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22-6-2016

 

Eraclito, M. Heidegger. Siamo a pag. 212: L’uomo rivolto all’ente se non proprio caduto e sperduto nell’ente, si dimentica dell’essere, il quale tuttavia essendo assente gli si rivolge continuamente senza che egli gli presti attenzione (qui se uno volesse potrebbe trarre tutto il pensiero di Heidegger: l’uomo è in mezzo agli enti, in mezzo alle cose, il posacenere, l’accendino eccetera, però non tiene conto proprio perché sperduto in mezzo agli enti, non tiene conto di ciò che gli si rivolge continuamente, e ciò che gli si rivolge continuamente è il modo, il suo modo in cui si ritrova in mezzo agli enti cioè il suo progetto, per cui gli enti sono quello che sono, si dimentica del proprio progetto, e allora in che modo si rivolge all’ente senza saperne nulla di ciò che sta accadendo? Ed è il modo in cui gli umani generalmente vivono, cioè si arrabattano in mezzo agli enti senza sapere nulla dell’essere, cioè del loro progetto che fa essere quegli enti quello che in quel momento sono per loro. Infatti dice): L’uomo è in un rapporto discordante con l’ente e con l’essere, (cioè l’uomo non accorda l’ente all’essere, non accorda l’ente, ciò che ha di fronte, con il suo progetto, è come se li tenesse disgiunti perché si è dimenticato dell’essere, cioè del suo progetto. Tenete sempre conto che l’essere, per Heidegger, è il progetto, il progetto gettato, è il Dasein, è l’esserci in ciò che si sta facendo) Forse però è avventato parlare di una discordanza dal momento che questo termine lascia facilmente intuire che qui vi sia una mancanza di accordo. Forse ci esprimiamo più cautamente se invece di discordanza diciamo semplicemente “duplicità”, duplicità è ciò che fa sussistere una dualità, pensando in questo modo la duplicità, noi non cerchiamo di rappresentarci la dualità come una discordanza e una contrapposizione, per poi pensare questa contrapposizione come una contraddizione superandola infine in una unità più alta, (che sarebbe la sintesi) questa posizione dell’essere umano presuppone un’insolita collocazione la quale deve essere un luogo che l’uomo non trova facilmente, per cui egli deve mettersi in cammino per cercare se stesso, per andare alla ricerca del luogo nel quale egli ha la sua dimora in modo conforme alla sua essenza (evoca un testo famoso di Heidegger In cammino verso il linguaggio, o in cammino verso il Λόγος, cioè in cammino verso l’essere, in cammino verso il suo progetto). Una volta che l’uomo ha trovato il luogo della sua dimora discordante e duplice all’interno dell’ente, solo allora a partire da questo luogo l’uomo può scorgere che per lui è necessario prestare ascolto al Λόγος e vedere in che senso ciò possa avvenire (cioè l’uomo deve trovare la sua dimora, dove dimora l’uomo se non, l’ha detto mille volte, nel Λόγος? E cioè l’essere, ma l’essere in quanto ciò che raccoglie tutto ciò che l’essere mostra. Questo è il suo progetto, questo è il pensiero di Heidegger) Ma nello stesso tempo vale anche il contrario, solo quando il Λόγος è divenuto percepibile, l’uomo può trovare il suo luogo essenziale (sta dicendo che da una parte l’uomo deve cercare l’essere, cioè il suo progetto per potere dare un senso all’ente, ma d’altra parte occorre il Λόγος perché l’uomo possa iniziare questo cammino, e cioè deve esserci l’essere, deve già essere nel progetto per potere incamminarsi verso il progetto. Se ci rifacciamo a ciò che dicevamo l’altra volta e anche alle volte precedenti pensando all’essere come al significato e all’ente come il significante, è ovvio che per rivolgersi all’ente deve già avere un significato, ma per rivolgersi al significato cioè all’essere occorre l’ente) Il luogo essenziale dell’uomo si trova all’interno della regione delimitata dal Λόγος /…/ Dire seguendo il frammento 45 che l’anima dell’uomo ha un λόγος orientato verso una vasta apertura e dire, secondo il detto 72, che gli uomini sono per lo più ininterrottamente rivolti al Λόγος, significa esprimere la stessa cosa e delineare il luogo in cui può entrare quel distendersi che è al tempo stesso un accogliere (l’anima) poiché l’anima dell’uomo ha un λόγος che rimanda verso una vasta apertura e che è orientato verso di essa, e poiché questo λόγος, come mostra la necessità dell’μολογεν, rimanda al Λόγος e in esso rimane conservato e fondato, ecco allora che noi potremo esperire, conoscere e portare a compimento l’essenza del λόγος umano, solo nella misura in cui il Λόγος stesso è effettivamente presente e noi prestiamo docile attenzione a esso. (qui dice una cosa interessante e cioè che il λόγος, adesso lo sostituisco con discorso perché lui intende così il λόγος umano, poiché il discorso è orientato comunque verso il Λόγος, cioè l’essere, rimanda continuamente al Λόγος, all’essere, come dire che il discorso ha sempre come riferimento l’essere, cioè il progetto di ciascuno, il discorso di ciascuno ha un significato ovviamente, questo significato è il progetto in cui il discorso è inserito. È come dire ancora che se il discorso di ciascuno necessita di essere rivolto al Λόγος, all’essere cioè al significato, quindi al progetto di ciascuno, e se il progetto di ciascuno non è altro, come diceva Nietzsche e poi Heidegger ha ripreso, la volontà di potenza, allora qualunque discorso si rivolge al Λόγος, si rivolge all’essere cioè si rivolge alla volontà di potenza perché questo è il significato, il che comporta un corollario e cioè che il progetto di cui parla Heidegger, il progetto gettato, il Dasein, l’esserci non è nient’altro che la volontà di potenza. Questo non è poco da tenere in considerazione, anche se Heidegger non giunge mai a dire una cosa del genere, anche se nel suo scritto su Nietzsche in effetti traluce una cosa del genere, traspare ché il progetto dell’uomo è la volontà di potenza, il suo fine è la volontà di potenza. Il che comporta però un problema e cioè che il progetto dell’uomo, il suo Dasein, il suo esserci, il suo essere autentico è la tecnica, perché la tecnica è la volontà di potenza o la volontà di potenza è la tecnica, quindi come domandare ancora rispetto a una cosa del genere? Che ci porta a considerare che il progetto più autentico dell’uomo, quello di cui parla Heidegger, quello più lontano dalla chiacchiera, dalla sciocchezza in effetti ci conduce a pensare che non sia altro che il raggiungimento, lo scopo finale, lo scopo della tecnica. È questo dunque il progetto, l’unico progetto pensabile per l’uomo? La tecnica costruisce strumenti in vista di scopi, ma considera una qualunque cosa come Gestell cioè come un dispositivo, uno strumento che viene costruito per fare qualche cos’altro, come dire ancora che il progetto dell’uomo sarebbe questo, sarebbe porre a questo punto il progetto stesso come Gestell, come dispositivo per il super potenziamento e per la volontà di potenza. Perché tutto questo? Apriamo una parentesi: ciascuna volta in cui si afferma qualche cosa, si propone una tesi, si avanza un asserto di qualunque tipo ciò che si stabilisce è un mito, un racconto, μύθος: racconto, però μύθος è anche un racconto particolare, un racconto religioso nel senso che tenta di dare una risposta a una domanda in modo che la domanda cessi di interrogare. Questo fa il mito. Ora se qualunque affermazione è un racconto, cioè un mito, in questa accezione cioè come risposta religiosa alla domanda, allora per uscire dal mito occorre che questa risposta alla domanda non chiuda la domanda ma rilanci la domanda, come dire ancora che per evitare che una qualunque affermazione si configuri come un mito è necessario che questa risposta non sia altro che un altro domandare. Solo a questo punto evita questo impiccio, questo intoppo dell’essere un mito cioè un racconto religioso intento a chiudere la domanda. Naturalmente è una cosa che non può evitarsi, nel senso che qualunque affermazione, qualunque enunciato, qualunque asserto si pone come una chiusura, nel senso che risponde a una domanda “che cos’è questo?” “questo è questo”, nella forma più semplice. Tutto il pensiero da quando esiste in pratica salvo forse, ma è tutto da vedere, il pensiero pre socratico, pre metafisico tutto il pensiero comunque ha sempre funzionato così, come la ricerca della risposta che chiuda la domanda, che soddisfa la domanda, dalla filosofia fino alla tecnica. Giustamente Sini diceva che la filosofia è finita non perché non ci sia più da dire ma perché ha trovato il suo compimento nella tecnica, e cioè in qualche cosa che soddisfa la domanda, continuamente, creando altre domande per soddisfarle. Non per continuare a interrogarle ma per soddisfarle. La questione è complicata. È ovvio che la risposta alla domanda letteralmente sposta, cioè sposta altrove e quindi la domanda si trova sempre dislocata su un altro versante, su un’altra cosa, però non può evitarsi né l’una cosa né l’altra: non può evitarsi né di rispondere alla domanda né che la risposta sia un ri-spostare la questione. Evitare di trovarsi nel mito, cioè nella struttura religiosa, per evitare questo, e questa è l’indicazione di Heidegger, occorre continuare a domandare, è qui che la questione si biforca fra il pensiero e la tecnica. La tecnica chiude, nel senso che ciascuna volta dà per acquisito il fatto che a quella domanda è stata data una risposta e quindi si muove su un’altra domanda, non continua a interrogare la stessa, ma si muove su un’altra questione risolvendola, mentre il pensiero continua a domandare, cioè continua a chiedersi “che cos’è?”, che certo è una domanda metafisica, quindi è la domanda del pensiero né più né meno. A questo punto ci troviamo di fronte a una situazione bizzarra, quella che ci dice che da una parte dobbiamo necessariamente rispondere alla domanda e al tempo stesso non possiamo non porre la domanda, così di fatto è il funzionamento del linguaggio. Quando Heidegger ci parla del discorso e dell’essere dicendoci che qualunque discorso trae il suo significato unicamente rivolgendosi all’essere, cioè il progetto in cui questo discorso si situa, sta anche dicendo che qualunque discorso cioè qualunque risposta a una domanda, anche questa trae il suo significato dal progetto in cui è situata vale a dire dalla volontà di potenza, cioè dalla necessità del superpotenziamento. Per lo stesso Nietzsche la volontà di potenza è il super potenziamento, nel senso che se si arresta la volontà di potenza diventa depotenziamento, quindi non può fermarsi, di conseguenza deve necessariamente essere un super potenziamento, incessantemente. Ora come affrontare in modo proficuo questa questione?) Il progetto dell’uomo è il super potenziamento (volontà di potenza, cioè la tecnica e, posta in questi termini, pare essere una via senza uscita, cioè a questo punto il super potenziamento cioè la volontà di potenza è il fine stesso di qualunque discorso, di qualunque cosa si dica, questo ci dice ancora una volta che non c’è uscita da questa struttura. Potremmo a questo punto azzardare, ma si tratterà poi di articolare bene, che il linguaggio stesso è volontà di potenza, ma se il linguaggio è effettivamente volontà di potenza allora ancora una volta l’unica cosa che è possibile agli umani è saperlo. Mano a mano che procediamo anche in questo percorso che stiamo facendo in effetti mano a mano che procediamo asseriamo delle cose, a che scopo? Solo per soddisfare il super potenziamento di cui siamo fatti? Parrebbe. A questo punto parrebbe che ciò che diceva Nietzsche in effetti sia inevitabile, il super potenziamento, la volontà di potenza si avvalgono di che cosa per procedere? Della verità, la quale verità è un’illusione, un inganno, ma in che senso un’illusione? Nel senso che ciascun asserto, come dicevo prima, è un mito, un racconto che dovrebbe dare una risposta che soddisfi la domanda, cosa che non può fare chiaramente, questa “risposta”, come dice la parola stessa in questo caso è una “ri sposta” cioè sposta ancora, sposta di nuovo quindi qualunque risposta si accolga è comunque uno spostare ulteriore verso altro, che quindi non soddisferà la domanda, la quale dovrebbe essere soddisfatta non da uno spostamento ma da qualcosa che si appunta sulla domanda e rimanendo sulla domanda dice che la domanda è quella cosa lì, e quindi risponde alla domanda, soddisfa la domanda. Cosa che proprio perché si è linguaggio non si può fare. Husserl se ne era accorto, non c’è, non si riesce ad andare alle cose stesse se esiste il linguaggio, il problema è che se non ci fosse il linguaggio non si potrebbe neanche pensare la cosa stessa. Tutto il discorso che fa Heidegger intorno al Λόγος in effetti continua a dire questo: ci si trova in una dualità che è quella dualità che De Saussure aveva colto rispetto al segno, una dualità bizzarra per cui un elemento per essere quello che è, deve spostarsi sull’altro, il quale per essere quello che è deve spostarsi sul primo. Ecco la volontà di potenza, dire che il linguaggio è volontà di potenza che cosa comporta ancora? Che ogni mossa messa in atto dalla volontà di potenza, non può che vertere su ciò che mina la volontà di potenza, che non è tanto l’arrestarsi su qualche cosa, anche, ma soprattutto sul fatto che qualunque cosa la volontà di potenza istituisca, stabilisca, ciò che stabilisce si sposta, nel momento stesso in cui lo stabilisce, su qualche cos’altro quindi non è più stabilito. Questo è un altro modo per dire che il linguaggio cioè la volontà di potenza a questo punto, o meglio che la volontà di potenza, e la sua “ragione d’essere” tra virgolette, sta nella struttura del linguaggio, la volontà di potenza è la necessità di stabilire qualche cosa in modo da potere controllarla, in modo da poterla gestire. Ciò che impedisce il controllo, la gestione, è il fatto che ciascuna cosa per essere quella che è è in debito verso un’altra, e che quindi la volontà di potenza si ritrova esattamente a fare quello che fa il linguaggio: per potere proseguire istituisce, ferma qualche cosa ma per fermarlo necessita di un'altra cosa, questa è “la maledizione” tra virgolette del linguaggio, ma è anche la sua fortuna perché è ciò che gli consente di funzionare nel modo in cui funziona e consente a me in questo istante di dire le cose che sto dicendo, per esempio, insieme con infinite altre cose che gli umani hanno fatto, detto, pensato negli ultimi migliaia di anni. A questo punto è come se, e qui riprendiamo Heidegger, il linguaggio imponesse qualche cosa negandola, cioè il Λόγος garantisce il λόγος umano negandosi, perché il significato per potere consentire al significante di esistere deve sottrarsi, perché altrimenti il significante sarebbe anche significato, sarebbe le due cose simultaneamente senza la barra, cioè sarebbero la stessa cosa. Pag. 215): Ma in che modo noi dovremo preparare l’μολογεν inteso come autentico rapporto del λόγος umano con il Λόγος? La preparazione implica di per sé due cose, in primo luogo ci si deve preparare per quella forma tutta particolare di λγειν delineato come μολογεν (vi ricordate la descrizione che fa Heidegger di questa parola antica “μολογεν”, cioè riunire il medesimo, riunire lo stesso ciò che si mostra come lo stesso, dunque): deve essere preparato in secondo luogo questo stesso λγειν proprio in quanto λόγος per la presenza del Λόγος (quindi lo stesso λγειν, lo stesso raccogliere che non è altro che il λόγος umano, ma questo riunire, questo preparare qualche cosa non potrebbe darsi in assenza del Λόγος cioè in assenza dell’essere, in assenza del significato, in assenza del progetto in cui il λόγος umano si manifesta) Ma questa preparazione sarà completamente vana finchè non è chiaro in che modo la presenza, la venuta e la modalità dell’appello del Λόγος si caratterizza. L’impegno prevalente e principale del preparare l’μολογεν deve quindi cercare di sapere quel che è opportuno sapere sulla presenza del Λόγος, beh e questo vuol dire conoscere la regione dalla quale esso muove e nella quale esso viene incontro al λόγος umano, perciò il pensiero dell’uomo, se a questo proposito non vuole irrigidirsi ciecamente e ostinatamente su un’opinione del tutto isolata e parziale, deve esaminare fino in fondo tutto quello che l’esperienza umana e la tradizione offrono e che si presenta sotto forma di rapporto, come quel rapporto con il Λόγος che ha la forma del λόγος. (ci sta dicendo se non si vuole vivere nella chiacchiera e nell’oblio del proprio pensiero occorre tenere conto del Λόγος cioè dell’essere, del significato che ha comportato e che è esistito da sempre, se isoliamo un elemento linguistico dal suo contesto, adesso per fare un esempio: questo elemento linguistico non significa più niente, non ci dice niente, non significa niente, quindi deve essere inserito nel contesto ma qual è il contesto? Quello del λόγος umano? No, quello del Λόγος in quanto essere, cioè un significato che è sì, il progetto dell’uomo ma questo progetto dell’uomo non è soltanto il progetto di un uomo in particolare ma è il progetto dell’uomo da quando esiste, è un significato che si è costruito nel corso della storia dell’uomo e di questo dobbiamo tenere conto se vogliamo intendere autenticamente ciò che stiamo dicendo. È per questo che Heidegger va a cercare quale fosse il significato autentico di certe parole greche che si mantengono ancora oggi ma hanno perso il loro significato, cioè sono state estrapolate dal Λόγος cioè dall’essere, quindi dal significato, dal progetto che riguarda il pensiero nel suo compimento, nel suo svolgersi da sempre, e allora recupera la parola antica per tentare in questo modo di reinserire questa parola all’interno di un progetto perché fuori da questo progetto questa parola, rischia, come dice lui, una volta estrapolata di irrigidirsi ciecamente, ostinatamente su un’opinione del tutto isolata e parziale. Questo rapporto tra λόγος umano e Λόγος per Heidegger è fondamentale, è l’unico modo che ha il discorso di rapportarsi con il progetto, se si taglia questo rapporto tra λόγος umano e il Λόγος non si intende più nulla cioè si vive di preconcetti, di pregiudizi, di chiacchiera per farla breve, per dirla ancora in un altro modo si interrompe l’interrogazione: il λόγος umano senza il Λόγος in quanto manifestazione dell’essere è la tecnica, ora come si concilia questo con ciò che dicevamo prima? Dicevamo che il linguaggio è la volontà di potenza, cioè la tecnica, adesso stiamo dicendo che il λόγος umano che non tiene conto del Λόγος in quanto essere è la tecnica. Questi due discorsi che abbiamo fatti appaiono contraddittori, ma non lo sono. Si tratta del fatto che mantenere il rapporto del λόγος umano col Λόγος in quanto essere, mantiene aperta la domanda e cioè impedisce che il λόγος umano si costituisca religiosamente come la risposta al domandare chiudendolo) Pag. 216: (è Eraclito che parla, la traduzione che fa Heidegger del testo di Eraclito) Di tutti i molti λγοι (discorsi) che io ho già ascoltato nessuno arriva al punto di riconoscere che quel che veramente va saputo dispiega la propria essenza nel rapporto con ogni ente a partire dalla propria regione. (qui è Heidegger che parla) Dal contenuto, piuttosto generico e impreciso di questo detto, emerge che Eraclito arriva a determinare la caratteristica peculiare di ciò che deve essere autenticamente saputo ma ciò il cui vero sapere si riunisce è secondo il frammento 50 O Λόγος, (il Λόγος, cioè il vero sapere si riunisce nel Λόγος cioè nell’essere, nel significato dell’esserci. Secondo Heidegger era questo che Eraclito voleva dire cioè quando diceva “non me dovete sentire, non il mio λόγος ma il Λόγος dovete ascoltare e cioè il significato in cui questo dire, questo racconto è inserito. Precedendo di qualche migliaia di anni la semiotica) il quale Λόγος secondo lo stesso detto unifica tutto originariamente in quanto è l’uno, (è il segno) di esso ora si dice che πντων κεχωρισμνον (ciò che separa, il separare) che viene tradotto con “quel che si farà da tutti” di esso (l’uno, il segno, il segno diventa a questo punto ciò che è separato da tutti, adesso vediamo in che senso) oppure la traduzione: quel che è distinto da tutti, come se non bastasse il traduttore definisce il κεχωρισμνον con la mediazione del latino “ab solutum” e lo traduce con “separato” nel senso da ciò che è staccato e sciolto da tutto il resto. (ab solutum, solutum- sciolto ab – da) nel senso di moto da luogo cioè come qualcosa che viene da una cosa e va verso un’altra, come dicevano gli antichi romani “ab urbe condita” cioè dalla fondazione di Roma, da quel momento in poi) Il Λόγος che Eraclito nomina è quindi l’assoluto, con questo termine la metafisica intende l’ente supremo che esiste per sé stesso, il fondamento e la causa prima di ogni altro ente. Fin dai tempi dell’interpretazione cristiana della metafisica ancora operante nell’Anticristo di Nietzsche, anche se solo in forma derivata che procede in senso contrario, l’assoluto è fatto equivalere a dio creatore del mondo. Questo “assoluto” pensato in modo cristiano viene interpretato teologicamente e dogmaticamente vale a dire trinitariamente come unità di tre persone: padre, figlio, spirito santo. Secondo il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, la seconda persona della divinità è il Λόγος del quale è detto “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso dio, il Verbo era dio, il Verbo era in principio verso dio, tutto è stato fatto per mezzo del Verbo di dio e senza del Verbo di dio niente è stato fatto di tutto ciò che è fatto”. A noi ora non interessa tanto il fatto che qui il λόγος è inteso come Verbum e parola, dove non possiamo dimenticare che questa Parola è la seconda persona della divinità e che la Parola si è poi fatta uomo come dio redentore, noi non seguiamo neppure la posizione moderna espressa nel Faust di Goethe che contrapponendosi a queste affermazioni iniziali del Vangelo di Giovanni sostiene che in principio non era la Parola ma l’Atto. (poi Verdiglione li coniuga dicendo che la Parola è l’Atto di parola, che è abbastanza legittimo) A noi interessa soltanto il fatto che qui il Λόγος viene a coincidere con la causa prima e suprema di tutto ciò che è stato causato e creato e che questo ente supremo il Λόγος si manifesta nella metafisica sotto forma di “assoluto”, in modo conforme alle molte interpretazioni dell’ “assoluto” anche il Λόγος viene poi interpretato come parola, come la ragione universale, come il senso del mondo, come legge del mondo ed infine come spirito assoluto. Se consideriamo che nel corso dei secoli questa equivalenza di Λόγος e di “assoluto” si è consolidata nella forma della metafisica, non stupisce che nel detto di Eraclito venga citato il termine greco κεχωρισμνον che si è interpretato come l’assoluto. (ciò che crea quindi ciò che l’increato che crea qualche cosa, che poi è stata l’idea del Λόγος nella cristianità, Λόγος come parola di dio, dio crea attraverso la parola “curiosamente” non è che pensa soltanto, dice la parola e dicendo la parola avviene il fenomeno. È chiaro che in tutta questa tradizione cristiana c’è quella terribile contraddizione che ha mostrato Severino e che è presente anche in Heidegger, come abbiamo visto in varie occasioni, la cosa interessante è che il principio fondamentale del cristianesimo sia la creazione, “creatio ex nihilo” “la creazione dal nulla” quindi qualche cosa viene dal nulla e torna al nulla, quindi ciò che è adesso prima era nulla e dopo diventerà nulla. Come dire che ciò che è può essere tanto l’essente quanto il nulla, perché prima quella cosa non c’era quindi era nulla, quindi l’essente è il nulla. Che è la follia per Severino. Questa contraddizione in effetti pone un’obiezione a tutta la posizione di Heidegger rispetto all’essere, tutt’altro che semplice da affrontare però adesso per dirla in modo spiccio l’essere inteso come lo intende Heidegger, come Dasein, come esserci cioè come progetto gettato, è ciò che si manifesta, ciò che interviene ma al tempo stesso si sottrae al momento in cui appare l’ente perché sappiamo che c’è una differenza ontologica tra l’essere e l’ente, se c’è l’ente non c’è l’essere, se c’è l’essere non c’è l’ente, è un qualche cosa che c’è ma al tempo stesso può anche non essere, se c’è il significante non c’è il significato nel senso che il significante non è il significato. C’è una relazione indissolubile fra i due ma l’uno non è l’altro, il significante non è il significato, ha un significato ma non lo è, perché altrimenti ci sarebbe l’incollamento fra le due cose e il segno crollerebbe. Ora questa obiezione di Severino come si rapporta rispetto alla questione del segno? Sarebbe interessante perché la sua obiezione in effetti è un’obiezione al segno nel senso che un qualche cosa può esserci ma anche non esserci, se c’è il significante non può non esserci anche il significato se il significato è qualche cosa. Severino risolve il problema attraverso gli Eterni che possono apparire e poi scompaiono ma scompaiono all’interno di un qualche cosa, che poi non è così lontano da quello che diceva Heidegger, solo che per Heidegger questo essere che scompare davanti all’ente non c’è più mentre c’è l’ente, mentre per Severino continua a esserci, continua a essere in quanto “Eterno”. Probabilmente è risolvibile la questione per Severino, lui dopo tutto rifacendosi al principio primo dice soltanto che un elemento è quello che è e non è altro da sé, e quindi in effetti non c’è una contraddizione propriamente neanche tra Severino e Heidegger anzi, appare una forte convergenza: per Severino l’essere è un Eterno, per Heidegger no. Scusate se questo mio dire questa sera è un po’ frammentario però è una questione molto complicata. Se tenete conto delle prime cose che ho dette questa sera, intorno al significato e al Λόγος, se in ciascun discorso, ciascuna parola non può intendersi, come ci sta dicendo continuamente Heidegger, se non presa all’interno del suo progetto e questo progetto è il significato di quella parola, è ovvio che ogni parola, ogni discorso per potere essere inteso in modo autentico deve essere ricondotto al progetto che l’ha prodotto. Il richiamo a Freud appare immediato: ciascun discorso che una persona si trova a fare è connesso con le sue fantasie. Queste fantasie sono il suo progetto? Potremmo anche dire di sì, ma in ogni caso queste fantasie, questo progetto, vertono sempre in un’unica direzione, hanno un unico verso, potremmo dire che sono universali e cioè ci indirizzano verso la volontà di potenza, verso il super potenziamento, quindi verso la tecnica, e la tecnica è super potenziamento. Tutto questo per giungere a dire che il linguaggio è tecnica, è volontà di potenza perché questa è la sua struttura. Tenendo conto di tutto ciò che stiamo dicendo, che le considerazioni intorno al linguaggio in quanto volontà di potenza sono costruite da quella stessa volontà di potenza di cui è fatto il linguaggio, parrebbe che il λόγος umano si rivolga al Λόγος ma questo Λόγος non può darsi senza il λόγος umano. E la volontà di potenza che cosa fa se non distruggere a ogni passo che fa quello che ha già raggiunto, perché non può fermarsi, quindi raggiunge una cosa ma deve abbandonarla per un’altra se no si auto depotenzia. In questo senso la tecnica distrugge se stessa, cioè è destinata alla distruzione continua, man mano che crea distrugge, distrugge tutto ciò che ha prodotto precedentemente per potere proseguire perché, come diceva giustamente Nietzsche, ogni arresto è un de potenziamento immediato. Quindi il cellulare che viene prodotto dalla Samsung nel momento in cui esce dalla produzione è già un depotenziamento, quindi deve essere già distrutto a vantaggio del successivo, è inevitabile.