la risposta sia una, ma questa
risposta che è una non è la risposta definitiva in assoluto, è soltanto la
risposta prevista da quel gioco. Se io gioco a poker e ho quattro assi e Luigi
ha due sette, se andiamo a vedere non ci sono altre possibilità, io ho quattro
assi, lui due sette e vinco io, la risposta è quella e non ce ne può essere
un’altra, perché stabilita dalla regola del gioco.
La questione è che il
linguaggio in quanto tale non stabilisce una regola, ciascun gioco la
stabilisce, anche se altri giochi più tecnici, che ne so se io voglio sistemare
il computer devo attenermi a certe regole del gioco, il fatto di proseguire
all’infinito con le domande non mi consente di fare quel gioco. Tommaso, santo
per alcuni, aveva inteso che non è possibile parlare in questo modo, cioè
ponendo questioni all’infinito, perché non è possibile parlare se non
all’interno di un gioco che vincola ciò che si dice a delle regole precise,
solo che lui l’aveva posta non come regola per giocare ma come una legge
universale, un’ipostasi. Ipostasi è un termine che viene usato in filosofia di
derivazione greca, ipo stasi cioè ciò che sta sotto, letteralmente ciò che
giace sotto. Un’ipostasi e quindi come una necessità assoluta, no, è soltanto
una regola del gioco.
Anche questo è un
elemento notevole di cui occorre tenere conto, cioè del fatto che si utilizza
il linguaggio ma il fatto che lo si utilizzi in un certo modo e perché ciascuna
volta si sta applicando un gioco particolare il quale vincola a certe riposte,
vincola a certe mosse.
Quindi, se uno mi dice
voglio questo accendino perché ce l’aveva mio nonno, può anche starmi bene però
se cambiamo gioco ed instauriamo un altro gioco che è noto come gioco del
linguaggio, quello che avviene in analisi, ecco che allora questa risposta non
è sufficiente. Non è sufficiente perché importa non tanto sapere perché è
interessato a questo accendino ma quali proposizioni vengono costruite da
questa intenzione, questo è ciò che importa. Perché occorre che una persona si
accorga ad un certo punto che ciò che fa o che non fa non ha altro fine se non
quello di produrre proposizioni, e così affermare che voglio comprare questo
accendino non è altro che il pretesto per la costruzione di proposizioni,
l’accendino in quanto tale non esiste, non è mai esistito e soltanto un
elemento all’interno delle proposizioni che innesca altre proposizioni. e così,
quando l’avrà comprato o non l’avrà comprato allo stesso modo, questo produrrà
altre proposizioni che avranno degli altri effetti.
Intervento: Io
devo cercare le proposizioni che mi hanno condotto a dire perché ce l’aveva mio
nonno, in analisi?
Non si troveranno mai
queste proposizioni ma si troveranno altre proposizioni che vengono costruite,
non è possibile andare a ritroso, non è possibile nel senso che non è possibile
reperire, per esempio pensiamo a Freud, a quelle proposizioni che hanno
costruito certe nevrosi, per esempio. Che cosa garantisce che quella
proposizione è quella di vent’anni fa? E’ un’altra proposizione, ha a che fare
non ha a che fare? E comunque una proposizione adiacente, che si pone a fianco,
che costruisce un altro discorso. Se io voglio sapere perché che ne so, ho una
carenza affettiva, perché la mamma mi ha tolto la marmellata quand’ero piccolo,
io posso dire perché la mamma ha fatto questo ma lo sto dicendo ora, adesso,
con tutto ciò che questo comporta, ciò che è accaduto allora non esiste più,
esistono altre proposizioni che vengono costruite a partite da proposizioni che
comunque non sono quelle di allora, per questo non è possibile un ritorno a
ritroso, si può solo procedere in una direzione che va avanti, diciamola così
Intervento:…
Sì, andando avanti è
chiaro che non si trova la risposta ma si trovano altre proposizioni, Non
rispondono perché non sono quelle di allora, non c’è una sorta di catarsi come
voleva certa psicanalisi, se uno recupera quella scene traumatiche le rivive le
abreagisce come dicono gli psicanalisti e se ne fa una ragione, in definitiva.
Ma non è così, non si può tornare indietro, non è possibile. Per cui
costruisci, letteralmente inventi una spiegazione. La stessa spiegazione che mi
dà un tizio al quale io chiedo perché vuole questo accendino e mi risponde
perché ce l’aveva mio nonno non è il perché vuole questo accendino è
un’invenzione, è quello che si è inventato ma a che pro? Per costruire delle
proposizioni.
Intervento: per
potere proseguire.
Sì. Per rispondere ad
un’altra proposizione che lui incontra e che gli domanda perché vuoi questo
accendino. Che cos’è una risposta? E’ un altro rinvio, nient’altro che questo,
cioè un elemento che rinvia ad un altro, cioè trova un rinvio, trova il modo
per proseguire. Una domanda non è altro che una proposizione che,
apparentemente, non ha rinvio e allora si cerca disperatamente quell’altra
proposizione che ne costituisca il rinvio per proseguire. Ciascuno avverte
quando c’è una domanda a cui non sa rispondere una sorta di fastidio,
chiamiamolo così, perché è come se di lì non potesse andare avanti, questo è il
fastidio, appena infatti trova ecco allora il sollievo, allora posso
proseguire.
Intervento:
Come quando non ti vengono le parole quando t’interrogano a scuola.
Sì, è la stessa
questione di quando si risolve un problema di qualunque tipo sia, pratico,
teorico. Quello che si cerca per riprodurre una condizione che è strutturale al
linguaggio, che in effetti una delle questioni rimasta in sospeso e che
dobbiamo affrontare è perché gli umani cercano continuamente l’ostacolo da
superare, a proposito del gioco.
La questione del gioco
che abbiamo approcciato e che è ancora lontana dall’essere intesa, tuttavia,
tuttavia c’è l’eventualità che ciò che stiamo dicendo intorno al racconto abbia
a che fare con la questione del gioco. Può essere che il gioco strutturale al
linguaggio sia proprio il racconto. E che ciascun gioco che si fa, dal gioco in
borsa al tresette, al gioco dell’oca, alla roulette russa siano praticamente
dei racconti. In qualche modo si è sfiorata la questione tempo fa, la struttura
del racconto, il racconto ha la struttura del gioco o viceversa, poi possiamo
dire che il gioco, in effetti, non è altro che il racconto e che il racconto è
il gioco. Cos’è un gioco? E’ un racconto. Con tutti gli elementi, c’è l’attore,
posso essere io o chi altri, c’è un antagonista che mi impedisce, può essere
qualcuno o qualcosa, c’è un obbiettivo da raggiungere, c’è tutta la struttura
pari pari di un racconto.
Intervento: E
mentre si svolge il gioco si svolge il racconto del gioco.
Sì.
Intervento: Mi
chiedevo se sia possibile distinguere fra racconto e storia, per esempio,
laddove si suppone il racconto di qualcosa che interessa, il racconto è una
storia no? Raccontare il tramonto del sole, la difficoltà è scindere il
racconto del tramonto dal racconto di una storia.
Qualunque cosa ha questa
struttura. Prendiamo due storie emblematiche. L’una la Divina Commedia, un
racconto molto nobile, bello, l’altro un manuale di programmazione per
computer, siamo ai due poli opposti. Ora considerate bene la struttura. Vengono
forniti degli strumenti per intendere ciò di cui si tratta. Nell’un caso una
descrizione dell’ambiente, il panorama, i personaggi, “Mi trovai in una selva
oscura che la diritta via era smarrita”. Qui dà un’informazione, dove si trova,
quanti anni ha, che sta lì a fare e qual è l’intendimento. Adesso prendete un
manuale di programmazione, vi dice quali sono gli strumenti che verranno
utilizzati anche a cosa servono e come utilizzarli per raggiungere cosa? Lo
scopo finale che è costruire un programma. Lo scopo finale della Divina Commedia
è raggiungere la visione. Quindi c’è la descrizione degli strumenti per
compiere questo cammino, qualunque esso sia, c’è la descrizione
dell’obbiettivo, in alcuni casi è già implicito, se uno compra un manuale di
programmazione non è sicuramente per imparare a fare la bourghignonne, non
troverà le istruzioni adatte.
Intervento:…
Nella struttura del
racconto, cioè ciò che è necessario per un racconto, quindi la descrizione di
un ambiente, nel manuale di programmazione magari la descrizione di un ambiente
operativo, quindi c’è un ambiente operativo, anche Dante descrive il suo
ambiente operativo, è una selva oscura ci sono vari animali che gli rompono le
scatole, incontra una guida a nome Virgilio che gli darà delle indicazioni, che
potrebbero essere il glossario del manuale d’informatica, c’è l’individuazione
molto precisa dell’obbiettivo e ci sono degli ostacoli; gli ostacoli per Dante
sono la lontra ecc. sono i vizi capitali, sono di volta in volta Caron dimonio,
sono questo e quell’altro, ci sono degli ostacoli anche lì, non è che arriva
subito in taxi in Paradiso, deve passare una serie di perigli. E così nel
manuale d’informatica ci sono i pericoli fra virgolette, i possibili errori di
compilazione di un programma, intoppi che possono verificarsi e che devono
essere superati. La struttura è esattamente la stessa, sia che io racconti un
viaggio catartico dall’inferno al paradiso sia che io legga un manuale di
programmazione. Dico così perché Beatrice è un’abile programmatrice.
Questo per mostrarvi
la struttura di un racconto, qualunque cosa voi diciate, facciate, siate ha
questa struttura. Se io descrivo ad un amico, siamo in montagna o al mare, sono
le sette di sera il sole cala verso l’orizzonte, scende nell’acqua...quando ero
piccolo pensavo che il sole scendesse dentro l’acqua del mare e si spegnesse.
Anche lì c’è una
descrizione, intanto vi mostro che certe volte basta solo indicare l’ambiente
in cui siamo, infatti non gli dico guarda che montagne bellissime che ci sono
all’orizzonte, poi c’è un obbiettivo da raggiungere che è quello, per esempio,
di consentire a lui di godere di tutte le sfumature di colore che io vedo e che
magari lui non vede e poi ci sono gli ostacoli da superare, per esempio il
fatto che non riesca a vedere una certa cosa e allora io gliela faccio vedere,
in effetti la mia descrizione sarebbe superflua se sapessi che lui vede
esattamente le cose come le vedo io. Ci sono sempre comunque ciascuna volta ,
in qualunque racconto , in qualunque atto linguistico, possiamo dirla in termini
più difficili, incontrate sempre la stessa struttura. E cioè c’è un ambiente
che dovete descrivere, un riferimento a qualche cosa, ci sono gli ostacoli da
superare per ottenere un certo risultato, esattamente la struttura del gioco,
nè più nè meno.
Quindi, con questo,
possiamo giungere a concludere che il gioco e l’atto linguistico hanno la
stessa struttura e che pertanto l’atto linguistico è gioco e viceversa,
inesorabilmente.
Obiezioni? Potete
provare a considerare ascoltando qualcuno provando a cogliere questi tre
elementi: la descrizione dell’ambiente in cui si opererà, quali sono gli
strumenti, quali gli ostacoli e quale l’obbiettivo, li trovate sempre, in
qualunque circostanza.
Intervento:
Anche nel discorso analitico è così, quando si descrive un intoppo, il
nevrotico è sempre lì intoppato.
Nel discorso analitico
l’ostacolo è il non intendimento, cioè non accorgersi che ciò che si sta
facendo è la produzione di atti linguistici. L’obbiettivo è il fatto che se ne
accorga.
Intervento: Si
fa interessante. Forse per le conferenze è meglio, penso che sia più
comprensibile, più chiaro.
Se viene da voi uno o
una e vi dice: “Hai saputo cosa è successo al tizio?” può succedere almeno una
volta nella vita che qualcuno vi dica: “Hai saputo cosa è successo “ ecc. ecc.
Anche in questo caso c’è la stessa struttura. La persona vi dirà intanto il
riferimento in questo caso la persona, qual è la situazione, l’ostacolo qual è.
O l’ostacolo viene descritto a proposito della persona di cui si parla come
qualcosa che è stato superato o che era da superare e comunque è ancora da
superare oppure potete intendere l’ostacolo come la difficoltà nel raccontare
una cosa del genere e cioè la difficoltà consiste nel condurre il racconto in
modo tale che voi lo recepiate nel modo corretto. L’obbiettivo è rendervi
partecipi del grandioso avvenimento, oppure no a seconda dei casi. Non sempre,
non necessariamente sono eventi di grande interesse.
Intervento:
quello che va di moda in questi giorni è: hai sentito che è morto John John Kennedy?
E anche del Paradiso, la settimana scorsa i Gesuiti con l’Inferno, oggi il Papa
con il Paradiso, ha detto che c’è il Paradiso.
Ecco, diceva
Elisabetta che può essere una conferenza condotta in un modo simile, sì,
potrebbe essere.
Intervento: Sì,
così per me è molto più chiaro.
Sì, in effetti,
descrivere un caso clinico in questi termini mostrandone la struttura, prima
l’ossatura, poi come si muovono i vari personaggi, qual’è il loro intendimento,
a che pro fanno una certa cosa.
Intervento:
Anzi, io direi che è indispensabile, altrimenti l’argomento è sfuggente, invece
così va bene. In questo modo interessa e, quindi, ci si avvicina.
Sì, dicevo o
riprendere i casi clinici di Freud, i più classici, oppure costruirne proprio,
come s’inventa un racconto. Quali sono i casi clinici di Freud, Elisabetta?
Intervento: Il
caso Schreber, il caso di Dora, l’uomo dei lupi, il piccolo Hans, l’uomo dei
topi.
Poi ce n’è un altro,
un sesto caso quello del Presidente Wilson che però non si trova in
circolazione. Non c’è così come non ci sono gli scritti sulla cocaina. Freud
era un appassionato di cocaina, quindi ha scritto un saggio. Si trova perché
l’ha pubblicato Spirali e poi altri, dopo ma non è stato inserito nel Corpus
Freudiano perché non è bene sentire Freud che scrive che la cocaina fa
benissimo e che ne consiglia l’uso a tutti quanti. Che non dà assuefazione e
che anzi lui ne ha tratto un sacco di benefici. E per questo motivo hanno
preferito la Boringhieri che è una casa molto per bene.
Intervento:
Anche quei piccoli casi che lui inseriva nei saggi sull’isteria sono
semplicissimi però ognuno di essi è un racconto.
Non è affatto escluso
che alcuni dei suoi scritti siano stati epurati, bisognerebbe avere i
manoscritti però sono custoditi gelosamente dalla Fondazione Freud che è in
Germania o addirittura a Londra. C’è anche l’eventualità che negli scritti
sulla cocaina fosse andato giù pesantino e quindi che non sia stato reputato
adatto alla pubblicazione per il pubblico italiano che è un po’ come dire,
delicato.
Però per la questione
di prima si possono prendere i casi di Freud, farne un’analisi che non è mai
stata fatta, considerarli sotto l’aspetto del racconto inteso in questa
accezione, naturalmente anche avvalendoci di alcune categorie che magari hanno
utilizzato Greimas e altri.
Intervento:…
Sì, infatti Freud può
essere utilizzato tantissimo proprio per i luoghi comuni.
Intervento:
Anche il più piccolo film.
Sì, adesso Freud lo
mettono anche dentro i maccheroni.
Intervento:
Proprio anche come trauma, per l’interpretazione.
Eppure lui, il
fondatore della psicanalisi, non solo era un forte consumatore di cocaina ma ne
era anche un promotore, allora si trovava in farmacia.
Giovedì prossimo
vediamo di precisare questa connessione fra racconto e gioco, potrebbe promettere
notevoli sbocchi.