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22 giugno 2022

 

Aletheia in Saggi e discorsi di M. Heidegger

 

Questa sera leggiamo il secondo saggio di Heidegger su Eraclito. Incomincia così. È chiamato l’oscuro, ό σκοτεινός. Questa fama, Eraclito l’aveva già quando la sua opera era ancora conservata interamente. Oggi noi ne conosciamo solo dei frammenti. Pensatori meno antichi, Platone e Aristotele, scrittori posteriori e cultori eruditi di filosofia, come Teofrasto, Sesto Empirico, Diogene Laerzio e Plutarco, ma anche Padri della Chiesa, Ippolito, Clemente Alessandrino e Origene, nelle loro opere citano qua e là passi dell’opera di Eraclito. Queste citazioni sono riunite sotto il titolo di Frammenti, e questa raccolta la dobbiamo al lavoro di ricerca dei filologi e degli storici della filosofia. I frammenti consistono talvolta di più frasi, talvolta di una frase sola, e altre volte ancora sono soltanto brandelli di frase o parole singole. È lo svolgimento di pensiero dei singoli pensatori e scrittori successivi che determina la scelta e il tipo di citazioni che essi fanno delle parole di Eraclito. In tal modo viene stabilito di volta in volta l’ambito della loro interpretazione. Perciò una considerazione più approfondita dei luoghi in cui tali parole si trovano negli scritti degli autori più tardi ci può permettere sempre di ricostruire soltanto il contesto entro cui questi autori hanno inserito la citazione, ma non quella di Eraclito da cui la citazione è stata tratta. Le citazioni insieme con i contesti in cui si trovano non ci trasmettono per l’appunto ciò che è essenziale: l’unità della struttura interna dello scritto di Eraclito che fa da base e da criterio di organizzazione delle parti. Questo, giusto per incominciare. Noi leggiamo Eraclito, ma lo leggiamo sempre attraverso delle interpretazioni: anche se le parole sono quelle, sono però inserite in un contesto tale per cui acquistano un significato che non è necessariamente quello che voleva dare Eraclito. Eraclito si chiama “l’Oscuro”. Ma egli è il Chiaro. Giacché dice ciò che apre-illumina, in quanto cerca di chiamare il suo rispendere nel linguaggio del pensiero. L’aprente-illuminante dura in quanto apre-illumina. Questo suo aprire-illuminare noi lo chiamiamo lo “slargo” (die Lichtung). A pag. 177. …noi sappiamo troppo e crediamo troppo affrettatamente per poter prendere dimestichezza con un domandare vissuto in modo autentico. Per questo occorre la capacità di meravigliarsi di fronte a ciò che è semplice e di prendere dimora in questa meraviglia. La parola θαμα, meraviglia, è usata anche da Aristotele nella Metafisica. L’invito di Heidegger è sempre quello di cercare, anche se non vi si riuscirà mai, di pensare come l’antico, cioè, di trovarsi di fronte a una certa questione come se fosse sempre la prima volta. C’è poi una citazione da un frammento, tradotto da Diels-Kranz. “Come può uno nascondersi davanti a quello che mai tramonta?”. In greco suona così: τό μή δνόν ποτέ πς ν τις λάθοι. La prima parte, τό μή δνόν ποτέ, sarebbe ciò che non tramonta mai: il μή è il non, δνόν è il tramontare. La sentenza viene indicata come frammento 16. Forse, per noi che badiamo alla sua dignità interna e alla portata di ciò che indica, dovrebbe essere il primo frammento. C’è poi tutto un lungo discorso sui Padri della Chiesa e altri che lo citano, ma questo ci interessa poco. Invece, andiamo direttamente a pag. 181. I greci hanno sentito l’obliatezza, λήθηDa cui ἀλήθεια, il non nascosto. …come un destino del nascondimento. Λανθάνομαι dice: io rimango a me stesso … nascosto. In tal modo il non nascosto è dal canto suo anch’esso nascosto, come lo sono io a me stesso nel mio rapporto con esso. Ciò che è presente sprofonda via nell’oblio in tal modo che in questo nascondimento io resto nascosto a me stesso come colui a ciò che è presente si sottrae. Che cosa ci sta dicendo Heidegger? Una cosa importante, semplice anche per alcuni versi, ma detta come la dice lui può apparire non immediatamente evidente. Dice: ciò che è presente sprofonda via nell’oblio. Utilizziamo sempre i due termini di de Saussure, che sono semplici da comprendere: significante e significato. Ciò che è presente è il significante; questo significante sprofonda nell’oblio, scompare. Dove? Nel significato, naturalmente. Si oblia nel significato, ma nel significato ritorna in quanto significante, obliando quindi il significato, e ritorna questa volta come significante che significa effettivamente qualcosa. Vale a dire, questo movimento continuo in cui qualcosa si sottrae. Potremmo anche dirla così: il λέγειν si sottrae, dilegua nel τί, nel ciò che io dico. Ma questo τί, questo ciò che io dico, dilegua di nuovo per fare del λέγειν il mio dire effettivamente, che non c’è prima che ci sia il τί. Sia nel modo in cui la lingua greca usa λανθάνειν, restar nascosto come verbo reggente e predominante, sia anche nell’esperienza del dimenticare vissuta a partire dal restare nascosto, appare abbastanza chiaramente che λανθάνω, resta nascosto, non indica un comportamento qualunque dell’uomo fra molti altri, ma designa il carattere fondamentale di ogni atteggiarsi rispetto a ciò che è presente e a ciò che è assente, se non addirittura il carattere fondamentale della presenza e assenza stesse. Se, ora, la parola λήθω, resto nascosto, ci parla nella sentenza di un pensatore, e se anzi questa parola sta alla conclusione di una interrogazione pensante…  È l’interrogazione di prima: come può uno nascondersi davanti a quello che mai tramonta? Πς ν τις: il τις non è il τί, il qualcosa, ma è il qualcuno. Infatti, qui lo dice. A pag. 183. Se poi, inoltre, rovesciamo la forma negativa della frase in quella affermativa corrispondente, udiamo allora finalmente ciò che la sentenza designa come “quello che mai tramonta”, e cioè: quello che costantemente sorge, emerge, τό άεί φὺον. Il pensatore parla però della φύσις. In questa parola udiamo un termine fondamentale del pensiero greco. Così ci siamo imbattuti in modo inaspettato in una risposta alla nostra domanda, che chiedeva che cosa sia ciò di cui Eraclito dice che mai tramonta. Questo richiamo alla φύσις, però, può valere per noi come una risposta, fino a che rimane oscuro in che senso la φύσις vada pensata. E a che cosa possono servirci etichette altisonanti come “termine fondamentale”, se dei fondamenti e degli abissi del pensiero greco ci curiamo così poco da coprirli con nomi scelti a casaccio, che, in modo sempre abbastanza sconsiderato, prendiamo dagli ambiti di rappresentazioni familiari a noi? Se pure τό μήποτέ δνόνQui ha spostato il μή: non il τό μή δνόν ποτέ ma τό μήποτέ δνόν, spostando il μή insieme al ποτέ, cioè, non nascosto. …sta a indicare la φύσις, il riferimento alla φύσις non ci spiega tuttavia che cosa sia τό μή δνόν ποτέ, anzi al contrario: “quello che mai tramonta” ci indirizza a considerare come e in che senso la φύσις venga esperita come quello che costantemente sorge. Ma questo che altro è se non quello che continuamente si disvela? Di conseguenza il dire della sentenza si muove nell’ambito del disvelare e non in quello del nascondere. Ciò che sempre si disvela è ciò che si dice, né più né meno. Questo si disvela continuamente ma, disvelandosi, si vela. Come dicevo prima: si svela nel senso che il significante mostra ciò che è attraverso il significato, ma è soltanto attraverso questo suo significato che il significante diventa quello che è. Vedete che qui c’è già questo movimento continuo di svelamento e velatezza. Era Eraclito che diceva πάντα ῥεῖ, tradotto con “tutto scorre”, ma sarebbe forse più interessante tradurlo con “tutto in movimento”. ῥεῖ è scorrere, certo; tra l’altro ῥέω è la radice della parola “retorica”. A pag. 184. Abbiamo spostato τό μή δνόν ποτέ trasformandolo nell’espressione τό μήποτέ δνόν, e poi abbiamo tradotto μήποτέ con “mai” e τό δνόν con “quello che tramonta”. Non abbiamo considerato né il μή detto separatamente davanti al δνόν, né il ποτέ messo dopo. Per questo non abbiamo anche potuto fare attenzione a un’indicazione che la negazione μή e l’avverbio ποτέ tengono in serbo per noi in vista di una più cauta spiegazione del δνόν. Il μή è un termine di negazione. Come ούκ, esso significa un “non”, però in un altro senso. L’ ούκ nega direttamente qualcosa di ciò che è oggetto della negazione. Invece, il μή attribuisce qualcosa a ciò che entra nell’ambito della sua negazione: un respingere, un tener lontano, un impedire. Μή … ποτέ vuol dire: che… giammai. Giammai che cosa? Che qualcosa sia altrimenti da come è. Nella sentenza di Eraclito tra μή e ποτέ è posto il δνόν. /…/ Se ci arrischiamo ancora una volta per un momento a trasformare l’espressione negativa in una affermativa, appare che Eraclito pensa il continuo sorgere, non un qualcosa a cui il sorgere si applichi come una proprietà, e neppure il tutto che il sorgere concerne. Eraclito pensa invece il sorgere e solo questo. Il sempre perdurante sorgere è designato nella parola pensante φύσις. Heidegger è con “il sempre perdurante sorgere” che traduce φύσις, che generalmente è tradotta con natura. Natura è un termine latino che significa proprio ciò che sorge; è il participio futuro di nascor (nascor, nasceris, natuus sum, nasci) per cui natura può tradursi con ciò che continuamente sorge, che è lì per sorgere. La sentenza ha di mira, nello stesso tempo e in modo diretto, il continuo sorgere, il sempre perdurante disvelamento. L’espressione: τό μή δνόν ποτέ, il pur tuttavia mai tramontare, significa entrambe le cose: disvelamento e nascondimento, non come due avvenimenti distinti e semplicemente giustapposti, ma come una sola e medesima cosa. Se badiamo a questo, non ci sarà permesso di porre alla leggera τήν φύσις (letteralmente: la natura) al posto di τό μή δνόν ποτέ. O invece questo è pur sempre possibile, se non addirittura inevitabile? In quest’ultimo caso, non potremo però più pensare la φύσις solo come sorgere. Del resto, questo essa non lo è, fondamentalmente, mai. Proprio Eraclito stesso lo dice, in un modo che è insieme chiaro e misterioso. Il frammento 123 suona: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. Che è banalmente tradotto con “la natura ama nascondersi”. Non ci soffermeremo qui a esaminare in dettaglio se la traduzione “l’essenza delle cose ama nascondersi”… Qui traduce φύσις con “l’essenza delle cose” e non con natura che, giustamente, non significa niente. Probabilmente non è lecito attribuire a Eraclito un simile luogo comune, a prescindere dal fatto che una “essenza delle cose” comincia a pensarsi solo a partire da Platone. Non era presente nel pensiero presocratico. Altro è ciò a cui dobbiamo fare attenzione: φύσις e κρύπτεσθαι, sorgere (disvelarsi) e nascondersi… Vedete come anche in questo caso, questi due momenti, come direbbe Hegel, sono due momenti dello stesso: il sorgere e il nascondersi. Ciascuna cosa sorge nel momento stesso in cui si nasconde; il significante sorge come significante nel momento in cui si nasconde, dilegua nel significato; solo a questo punto il significante significa qualcosa, cioè è un significante. Ma questi momenti devono necessariamente essere simultanei. …se c’è qualcosa a cui la φύσις come sorgere volge le spalle e anzi contro cui si rivolge, questo è proprio il κρύπτεσθαι, il nascondersi. Eppure Eraclito pensa i termini nella vicinanza più stretta. La loro vicinanza è anzi espressamente nominata. Essa viene definita dal φιλεῖ. Il disvelare ama il nascondersi. Che cosa vuol dire? Il sorgere cerca forse l’essere nascosto? E questo esser nascosto dov’è, e come, in che senso di “essere”? Oppure la φύσις ha soltanto una certa predilezione, che si fa sentire solo talvolta, e che la spinge ad essere, per cambiare, un nascondersi invece che un sorgere? La sentenza dice forse che il sorgere ami qualche volta trasformarsi in un nascondersi, di modo che vigano ora l’uno ora l’altro. Niente affatto. Questa interpretazione si lascia sfuggire il senso del φιλεῖ con cui viene designato il rapporto tra φύσις e κρύπτεσθαι. Essa soprattutto dimentica la cosa decisiva che la sentenza dà da pensare: il modo in cui il sorgere dispiega il proprio essere come disvelarsi. Questo è importante. L’essere, ciò che appare – come sappiamo, per i greci, l’essere è ciò che appare così come appare – è sempre un disvelarsi, è qualcosa che si sta disvelando, mi si disvela: questo è il fenomeno, l’apparire delle cose. Se pure è consentito, qui, in riferimento alla φύσις, parlare di “essenza”, è certo che φύσις non significa l’ τι, il “che cosa” delle cose. L’ è articolo determinativo quando è maschile; quando è neutro è τό. Di questo Eraclito non parla né qui né nei frammenti 1 e 112, dove usa l’espressione κατά φύσιν. Non è la φύσις come essenzialità delle cose ciò che la sentenza pensa, bensì il dispiegarsi dell’essere della φύσις. Quindi, non è l’essenza della φύσις, ma il dispiegarsi, e cioè, come diceva prima, il venirmi incontro, l’apparirmi di qualche cosa. Ricordate bene, lo ha detto prima, che l’essenza, è un concetto che arriverà con Platone: l’essenza come un qualche cosa di fissato, di stabilito. Questo naturalmente è venuto con Platone perché a Platone serviva che ci fosse un’essenza dell’ente in modo da poterlo fissare, stabilire, determinare. Per i presocratici non era così, non si occupavano dell’essenza delle cose, ma si interrogavano su come le cose uscissero dal nascondimento e apparissero. In tal modo, dunque, φύσις e κρύπτεσθαι non sono separati l’una dall’altro, ma hanno una reciproca inclinazione. È così che traduce il φιλεῖ, con inclinazione. Essi sono lo stesso. Φύσις e κρύπτεσθαι sono lo stesso, il disvelarsi e il nascondimento sono lo stesso. Proprio in tale inclinazione (φιλεῖ) ognuno dei due concede all’altro la sua propria essenza. Come dire che non c’è l’uno senza l’altro: non c’è la φύσις senza il κρύπτεσθαι, il nascondimento non esiste senza la φύσις, senza l’apparire delle cose. La traduzione del frammento 123 φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ potrebbe perciò suonare: “Il sorgere (dal nascondersi) concede il suo favore al nascondersi”. Il sorgere, la φύσις, concede, φιλεῖ, il suo favore al nascondersi, al κρύπτεσθαι. Noi pensiamo la natura ancora solo nel suo aspetto più superficiale quando la pensiamo soltanto come sorgere e far sorgere, attribuendole poi inoltre qualche altra proprietà, e però tralasciamo il fatto decisivo che il disvelarsi non solo non elimina mai il nascondere, ma ne ha bisogno, per potere essere come è, cioè come dis-velare. Solo se pensiamo la φύσις in questo senso possiamo anche dire τήν φύσιν al posto di τό μή δνόν ποτε. Al posto di ciò che non tramonta mai. Entrambi i nomi designano l’ambito che è fondato e governato dalla mobile intimità di svelare e nascondere. In questa intimità si ripara l’unicità e uni-tà dell’“Eν, di quell’uno che i pensatori delle origini probabilmente hanno pensato in una ricchezza della sua semplicità la quale resta impenetrabile per i posteri. Questa cosa appare sempre in Heidegger, questa constatazione del fatto che il modo con cui il greco antico presocratico pensava certe parole, come Uno, “Eν, non è più pensabile per noi, non riusciamo più a sapere come suonava per loro, che cosa echeggiava alle loro orecchie quando ascoltavano questa parola. Τό μή δνόν ποτε, il “mai entrare nel nascondimento”, non cade mai in preda del nascondimento per estinguervisi, ma rimane affezionato al nascondersi, giacché, in quanto mai entrare in…, esso è sempre un sorgere dal nascondimento. Per il pensiero greco, in τό μή δνόν ποτε è detto, in modo non pronunciato, il κρύπτεσθαι, e così è nominata la φύσις nella sua prima essenza governata dalla φιλία (inclinazione) tra svelare e nascondersi. Ciascuno ha un’inclinazione verso l’altro. Ma la cosa importante è che ciascuno dei due esiste in quanto esiste l’altro. Vi facevo l’esempio, un po’ banale ma giusto per intendere la questione, del significante e del significato. In effetti, il significante, finché non c’è il significato, non esiste, non significa niente; è significante, proprio nell’accezione grammaticale di participio presente di significato. Quindi, questa cosa che è significante, che è immanente, perché il significante lo sento, lo ascolto, esiste nel momento in cui significa e solo allora io posso dire, in effetti, di ascoltarlo, sennò non ascolto niente, è un rumore, un suono, un nulla. Occorre, quindi, che questa cosa che io sento dilegui in quanto tale, perché è nulla, nel significato; solo allora il significato fornisce al significante il suo essere significante, ma nel momento in cui il significante diventa effettivamente significante, il significato dilegua, non c’è più, perché io ho davanti solo il significante. “Davanti” nel senso che ascolto il significante, mentre il significato non lo sento, non è immanente; potremmo dire, filosoficamente, che è trascendente. A pag. 186. Il richiamo a φύσις, φιλία, άρμονίη ha ridotto un po’ l’indeterminatezza in cui da principio ci è apparso τό μή δνόν ποτε, il pur tuttavia mai tramontare. Con tutto ciò, difficilmente possiamo ulteriormente reprimere il desiderio che al posto dei discorsi, privi di riferimenti intuitivi e di una precisa collocazione, fatti finora su svelare e nascondersi possa subentrare una precisazione che ci permetta di vedere dove ciò di cui si parla trovi il suo posto. Con questa domanda, invero, noi arriviamo troppo tardi. Perché τό μή δνόν ποτε, per il pensiero delle origini, designa l’ambito di tutti gli ambiti. Ciò che non scompare mai, ma che è sempre presente. Si può intendere che sta parlando del linguaggio: ciò che è sempre presente, che non scompare mai, ma che nella sua presenza è un continuo scomparire. il linguaggio è fatto di questo: di una presenza che è tale perché dilegua, ma dileguandosi ritorna e dà alla presenza la sua presenzialità. Bisognerà aspettare fino a Hegel perché qualcuno si accorgesse di questo movimento, che lui chiamava dialettica. Esso è ciò in cui, nel senso di una contrada, risiede ogni possibile “dove” in quanto “avere un posto”. Come dire che non c’è un “posto” che sia fuori del linguaggio. Di conseguenza, l’ambito nel senso del μή δνόν ποτε, da punto di vista della sua vastità raccogliente, è unico. In esso vien su a cresce insieme tutto ciò che trova posto nell’evento del disvelare esperito in modo giusto. Esso è il concreto puro e semplice. Il concreto, vale a dire, il tutto. È il linguaggio, dove tutto accade. Questo nascondimento questo disvelarsi che si nasconde, è il modo in cui il linguaggio agisce. Non ne ha altri. Sulla base della nostra spiegazione, due sono le condizioni che ci permettono di sostituire τό άεί φύον (ciò che sempre sorge) e τό μή δνόν ποτε. Bisogna che pensiamo φύσις in base al nascondersi e che pensiamo a φύον in senso verbale. Invano cercheremo in Eraclito la parola άείφύον; il luogo di essa, troviamo però nel frammento 30 άείζωον, “continuamente vivente”. Il verbo “vivere” parla nel senso più ampio, più profondo ed estremo a partire da un significato che ancora Nietzsche pensa, in un appunto del 1885-86, là dove dice: “l’essere – non abbiamo altra rappresentazione di esso che “vivere”. Come può qualcosa di morto “essere”?”. Come dobbiamo intendere la nostra parola “vivere” se la vogliamo assumere come traduzione fedele del greco ζν? In ζν, ζάω parla la radice ζα. Certo non possiamo pretendere di scoprire come per magia, in questo suono, che cosa significhi “vivere” nel senso greco. Osserviamo tuttavia che la lingua greca, soprattutto nel linguaggio di Omero e di Pindaro, usa parole come ζάθεος, ζαμενής, ζάπυρος. La linguistica spiega che ζα- significa un rafforzamento; ζάθεος vuol dire perciò “molto divino”, “molto sacro”; ζαμενής “veemente” (che preme molto); ζάπυρος “molto ardente”. Ma questo “rafforzamento” non è un accrescimento meccanico né dinamico. Pindaro chiama ζάθεος luoghi e montagne, prati e rive di un fiume, e ciò quando vuol dire che gli dei, i risplendenti che guardano verso di noi, in quei luoghi si sono lasciati spesso e veramente vedere, vi sono stati presenti manifestandosi. Qui c’è un richiamo al mito. Questi luoghi sono particolarmente sacri perché sorgono esclusivamente nel lasciar apparire il risplendente. A pag. 188. Pure, ζωή e φύσις dicono lo stesso: άείζωον significa: άείφύον, significa: τό μή δνόν ποτε. Tutte queste cose significano lo stesso, cioè, ciò che permane sempre, ciò che non tramonta mai. La parola άείζωον nel frammento 30 segue a πρ, fuoco, non tanto come un aggettivo qualificativo quanto piuttosto come un nome nuovo che si introduce, per indicare come il fuoco debba essere pensato, e cioè come continuo sorgere. Ecco la questione del fuoco in Eraclito: l’idea del fuoco come un sorgere continuo, per indicare – tenete conto che stiamo parlando di ventisei secoli fa – ciò che sorge sempre. Lui vedeva la fiamma: ecco, la fiamma è ciò che sorge ininterrottamente. Tutto sommato, non è neanche una brutta metafora. Eraclito designa “ciò che né qualcuno degli dei né degli uomini ha pro-dotto”, ciò che invece già sempre, prima degli dei e degli uomini e per essi riposa in se stesso come φύσις, in sé permane e così preserva ogni venire. Questo però è il κόσμος. Noi diciamo “il mondo”, e lo pensiamo in maniera inadeguata fino a che ce lo rappresentiamo esclusivamente o anche solo in via principale secondo prospettive cosmologiche o di filosofia della natura. Κόσμος è il mondo, ma nell’accezione in cui lo pensa Heidegger, e cioè, quello che per Severino è il concreto, il tutto; il tutto entro il quale esistono, risplendono gli enti, cioè gli astratti. Perché gli enti, gli astratti risplendano occorre che ci sia il tutto. Il mondo è fuoco perdurante, perdurante sorgere secondo il senso più pieno di φύσις. Se si parla qui di un eterno bruciare del mondo non ci si dovrà immaginare che ci sia anzitutto un mondo per sé che inoltre sia in preda a un continuo incendio che imperversa in esso. Invece, il mondeggiare del mondo… Mondeggiare è uno dei neologismi di Heidegger. Il mondeggiare è nel senso dell’essere del mondo così com’è. τό πρ, τό άείζωον (il sempre vivente), τό μή δνόν ποτε (ciò che non si nasconde mai) sono la stessa cosa. Di conseguenza, l’essenza del fuoco che Eraclito pensa non è così immediatamente evidente come potrebbe farci credere l’immagine di una fiamma che divampa. Occorre solo che facciamo attenzione all’uso della lingua che adopera la parola fuoco sotto rispetti molteplici e fornisce così una indicazione circa la pienezza essenziale di ciò che si dà per via di allusione nel dire pensante della parola. /…/ Secondo un frammento scoperto da Karl Reinhardt in Ippolito, e abbastanza certamente autentico, τό πρ è per Eraclito nello stesso tempo τό φρόνιμον, il pensoso. A ognuno esso mostra la direzione, a ognuno presenta il luogo in cui questi ha il suo posto. Il pensoso presentante fuoco raccoglie tutto e lo alberga nella sua essenza. /…/ Τό πρ è ό Λόγος. È il linguaggio; è il linguaggio che sorge continuamente, non c’è altro che sorga continuamente. La sua pensosità è il cuore, cioè l’illuminante-aprente e albergante estensione del mondo. Nella molteplicità di nomi diversi, φύσις, πρ, λόγος, άρμονίη, πόλεμος (contesa), ρις (discordia), φιλία, ν (Uno), Eraclito pensa la pienezza essenziale del Medesimo. A pag. 189. Il Lichten, l’illuminare-aprire, così, è più che il semplice rischiarare, e anche più che dare libero spazio a qualcosa. L’illuminare-aprire è il pensoso-riunente pro-durre nella libertà dell’aperto, è concedere la presenza. Concedere la presenza non è altro che ciò che fa il linguaggio, è il linguaggio che “concede” la presenza, è il linguaggio che mi fa vedere le cose, che le fa esistere, è il linguaggio che mi mostra le cose. Ciò che vedo sono parole, sono discorsi, non sono cose. E anche le cose sono sempre parole, perché dietro a queste parole non c’è la cosa, dietro alle parole ci sono altre parole, né potrebbe essere altrimenti. L’evento dello “slargo” (Lichtung) è il mondo. /…/ “Come potrebbe dunque rimanere qualcuno nascosto?”, domanda la sentenza in riferimento al τό μή δνόν ποτε menzionato prima, che sta all’accusativo. Traducendo, noi lo mettiamo al dativo: “Come potrebbe qualcuno ad esso, cioè allo “slargo”, rimanere nascosto?”. Come potrebbe qualcuno rimanere nascosto al linguaggio? Come potrebbe essere fuori dal linguaggio? Il modo del porre la domanda respinge una tale possibilità senza una giustificazione. Questa dovrebbe dunque trovarsi già in ciò stesso che viene domandato. E siamo anche subito pronti ad addurla. Siccome il non mai tramontare, l’illuminare-aprire, vede e osserva tutto, nulla può nasconderglisi. Come fa qualcosa a nascondersi dal linguaggio se è il linguaggio che la produce? Solo che la sentenza non fa parola alcuna di un vedere e osservare. Ma soprattutto essa non dice πς ν τι “come potrebbe qualcosa…”, ma πς ν τις “come potrebbe qualcuno…?”. Lo “slargo”, secondo la sentenza, non è in rapporto con un essere presente qualunque. Chi è designato nel τις? Sembra naturale pensare all’uomo, tanto più che la domanda è posta da un mortale ed è rivolta a uomini. A pag. 191. Non è possibile giudicare fino a che punto e a quale livello di chiarezza il pensiero di Eraclito sia riuscito a intravedere, in modo anticipante, l’ambito di tutti gli ambiti. È il linguaggio che è l’ambito di tutti gli ambiti, che è l’ambito entro il quale qualunque cosa può accadere. Senza linguaggio non può accadere nulla. Che però la sentenza si muova nell’ambito dello “slargo” è cosa che non lascia adito a dubbi, solo che si consideri sempre più chiaramente quest’unico fatto: il principio e la fine della sentenza designano il disvelare e il nascondersi, e li designano nel loro rapporto. Nella loro relazione, che è inscindibile. Non occorre dunque nemmeno un richiamo specifico al frammento 50, in cui è nominato il disvelante-albergante riunire il quale si volge ai mortali in tal modo, che la loro essenza si dispiega proprio in questo, nel fatto di corrispondere o non al Λόγος. Il nascondimento e il disvelamento corrispondono al Λόγος, rispondono al Λόγος, nel senso che è nel Λόγος che tutto questo può accadere, che qualcosa si nasconda e si mostri. Fuori dal linguaggio nulla né si nasconde né si mostra. Noi crediamo troppo facilmente che il segreto del da-pensare sia ogni volta qualcosa di remoto, e giaccia profondamente celato sotto strati di occultamento difficilmente penetrabili. Eppure esso ha il suo luogo essenziale nella vicinanza che avvicina ogni essere presente che av-viene e che custodisce ciò che è avvicinato. Ciò che costituisce l’essere della vicinanza, per il nostro modo di rappresentazione abituale che si immerge tutto in ciò che è presente e nel suo impiego, è troppo vicino perché noi siamo in grado, senza una preparazione, di esperire e pensare in modo adeguato il vigere della vicinanza. Siamo troppo presi dalla volontà di dominare gli enti perché ci si possa accorgere della distanza che impone il linguaggio tra il λέγειν e il τί, tra il dire e ciò che il dire dice, tra il disvelarsi di qualcosa e il nascondersi, cioè, accorgersi che qualcosa si disvela nel momento in cui si nasconde; perché se il significante si nasconde nel significato, proprio per questo motivo e in quel momento il significante si disvela come significante. Probabilmente, il segreto che nel da-pensare ci chiama non è null’altro che quel che costituisce l’essere di ciò noi cerchiamo di suggerire con il termine “lo slargo”. Per questo, anche, il modo di pensare quotidiano passa sicuro e ottuso accanto al segreto senza notarlo. Eraclito lo sapeva. Il frammento 72 dice: “Quello verso cui, da esso continuamente portati, sono per lo più rivolti, il Λόγος, da quello essi si separano; e così appare dunque che ciò in cui quotidianamente si imbattono, questo rimane per essi (nella sua presenza) estraneo”. Gli umani non si accorgono del linguaggio. Chi mai si accorge del linguaggio? Che pure è la cosa più vicina, della quale sta vivendo. I mortali sono ininterrottamente rivolti verso il disvelante-celante riunire, che apre-illumina ogni presente nella sua presenza. In questo, però, essi si volgono via dallo “slargo” e si rivolgono soltanto alle cose presenti, nelle quali si imbattono immediatamente nel loro quotidiano commercio con tutte e ciascuna. Sta dicendo che gli umani si occupano dell’astratto, dell’ente, ma non si avvedono del concreto, non si avvedono del tutto, del linguaggio, che è invece la condizione perché l’ente si mostri; perdono, quindi, di vista completamente la condizione di ciò che incontrano e immaginano che l’ente sia quello che è per virtù propria, cioè, indipendente dal concreto, indipendente dal mondo, indipendente dal linguaggio. Quanto più diventa loro noto tutto il conoscibile, tanto più esso rimane loro estraneo, senza che possano saperlo. Essi diventerebbero attenti a tutto ciò solo se potessero domandare: come potrebbe mai qualcuno la cui essenza appartiene allo “slargo” sottrarsi all’accoglimento e alla custodia dello “slargo”? Come potrebbe egli fare una cosa simile, senza accorgersi immediatamente che le cose quotidiane possono essere per lui le più familiari soltanto perché questa familiarità dipende dall’oblio di ciò che, solo, porta nella luce di una cosa presente anche quello che sembra di per sé noto e conosciuto? Le cose note e conosciute mi appaiono perché sono nel linguaggio, perché c’è il tutto, c’è l’intero: è per questo motivo che possono apparirmi. Come diceva prima, è il tutto, è il concreto che illumina di volta in volta gli enti, che consente all’ente di essere illuminato, di essere portato alla presenza. L’opinare quotidiano cerca il vero nella molteplicità del sempre-nuovo che gli si dissemina davanti. Non vede lo splendore quieto (l’oro) del segreto che continuamente risplende nella semplicità dello “slargo”. /…/ Eraclito è chiamato ό Σκοτεινός. Anche per il futuro egli conserverà questo nome. Egli è l’Oscuro, perché pensa interrogando verso lo “slargo”. Cioè: pensa tenendo conto del linguaggio, anche se non lo cita parla però del Λόγος. Qui, naturalmente, si apre una questione importante rispetto alla volontà di potenza. È solo la volontà di potenza che ha la necessità di separare lo svelamento dal nascondimento. Lo svelamento, lo svelarsi, l’apparire della cosa, l’Uno, il bene. Il nascondimento è ciò che è condizione dell’Uno, ma diventa il male in questa separazione tra i due. La volontà di potenza ha bisogno di tenerli separati; solo così può affermare che le cose stanno in un certo modo; solo a questa condizione può pensare di avere determinato l’ente e, quindi, dominarlo. Hegel diceva di aver accolte tutte quante le proposizioni di Eraclito nella sua Logica. Perché? Perché Eraclito tiene costantemente presenti i due momenti, si accorge che questi due momenti sono simultanei, che non possono essere separati in nessun modo. Pensate a quello che diceva Platone un po’ di anni dopo: l’Uno è il bene, i molti sono il male, sono separati. Cos’è successo nel frattempo? È successo che gli eleati hanno mostrato l’impossibilità della volontà di potenza, cioè, il suo fallimento, per cui occorre correre ai ripari, sennò non si domina e, quindi, non si governa, non si persuade. La retorica, dicevamo l’altra volta, è fondata su queste cose, cioè sulla possibilità di credere, ma per credere, l’ente deve essere riconosciuto per quello che è, sennò come faccio a farlo credere? Gli eleati hanno mostrato l’impossibilità radicale della volontà di potenza, il suo fallimento in atto, il suo fallire continuo e inevitabile. Da Platone in poi si è cominciato a pensare che questo fallimento sia in qualche modo arginabile, e cioè che sia possibile dire come stanno le cose; per esempio, come nell’Eutidemo, dire che cos’è la virtù. Che cos’è? E di nuovo torniamo al problema dell’ente: o lo determino, e allora dico che l’ente è ciò che di fatto non è, perché le determinazioni che io ci metto non sono l’ente; oppure, non lo determino, e allora l’ente non è.