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22 luglio 1999

 

 

Dicevo, l’eventualità che non si racconti per descrivere ma si descriva qualcosa per raccontarlo, ponendo l’accento sul raccontare come ciò che appare, in prima istanza, necessario. Abbiamo posto la questione, ora si tratta di verificare, potrebbe anche non essere. Dunque, come si procede? Si procede così: si prende il racconto e si dice del racconto ciò che in nessun modo può negarsi, come abbiamo cominciato a fare la volta scorsa, e cioè affermare che il racconto non è altro che una sequenza di proposizioni connesse fra loro, abbiamo visto che il dizionario non ci è stato di nessun aiuto, quindi possiamo dire una serie di proposizioni connesse fra loro e basta.

Intervento: Poi c’era la questione delle regole e delle implicazioni. Implicazioni come regole.

Sì, certo. Il fatto che le proposizioni siano connesse tra loro comporta che, essendo proposizioni siano inserite all’interno di un gioco linguistico e, pertanto, vincolate a delle regole, necessariamente e quindi sono proposizioni connesse fra loro e vincolate da regole.

Le regole a cui sono vincolate sono innanzi tutto quelle del linguaggio, però c’è l’eventualità che ci siano anche regole specifiche del racconto. Quali sono le regole eventualmente specifiche di un racconto? Quelle che connettono le proposizioni fra loro in un modo particolare, ossia consequenziale, perché uno può enunciare una serie di proposizioni slegate fra loro, completamente slegate fra loro, questo generalmente non si chiama un racconto, anche se taluni contemporanei quasi hanno utilizzato questa apparentemente slegata così come forma di rottura.

Intervento: Joyce? Come tecnica

Come tecnica narrativa e quindi... il fatto che siano necessariamente connesse fra loro da un dato tipo di connessioni non è vincolante, sono comunque connesse fra loro, non possono non esserlo, però non c’è un tipo particolare di connessione che sia specifico del racconto. Possiamo dire che quel tipo di racconto ha quel tipo di connessione, quell’altro un altra, a me interessa il racconto in linea di massima, non un particolare tipo di racconto.

Quindi, se diciamo che il racconto non è altro che una sequenza di proposizioni connesse fra loro non descriviamo nient’altro che il funzionamento del linguaggio. Funzionamento del linguaggio che, a questo punto è nel racconto, ciò che stiamo dicendo è che ciascuna volta che si parla si racconta, inesorabilmente.

Intervento: cioè necessariamente

Sì. Chiaramente avendo definito il racconto in questo modo qualunque cosa si dica è necessariamente una serie di proposizioni connesse fra loro, non può essere altrimenti. Poi quale sia il tipo di connessione a noi non interessa, a noi interessa la connessione. Quindi, a questo punto, possiamo dire che il linguaggio o, meglio, il racconto non è altri che il linguaggio stesso. Quindi l’analisi del racconto è l’analisi del linguaggio, cioè delle proposizioni che intervengono, occorrono letteralmente cioè intervengono a costruire questa sequenza. Più propriamente, se vogliamo specificare ancora, potremmo dire che il racconto è una particolare sequenza del linguaggio. Una sequenza che ha un inizio ed una fine, esattamente come un discorso. Una sequenza, un segmento individuabile. Ora, dobbiamo considerare la questione posta la svolta scorsa cioè se effettivamente si descrivono le cose, cioè si parla delle cose allo scopo di raccontare e non al contrario. La questione è notevole, perché se riusciamo a mostrare che effettivamente la cosa funziona in questo modo è un argomento in più che fa intendere, una volta di più, l’atto linguistico e che in seconda istanza c’è ancora l’atto linguistico e così via. Che non c’è null’altro che questo.

Se io racconto qualcosa per descrivere un oggetto allora il racconto è in funzione della descrizione, se descrivo qualcosa, per definizione. Non posso non descrivere nulla, lo raccontano le regole del linguaggio. Così come non posso parlare di nulla, se parlo, parlo di qualcosa necessariamente, è una contraddizione di termini dire di parlare di nulla.

Intervento: Qualcuno ci riesce...

Questa è un’altra questione. Dunque, se descrivo qualcosa questo qualcosa o è un atto linguistico o è fuori dal linguaggio. Dimostrare che è fuori dal linguaggio è arduo. Non ci resta che accogliere, saltando tutta una serie di passaggi, che ciò che io voglio descrivere è un atto linguistico. Quale è il fine di un atto linguistico? Abbiamo visto che l’unico fine che possiamo attribuire all’atto linguistico è quello di produrre se stesso, quindi l’atto linguistico della descrizione di questo aggeggio ha come fine il produrre se stesso, nient’altro che questo e quindi dire che la descrizione dell’accendino non è nient’altro che un pretesto per produrre un altro atto linguistico.

A questo punto possiamo dire che la descrizione, un racconto che racconta qualcosa ha come obbiettivo finale la produzione di atti linguistici, gli atti linguistici connessi tra loro sono esattamente il racconto quindi, la finalità di un racconto è produrre un racconto.

Questo così, per dirla in termini un po’ schematici, però cosa comporta questo dal lato pratico? Il fatto che ciascuna volta in cui dico qualcosa, che racconto, che parlo, qualunque cosa faccia, il fine di ciò che sto facendo è la produzione di atti linguistici e, pare, non possa trovare nessuna altra finalità, la produzione di atti linguistici fine a se stessa cioè fine alla produzione di atti linguistici.

Come dire, in altri termini ancora, che non posso fare nient’altro durante tutto il corso della mia vita finita o infinita che sia, che produrre atti linguistici.

Se ciascuna cosa che io dica, faccia, pensi, esegua è un atto linguistico a questo punto l’effetto immediato del tenere conto di una cosa del genere è che ciò che sta avvenendo ciò che sto facendo, meglio ciò che sta avvenendo non ha nessun altro referente all’infuori di sè. Cosa vuol dire questo? Che non si riferisce a null’altro al mondo nè fuori dal mondo che sia altro da sé. Se io descrivo a qualcuno per esempio che ne so come è fatto questo accendino allora glielo descrivo.

Pare che questo mio operare sia rivolta alla descrizione di un oggetto e che quindi il referente ultimo sia l’oggetto, il referente proprio come nella accezione antica del termine come ciò a cui ci si riporta, letteralmente re-fero. Che sia questo oggetto ma, questo oggetto noto più come accendisigari, fuori dal linguaggio né esiste né non esiste, quindi il definirlo non è altro che compiere altri atti linguistici. Ora quindi io posso ovviamente descrivere questo accendino, anche in modo più dettagliato, se voglio ma, non avrò fatto null’altro che attenermi a delle regole di un gioco che prevede un certo numero di regole per la costruzione di atti linguistici, e quindi ho fatto un gioco particolare il cui scopo è la produzione di atti linguistici.

Però chi me lo chiede vuole effettivamente sapere come è fatto questo accendino? Qui siamo un po’ nel campo della logica più stretta e cerchiamo l’aspetto più retorico, quello dell’intenzione. Abbiamo accennato una volta mi sembra?

Intervento: L’intenzione non è altro che la produzione di altri atti linguistici.

Che cos’è un’intenzione, Elisabetta? Etimologicamente l’intendere.

Intervento: Tendere dentro.

Sì, intendere in qualcosa, verso qualcosa, dentro qualcosa, certo. Quindi l’intenzione anche l’intensione, usata dai logici, l’intensione e l’estensione, l’intenzione è l’atto del muoversi verso una direzione precisa, ma quale? Perché uno può tendere in tantissime direzioni, tuttavia quando c’è un’intenzione questa muove da una serie di proposizioni che possono essere le più disparate, questo accendino mi piace e voglio sapere com’è fatto perché, eventualmente, ne compero uno, per dire una banalità. Ora uno potrebbe domandarsi perché vuol comprarsi un accendino come questo, per esempio, visto che questa è la sua intenzione. Qualunque cosa la persona adduca come motivazione per compiere un’operazione del genere sarà comunque la conclusione di una serie d’inferenze, perché ho una particolare predilezione per gli aggeggi in argento, perché è uno status symbol, perché ecc... perché ce l’aveva mio nonno, e allora? Un po’ così come avviene nell’itinerario analitico, questa domanda, anche se non si formula così “e allora?”, cosa muove quello che stai dicendo, cioè a che pro stai parlando, verso che cosa stai andando? Tutto questo allude alla produzione di altri atti linguistici che vengono connessi alla proposizione che afferma voglio comprare questo accendino. Se uno risponde perché ce l’aveva mio nonno non è propriamente una risposta o come tale non è intesa, è soltanto qualcosa che è adiacente e chiaramente uno può andare avanti all’infinito, perché ce l’aveva mio nonno quindi perché questo se no quest’altro e via all’infinito, come dire che può rispondere ad una qualunque domanda all’infinito. Un po’ come mimano i bambini quando fanno il gioco del perché, e un po’ anche il gioco della filosofia solo che portato alle estreme conseguenze, e in effetti il cosiddetto gioco dei perché non ha fine. Così come i filosofi si sono accorti che già Sesto Empirico, figura nota come tropo del diallele, non è altro che un rinvio infinito da una cosa all’altra, se A allora B, se B allora C eccetera e se fosse vivo sarebbe ancora lì , Sesto Empirico, ad andare avanti.

Quindi il motivo non è reperibile, perché ciascuno rinvia ad un altro. Cosa ci suggerisce una cosa del genere? Due le questioni: una perché le persone generalmente si fermano al primo o al secondo? Esempio: perché ti piace questo accendino? Perché ce l’aveva mio nonno. Chiuso.

L’altra questione invece che cosa comporta l’impossibilità di definire in termini precisi i motivi, visto che non c’è possibilità d’arresto. Ma il fatto che generalmente le persone si arrestino al primo o al secondo può essere indotto a poca pratica con la struttura del linguaggio, per questo dicevo tempo fa che occorre, per approcciarsi al discorso che stiamo facendo, un certo addestramento al funzionamento del linguaggio. Una persona è indotta a pensare che gli piace l’accendino perché ce l’aveva il nonno questo è più che sufficiente , non si pone la fatidica domanda e allora?

In effetti se pensate a tutto l’addestramento che avviene in un incidente ma non soltanto è fatto per costruire un pensiero, a domanda c’è la risposta. Adesso, ultimamente qualcuno comincia ad accorgersi che forse la questione non è così semplice. Certo, all’interno di alcuni giochi è previsto che la risposta sia una, ma questa risposta che è una non è la risposta definitiva in assoluto, è soltanto la risposta prevista da quel gioco. Se io gioco a poker e ho quattro assi e Luigi ha due sette, se andiamo a vedere non ci sono altre possibilità, io ho quattro assi, lui due sette e vinco io, la risposta è quella e non ce ne può essere un’altra, perché stabilita dalla regola del gioco.

La questione è che il linguaggio in quanto tale non stabilisce una regola, ciascun gioco la stabilisce, anche se altri giochi più tecnici, che ne so se io voglio sistemare il computer devo attenermi a certe regole del gioco, il fatto di proseguire all’infinito con le domande non mi consente di fare quel gioco. Tommaso, santo per alcuni, aveva inteso che non è possibile parlare in questo modo, cioè ponendo questioni all’infinito, perché non è possibile parlare se non all’interno di un gioco che vincola ciò che si dice a delle regole precise, solo che lui l’aveva posta non come regola per giocare ma come una legge universale, un’ipostasi. Ipostasi è un termine che viene usato in filosofia di derivazione greca, ipo stasi cioè ciò che sta sotto, letteralmente ciò che giace sotto. Un’ipostasi e quindi come una necessità assoluta, no, è soltanto una regola del gioco.

Anche questo è un elemento notevole di cui occorre tenere conto, cioè del fatto che si utilizza il linguaggio ma il fatto che lo si utilizzi in un certo modo e perché ciascuna volta si sta applicando un gioco particolare il quale vincola a certe riposte, vincola a certe mosse.

Quindi, se uno mi dice voglio questo accendino perché ce l’aveva mio nonno, può anche starmi bene però se cambiamo gioco ed instauriamo un altro gioco che è noto come gioco del linguaggio, quello che avviene in analisi, ecco che allora questa risposta non è sufficiente. Non è sufficiente perché importa non tanto sapere perché è interessato a questo accendino ma quali proposizioni vengono costruite da questa intenzione, questo è ciò che importa. Perché occorre che una persona si accorga ad un certo punto che ciò che fa o che non fa non ha altro fine se non quello di produrre proposizioni, e così affermare che voglio comprare questo accendino non è altro che il pretesto per la costruzione di proposizioni, l’accendino in quanto tale non esiste, non è mai esistito e soltanto un elemento all’interno delle proposizioni che innesca altre proposizioni. e così, quando l’avrà comprato o non l’avrà comprato allo stesso modo, questo produrrà altre proposizioni che avranno degli altri effetti.

Intervento: Io devo cercare le proposizioni che mi hanno condotto a dire perché ce l’aveva mio nonno, in analisi?

Non si troveranno mai queste proposizioni ma si troveranno altre proposizioni che vengono costruite, non è possibile andare a ritroso, non è possibile nel senso che non è possibile reperire, per esempio pensiamo a Freud, a quelle proposizioni che hanno costruito certe nevrosi, per esempio. Che cosa garantisce che quella proposizione è quella di vent’anni fa? E’ un’altra proposizione, ha a che fare non ha a che fare? E comunque una proposizione adiacente, che si pone a fianco, che costruisce un altro discorso. Se io voglio sapere perché che ne so, ho una carenza affettiva, perché la mamma mi ha tolto la marmellata quand’ero piccolo, io posso dire perché la mamma ha fatto questo ma lo sto dicendo ora, adesso, con tutto ciò che questo comporta, ciò che è accaduto allora non esiste più, esistono altre proposizioni che vengono costruite a partite da proposizioni che comunque non sono quelle di allora, per questo non è possibile un ritorno a ritroso, si può solo procedere in una direzione che va avanti, diciamola così

Intervento:…

Sì, andando avanti è chiaro che non si trova la risposta ma si trovano altre proposizioni, Non rispondono perché non sono quelle di allora, non c’è una sorta di catarsi come voleva certa psicanalisi, se uno recupera quella scene traumatiche le rivive le abreagisce come dicono gli psicanalisti e se ne fa una ragione, in definitiva. Ma non è così, non si può tornare indietro, non è possibile. Per cui costruisci, letteralmente inventi una spiegazione. La stessa spiegazione che mi dà un tizio al quale io chiedo perché vuole questo accendino e mi risponde perché ce l’aveva mio nonno non è il perché vuole questo accendino è un’invenzione, è quello che si è inventato ma a che pro? Per costruire delle proposizioni.

Intervento: per potere proseguire.

Sì. Per rispondere ad un’altra proposizione che lui incontra e che gli domanda perché vuoi questo accendino. Che cos’è una risposta? E’ un altro rinvio, nient’altro che questo, cioè un elemento che rinvia ad un altro, cioè trova un rinvio, trova il modo per proseguire. Una domanda non è altro che una proposizione che, apparentemente, non ha rinvio e allora si cerca disperatamente quell’altra proposizione che ne costituisca il rinvio per proseguire. Ciascuno avverte quando c’è una domanda a cui non sa rispondere una sorta di fastidio, chiamiamolo così, perché è come se di lì non potesse andare avanti, questo è il fastidio, appena infatti trova ecco allora il sollievo, allora posso proseguire.

Intervento: Come quando non ti vengono le parole quando t’interrogano a scuola.

Sì, è la stessa questione di quando si risolve un problema di qualunque tipo sia, pratico, teorico. Quello che si cerca per riprodurre una condizione che è strutturale al linguaggio, che in effetti una delle questioni rimasta in sospeso e che dobbiamo affrontare è perché gli umani cercano continuamente l’ostacolo da superare, a proposito del gioco.

La questione del gioco che abbiamo approcciato e che è ancora lontana dall’essere intesa, tuttavia, tuttavia c’è l’eventualità che ciò che stiamo dicendo intorno al racconto abbia a che fare con la questione del gioco. Può essere che il gioco strutturale al linguaggio sia proprio il racconto. E che ciascun gioco che si fa, dal gioco in borsa al tresette, al gioco dell’oca, alla roulette russa siano praticamente dei racconti. In qualche modo si è sfiorata la questione tempo fa, la struttura del racconto, il racconto ha la struttura del gioco o viceversa, poi possiamo dire che il gioco, in effetti, non è altro che il racconto e che il racconto è il gioco. Cos’è un gioco? E’ un racconto. Con tutti gli elementi, c’è l’attore, posso essere io o chi altri, c’è un antagonista che mi impedisce, può essere qualcuno o qualcosa, c’è un obbiettivo da raggiungere, c’è tutta la struttura pari pari di un racconto.

Intervento: E mentre si svolge il gioco si svolge il racconto del gioco.

Sì.

Intervento: Mi chiedevo se sia possibile distinguere fra racconto e storia, per esempio, laddove si suppone il racconto di qualcosa che interessa, il racconto è una storia no? Raccontare il tramonto del sole, la difficoltà è scindere il racconto del tramonto dal racconto di una storia.

Qualunque cosa ha questa struttura. Prendiamo due storie emblematiche. L’una la Divina Commedia, un racconto molto nobile, bello, l’altro un manuale di programmazione per computer, siamo ai due poli opposti. Ora considerate bene la struttura. Vengono forniti degli strumenti per intendere ciò di cui si tratta. Nell’un caso una descrizione dell’ambiente, il panorama, i personaggi, “Mi trovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita”. Qui dà un’informazione, dove si trova, quanti anni ha, che sta lì a fare e qual è l’intendimento. Adesso prendete un manuale di programmazione, vi dice quali sono gli strumenti che verranno utilizzati anche a cosa servono e come utilizzarli per raggiungere cosa? Lo scopo finale che è costruire un programma. Lo scopo finale della Divina Commedia è raggiungere la visione. Quindi c’è la descrizione degli strumenti per compiere questo cammino, qualunque esso sia, c’è la descrizione dell’obbiettivo, in alcuni casi è già implicito, se uno compra un manuale di programmazione non è sicuramente per imparare a fare la bourghignonne, non troverà le istruzioni adatte.

Intervento:…

Nella struttura del racconto, cioè ciò che è necessario per un racconto, quindi la descrizione di un ambiente, nel manuale di programmazione magari la descrizione di un ambiente operativo, quindi c’è un ambiente operativo, anche Dante descrive il suo ambiente operativo, è una selva oscura ci sono vari animali che gli rompono le scatole, incontra una guida a nome Virgilio che gli darà delle indicazioni, che potrebbero essere il glossario del manuale d’informatica, c’è l’individuazione molto precisa dell’obbiettivo e ci sono degli ostacoli; gli ostacoli per Dante sono la lontra ecc. sono i vizi capitali, sono di volta in volta Caron dimonio, sono questo e quell’altro, ci sono degli ostacoli anche lì, non è che arriva subito in taxi in Paradiso, deve passare una serie di perigli. E così nel manuale d’informatica ci sono i pericoli fra virgolette, i possibili errori di compilazione di un programma, intoppi che possono verificarsi e che devono essere superati. La struttura è esattamente la stessa, sia che io racconti un viaggio catartico dall’inferno al paradiso sia che io legga un manuale di programmazione. Dico così perché Beatrice è un’abile programmatrice.

Questo per mostrarvi la struttura di un racconto, qualunque cosa voi diciate, facciate, siate ha questa struttura. Se io descrivo ad un amico, siamo in montagna o al mare, sono le sette di sera il sole cala verso l’orizzonte, scende nell’acqua...quando ero piccolo pensavo che il sole scendesse dentro l’acqua del mare e si spegnesse.

Anche lì c’è una descrizione, intanto vi mostro che certe volte basta solo indicare l’ambiente in cui siamo, infatti non gli dico guarda che montagne bellissime che ci sono all’orizzonte, poi c’è un obbiettivo da raggiungere che è quello, per esempio, di consentire a lui di godere di tutte le sfumature di colore che io vedo e che magari lui non vede e poi ci sono gli ostacoli da superare, per esempio il fatto che non riesca a vedere una certa cosa e allora io gliela faccio vedere, in effetti la mia descrizione sarebbe superflua se sapessi che lui vede esattamente le cose come le vedo io. Ci sono sempre comunque ciascuna volta , in qualunque racconto , in qualunque atto linguistico, possiamo dirla in termini più difficili, incontrate sempre la stessa struttura. E cioè c’è un ambiente che dovete descrivere, un riferimento a qualche cosa, ci sono gli ostacoli da superare per ottenere un certo risultato, esattamente la struttura del gioco, nè più nè meno.

Quindi, con questo, possiamo giungere a concludere che il gioco e l’atto linguistico hanno la stessa struttura e che pertanto l’atto linguistico è gioco e viceversa, inesorabilmente.

Obiezioni? Potete provare a considerare ascoltando qualcuno provando a cogliere questi tre elementi: la descrizione dell’ambiente in cui si opererà, quali sono gli strumenti, quali gli ostacoli e quale l’obbiettivo, li trovate sempre, in qualunque circostanza.

Intervento: Anche nel discorso analitico è così, quando si descrive un intoppo, il nevrotico è sempre lì intoppato.

Nel discorso analitico l’ostacolo è il non intendimento, cioè non accorgersi che ciò che si sta facendo è la produzione di atti linguistici. L’obbiettivo è il fatto che se ne accorga.

Intervento: Si fa interessante. Forse per le conferenze è meglio, penso che sia più comprensibile, più chiaro.

Se viene da voi uno o una e vi dice: “Hai saputo cosa è successo al tizio?” può succedere almeno una volta nella vita che qualcuno vi dica: “Hai saputo cosa è successo “ ecc. ecc. Anche in questo caso c’è la stessa struttura. La persona vi dirà intanto il riferimento in questo caso la persona, qual è la situazione, l’ostacolo qual è. O l’ostacolo viene descritto a proposito della persona di cui si parla come qualcosa che è stato superato o che era da superare e comunque è ancora da superare oppure potete intendere l’ostacolo come la difficoltà nel raccontare una cosa del genere e cioè la difficoltà consiste nel condurre il racconto in modo tale che voi lo recepiate nel modo corretto. L’obbiettivo è rendervi partecipi del grandioso avvenimento, oppure no a seconda dei casi. Non sempre, non necessariamente sono eventi di grande interesse.

Intervento: quello che va di moda in questi giorni è: hai sentito che è morto John John Kennedy? E anche del Paradiso, la settimana scorsa i Gesuiti con l’Inferno, oggi il Papa con il Paradiso, ha detto che c’è il Paradiso.

Ecco, diceva Elisabetta che può essere una conferenza condotta in un modo simile, sì, potrebbe essere.

Intervento: Sì, così per me è molto più chiaro.

Sì, in effetti, descrivere un caso clinico in questi termini mostrandone la struttura, prima l’ossatura, poi come si muovono i vari personaggi, qual’è il loro intendimento, a che pro fanno una certa cosa.

Intervento: Anzi, io direi che è indispensabile, altrimenti l’argomento è sfuggente, invece così va bene. In questo modo interessa e, quindi, ci si avvicina.

Sì, dicevo o riprendere i casi clinici di Freud, i più classici, oppure costruirne proprio, come s’inventa un racconto. Quali sono i casi clinici di Freud, Elisabetta?

Intervento: Il caso Schreber, il caso di Dora, l’uomo dei lupi, il piccolo Hans, l’uomo dei topi.

Poi ce n’è un altro, un sesto caso quello del Presidente Wilson che però non si trova in circolazione. Non c’è così come non ci sono gli scritti sulla cocaina. Freud era un appassionato di cocaina, quindi ha scritto un saggio. Si trova perché l’ha pubblicato Spirali e poi altri, dopo ma non è stato inserito nel Corpus Freudiano perché non è bene sentire Freud che scrive che la cocaina fa benissimo e che ne consiglia l’uso a tutti quanti. Che non dà assuefazione e che anzi lui ne ha tratto un sacco di benefici. E per questo motivo hanno preferito la Boringhieri che è una casa molto per bene.

Intervento: Anche quei piccoli casi che lui inseriva nei saggi sull’isteria sono semplicissimi però ognuno di essi è un racconto.

Non è affatto escluso che alcuni dei suoi scritti siano stati epurati, bisognerebbe avere i manoscritti però sono custoditi gelosamente dalla Fondazione Freud che è in Germania o addirittura a Londra. C’è anche l’eventualità che negli scritti sulla cocaina fosse andato giù pesantino e quindi che non sia stato reputato adatto alla pubblicazione per il pubblico italiano che è un po’ come dire, delicato.

Però per la questione di prima si possono prendere i casi di Freud, farne un’analisi che non è mai stata fatta, considerarli sotto l’aspetto del racconto inteso in questa accezione, naturalmente anche avvalendoci di alcune categorie che magari hanno utilizzato Greimas e altri.

Intervento:…

Sì, infatti Freud può essere utilizzato tantissimo proprio per i luoghi comuni.

Intervento: Anche il più piccolo film.

Sì, adesso Freud lo mettono anche dentro i maccheroni.

Intervento: Proprio anche come trauma, per l’interpretazione.

Eppure lui, il fondatore della psicanalisi, non solo era un forte consumatore di cocaina ma ne era anche un promotore, allora si trovava in farmacia.

Giovedì prossimo vediamo di precisare questa connessione fra racconto e gioco, potrebbe promettere notevoli sbocchi.