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22 maggio 2024

 

Plotino Enneadi

 

Questa sera volevo darvi un’idea dell’incidenza del neoplatonismo nel pensiero contemporaneo e per questo motivo volevo leggervi una brevissima cosa di Vittorio Mathieu, che ha insegnato qui a Torino per qualche anno. È una presentazione del professor Werner Beierwaltes, filosofo tedesco, uno studioso di Plotino. Infatti, dovremmo leggere più avanti Identità e differenza di Beierwaltes, che è un po’ il percorso del neoplatonismo nella filosofia dalle origini fino ad oggi, oltre, soprattutto, al testo su Agostino e il neoplatonismo cristiano, che ci interesserà ancora di più. Dunque, Vittorio Mathieu in questa presentazione di una conferenza di Beierwaltes dice: Beierwaltes ordinario nell’università di Monaco di Baviera, uno tra i più noti studiosi della filosofia neoplatonica di Plotino, in particolare. Sotto la parola neoplatonismo corrono molte dottrine disparate, tutta un’intera tradizione, ma il professor Beierwaltes ha enucleato la dottrina essenziale originaria del neoplatonismo e su questo ha pubblicato alcune opere. Mostrerò come oggi la filosofia di Plotino sia particolarmente importante oggi, e non solo oggi, in realtà si può dire dal ‘600, ma oggi è ritornato questo problema, cioè, per la filosofia il problema della propria identità scientifica, della propria identità culturale, essendo sorta una scienza sperimentale della natura che fruisce senza dubbio rispetto alla filosofia di certi vantaggi. Un’antica tradizione, per esempio, induce a parlare ancora oggi in Inghilterra di filosofia naturale o filosofia della natura per indicare cattedre di filosofia, a volte addirittura di fisica sperimentale. Ma è chiaro che se la filosofia fosse questo ci sarebbe destinata ad essere sostituita prima o poi dalla scienza, cioè, continuerebbe ad occuparsi soltanto di quei problemi che la scienza non è giunta ancora ad aggredire con i suoi metodi sperimentali. Questi, intendiamoci bene, oggi sono in grandissima crisi teoretica. La funzione della ragione nella scienza è stata contestata, però, con tutto ciò è chiaro che la scienza fruisce di una capacità di indagine progressiva di risultati acquisiti, non per sempre, nel senso di essere immodificabili, ma di essere modificati soltanto perché ricollocati in una visione più ampia, più approfondita, più precisa, che, tuttavia, in qualche modo rimangono validi, come rimane valida la meccanica di Galilei e dopo la meccanica di Einstein, e così via. Questo in filosofia non accade, i filosofi si sono spesso domandati “che ci stiamo a fare? Siamo degli scienziati mancati? Ci occupiamo solo di quegli argomenti di cui lo scienziato non si è ancora impadronito o abbiamo una nostra ragione d’essere intrinseca? Questa ragione d’essere c’è e non riguarda l’oggetto conoscibile nella sua estensione, riguarda il modo di conoscere qualsiasi oggetto. Non ci sono oggetti della scienza da una parte e oggetti della filosofia dell’altra, ma un diverso modo di conoscere e di affrontare il problema, e questa diversità si può mettere in evidenza proprio facendo leva sul concetto di uno, un concetto tradizionale nella storia del platonismo da Parmenide in poi, ma un concetto che non ha perso oggi nulla della sua importanza, per la seguente ragione: come fa la scienza a studiare i propri oggetti, a sperimentare sulla realtà? La scienza verifica o falsifica, come volete, comunque controlla le proprie affermazioni sulla realtà mediante operazioni; possono essere operazioni mentali, possono essere operazioni fisiche, sono in ogni caso operazioni da noi progettate e applicate all’oggetto da conoscere. Ora, il nostro modo di operare non ha intrinsecamente se non una possibilità, quella di accostare o di scostare elementi, che provvisoriamente rimangono invariabili. È, se si vuole, l’interpretazione che già gli antichi atomisti davano di tutta la realtà essere modellata sul modo in cui noi possiamo operare su una realtà; non possiamo crearla possiamo solo trasformarla, e questa trasformazione, o direttamente o più spesso indirettamente, si riduce a un comporre e scomporre. Allora, quando si parla dell’uno, dell’uno in senso forte, cioè, dell’uno come individuo, come indivisibile, questo modo di aggredire la realtà non gioca più, perché l’uno definito così è precisamente ciò che non si può comporre e non si può scomporre, ciò che non è il risultato di una composizione… Vedete qui la distanza infinita da Aristotele. Leggeremo poi il brano di Aristotele dove confuta. …e che non può essere, quindi, interpretato attraverso i metodi della scienza. Questo non lo diciamo noi oggi, lo sapeva già Vico nel De antiquissima sapientia, laddove si fermava su questo problema degli indivisibili e osservava con grande pertinenza che la scienza è in grado di affrontare della realtà soltanto un aspetto e dava anche un’immagine metaforica, molto calzante, di questa situazione, dicendo che la scienza galileiana studia come una superficie rispetto al corpo. Dunque, rimane precisamente quell’aspetto che fra tutti forse i filosofi mai comparsi sulla faccia della terra, Plotino ha messo in evidenza con la massima efficacia, cioè, precisamente l’aspetto dell’unità dell’uno, non come composto bensì dell’uno come impronta, come impronta della stessa unità originaria, in quanto si specifica senza dividersi al livello del νούς A livello dell’intelletto. …tutte le determinazioni concrete della realtà non sono altro che il punto d’arrivo di un movimento, di un movimento in questo caso non preordinato, non deliberato, ma di un movimento metafisico, diciamo automatico che, partendo dall’intelletto, si cala attraverso l’anima nelle cose e la determina, per cui dice Plotino: la nostra anima viene di lì e di lì proviene la nostra unità non componibile; noi siamo individui, cioè, siamo una unità non componibile e non scomponibile; e questo si dice comunemente dicendo che abbiamo un’anima. Ora, la nostra anima è per Plotino non una parte dell’intelletto, bensì una prospezione particolare dell’intelletto… Cioè, un modo particolare di vederlo. Ma dice Plotino, anche il nostro naso, anche il nostro volto, tutto ciò che abbiamo di determinato di specifico nel senso di species, tutto questo ha un’origine non meccanica, deriva soltanto per un aspetto da un’origine meccanica; in fondo, il mio corpo è un insieme di molecole che si sono unite insieme e questo è l’aspetto che studia la scienza, ma non potrei spiegare tutti gli aspetti della mia realtà vivente se non tenessi conto di quell’origine non meccanica bensì unitaria dell’individualità specifica… Questa impronta è il sigillo, diciamo così, che indirettamente l’uno pone sulle cose, ed è precisamente, a mio parere, l’aspetto che la scienza non può aggredire, non perché trovi dei limiti quantitativi ma perché se trova dei limiti qualitativi, cioè perché il suo stesso modo di procedere di sperimentare non è adatto a mettere in luce questo aspetto della realtà, che è completamente con l’altro. In generale, in tutta la realtà c’è questa impronta dell’uno che, peraltro, è impressa in che cosa? In una materia dispersa, estesa, diffusa; quindi, non c’è mai questa unità assoluta, c’è sempre una unità caduta nella dispersione. Perché l’unità rimane in ciascun individuo, l’unità indivisibile e, quindi, totale e rimane l’unità negli altri individui che entra in contrasto con la prima? Di qui quella strana ma molto profonda teoria plotiniana della provvidenza, di una provvidenza tragica, in cui non c’è affatto tutto va bene, c’è un ordinamento ma non è altro che un ordinamento non pianificato, non deliberato, ma in qualche modo automatico, che deriva dal fatto che tutta la realtà ha questa origine unitaria, che, quindi, bisogna presupporre. Infatti, si parla di ipostasi. Di qui, poi, anche la teoria schopenhaueriana dell’inevitabile contrasto tra le individuazioni dell’indivisibile volontà. Questo per mostrare come queste antiche teorie siano rivissute, spesso inconsapevolmente, da filosofi moderni, come Schopenhauer. Il caso di Bergson è analogo, con la differenza che Bergson si accorse a un certo momento che stava quasi ripetendo alla lettera delle dottrine plotiniane. Ecco perché, conclude, questi studi di del professor Beierwaltes non sono studi semplicemente eruditi, cioè che mirino a chiarire la dottrina, ecc., ma in particolare della tradizione antica originaria, alla quale ancora oggi è in grado di chiarire di determinare questi concetti altrettanto bene, forse meglio di quel che si possa fare oggi rispetto a una situazione apparentemente così mutata. Questo accadeva nel 1989, allora si pensava e si pensa ancora oggi che, dopotutto, il platonismo abbia ancora tantissimo da dire e che sia, in fondo, il modo più appropriato di approcciare la realtà. Ora, ecco qui Beierwaltes, proprio le ultime proposizioni, quando se la prende con Heidegger. Dice: Quali altri sviluppi avrebbe avuto il tentativo di ripensare l’essere nella sua differenza rispetto all’ente, se il suo promotore Martin Heidegger avesse avuto una conoscenza approfondita del neoplatonismo? Se egli non avesse potuto nascondere o allontanare da sé pretestuosamente la cosa pensata in questo pensiero sulla base di concezioni assolutamente stereotipe? Se egli avesse effettivamente messo a confronto con il pensiero neoplatonico dell’uno la sua costruzione della storia dell’essere, del destino metafisico dell’essere, che altri riadattano di continuo in modo acritico? Quel pensiero ha, infatti, posto al centro proprio quella differenza (ndr. La differenza ontologica) che, a quel che si dice, la metafisica non sarebbe stata capace di pensare che Heidegger stesso non fu in grado di scoprirvi. Con ciò con ciò esso ha liberato lo sguardo verso l’incommensurabile, quella differenza della ragione cercata da entrambi. Se pensare alla differenza può rappresentare una meta, la scala di cui necessariamente ci si deve servire è il pensiero neoplatonico dell’uno. Quei due pensieri non possono evidentemente venire costretti in una pseudo identità e, tuttavia, una consapevolezza profonda della teoria neoplatonica dell’uno, dell’essere del pensiero, rende più difficile un autoritratto della filosofia contemporanea, nel caso in cui si voglia seguire l’interpretazione di Heidegger. Questo per darvi un’idea di quanto sia ancora fortemente presente la dottrina plotiniana nel pensiero contemporaneo. La teoria plotiniana ha un aspetto particolare, che adesso vado a leggervi, di tratto dalla Paideia antignostica di Vincenzo Cilento. Se alcuno pensi e rifletta a lungo sulle ragioni per cui essi fecero ciò… Sta parlando degli antichi, del fatto che usavano figure per rappresentare gli dèi, ecc. …e come raggiunsero tali intenti, egli li ammirerebbe e li loderebbe insieme con la giustezza delle loro vedute. Se costoro sono degni di lode perché modellarono le cose intellettuali e ci dissero delle ragioni con le quali raggiunsero le cose sublimi della mente,… Qui è Plotino che parla. …e quindi le modellarono in rozza materia e innalzarono figure come segni, benché vi fossero libri che avrebbero potuto essere letti e compresi, allora a fortiori noi dovremmo ammirare la prima sapienza che origina le sostanze al massimo della perfezione senza riflettere sulle cause e ammirarla poi per il modo con cui ciascuna cosa è originata da loro deve riuscire perfetta e bella appunto, perché se toccano il massimo di sapienza e virtù e bellezza per il semplice fatto di esistere. Ciò fu perché il creatore diede origine alle cose e le fece perfette e belle senza riflessione o ricerca delle cause di purezza e beltà. Le cose che uno fa per via di riflessione e ricerca delle cause di purezza e beltà non saranno pure belle come le cose che derivano dal primo fattore senza riflessione o ricerca delle cause di esistenza e purezza e beltà. Chi non ammirerebbe il potere di quella nobile e sublime sostanza per il fatto che essa originò cose senza riflessione o ricerca delle loro cause, ma semmai originò col semplice fatto del suo essere; il suo essere è la causa delle cause, e per tale ragione il suo essere non ha bisogno nell’originale le cose di investigare le loro cause o di abilità nel trarle all’esistenza e perfezione, perché essa è la causa delle cause, come sopra dicemmo, essendo autosufficiente senza aver bisogno di alcuna causa o contemplazione o ricerca. Dunque, non c’è bisogno della ricerca è già tutto dato. Vedrete ora una differenza abissale con Aristotele. Qui siamo nel De generatione et corruptione, Primo libro, capitolo 5, 320 B, 12. È preferibile, perciò, ritenere che in ogni tipo di cangiamento la materia non sia separabile dai corpi, nel senso che essa è identica e una per numero ma non per definizione. Né d’altra parte la materia di un corpo deve essere concepita solamente come sua estremità e non può mai esistere senza possedere una qualità affettiva e una forma. 320 B, 23. …e poiché c’è anche una materia da cui si genera la sostanza corporea e che è materia di un corpo già determinato (non esiste in realtà alcun alcun corpo in sé) essa è identica come materia tanto di una grandezza quanto di una qualità affettiva e può essere separata solo per definizione. Noi possiamo separare la forma della materia solo per definizione, ma di fatto non possiamo separarle, cosa che invece fa Plotino. 329a, 23. Noi affermiamo che una materia dei corpi sensibili c’è, ma non ha esistenza separata, bensì è sempre accompagnata da una contrarietà e che da essa si genera generano i cosiddetti elementi. Da questa contrarietà si generano gli elementi, non dall’uno identico. Libro secondo, 334b, 8. …tanto il caldo quanto il freddo possono avere un’intensità maggiore o minore, si avrà che, quando uno dei due esiste in entelechia allo stato assoluto, l’altro esisterà in potenza; quando, invece, nessuno dei due esiste in modo completo, ma c’è un caldo che, come caldo è freddo, e un freddo che, come freddo, è caldo, allora sia si avrà che né la materia né alcuno dei suoi contrari esisterà entelechia allo stato assoluto. Il che significa che ciascuno si genera in quanto c’è il contrario, cioè, l’opposto, il negativo. 337b, 22 …quest’ultima necessita non dipende dalla necessità dell’anteriore, bensì dal fatto che noi abbiamo assunto come necessaria la futura esistenza del posteriore. Noi l’abbiamo stabilita. Per esempio, a proposito della logica, dell’inferenza, se A allora B. Perché segue B? Non c’è nessuna necessità, ma noi abbiamo stabilito ciò che segue. Qui siamo nel De anima, dove dice che non esiste un metodo di ricerca, un metodo unico. Libero primo, 406b, 23. Da parte nostra noi chiederemo se gli stessi atomi produrranno anche la quiete:… Per Democrito sono gli atomi che determinano il movimento. …come faranno è difficile o addirittura impossibile spiegare. Insomma non in tal modo, pare, l’anima muove l’animale, ma per mezzo di una scelta e di un pensiero. Cioè, è il pensiero che muove. 410a, 13. …l’essere si predica in vari modi - significa l’essere individuale concreto, la quantità, la qualità o un’altra delle categorie distinte: l’anima sarà allora composta di tutte le categorie o no? Quell’anima che Plotino pone come ipostasi. Libro secondo, 412a. Basti questo per quel che concerne le opinioni tramandateci dei nostri predecessori sull’anima. /…/ C’è un genere di cose esistenti che chiamiamo sostanza. La sostanza è, in un primo senso, la materia e cioè quel che non è, per se stesso, una cosa determinata;… Non è per se stesso una cosa determinata, lo è in seguito alle sue determinazioni, cioè, le categorie. …in un secondo, è la figura e la forma, secondo la quale la materia è già detta questa cosa determinata; in un terzo, poi, è il composto di materia e forma. Sarebbe il sinodo per Aristotele. La materia e potenza, la forma entelechia… Cioè, il suo compimento. …quest’ultima può aversi in due modi: o come la scienza o come l’esercizio attuale della scienza. Ma principalmente si ritengono sostanze i corpi e, in particolare, i corpi naturali: questi sono i principi degli altri. Dei corpi naturali altri hanno vita, altri no: per vita intendo il fatto di nutrirsi da sé,… Per ciò ogni corpo naturale che partecipa della vita sarà sostanza e precisamente sostanza nel senso di sostanza composta. Libro terzo, 429, 18. Di qui è necessario che l’intelletto, poiché pensa tutte le cose, sia non mescolato, come dice Anassagora, per dominare e cioè per conoscere… In questa riga Aristotele pone l’equazione fra conoscenza e dominio, conoscere è dominare, né più né meno. 430a, 20. Ora, la scienza in atto è identica al suo oggetto: la scienza in potenza è anteriore nel tempo in un individuo, ma, assolutamente parlando, non è anteriore nel tempo: pertanto, non si può credere che questo intelletto talora pensi, talora non pensi. Separato, esso è solo quel che realmente è, e questo solo è immortale ed eterno. Perché Aristotele si rifaceva agli dei… Potremmo dirla così, in modo più interessante: il pensiero non è anteriore al pensato, né il pensato è anteriore al pensiero, ma si può coappartengono. Poco dopo una cosa più interessante, perché sembra detto contro Plotino. 430b, 5. In ogni modo l’errore o il vero non concernono soltanto l’affermazione che Cleone è bianco, bensì anche che fu o sarà bianco. E quel che riduce all’unità ciascuna di queste composizioni è l’intelletto. L’intelletto è una produzione, è una costruzione nostra, del nostro intelletto; non viene da Dio, noi lo costruiamo. 431a. È lo stesso la scienza è in atto e l’oggetto: quella in potenza, per rispetto al tempo, è nell’individuo anteriore e, tuttavia, non lo è neppure per rispetto al tempo, giacché dall’essere in entelechia proviene tutto quanto diviene. Dall’essere in entelechia proviene tutto quanto diviene: l’entelechia è la causa di tutto. Ora, è evidente che l’oggetto sensibile fa passare in atto la facoltà sensitiva che era in potenza, perché la facoltà non patisce né alterata. Di conseguenza, questa è un’altra specie di movimento: infatti il movimento è l’atto di ciò che è imperfetto, mentre l’atto in senso assoluto, l’atto di ciò che è perfettamente compiuto, è differente. Perché c’è l’atto? Perché è imperfetto, ed è imperfetto perché ancora non è in atto. Ma quando è in atto? Qui devo rifarvi l’esempio dell’uno e dei molti: dell’uno, che posso determinarlo in quanto uno soltanto attraverso delle determinazioni, cioè attraverso molti. Quindi, determinò qualche cosa attraverso il due, ma il due non è l’uno, pertanto determino l’uno attraverso qualche cosa che l’uno non è. E, d’altra parte, il due che cos’è? È l’uno, perché è il suo significato, direbbe la linguistica. Quindi, l’uno è il due, ma il due è l’uno. 431b, 16. Così pure gli oggetti matematici, sebbene non siano separati dalla materia, li pensa come se fossero separati. In generale, l’intelletto, quando è in atto, è i suoi oggetti. Se poi è possibile o no che l’intelletto pensi qualcuna delle cose separate, sarà da considerare più avanti. 431b, 20. Ora, ricapitolando quanto si è detto sull’anima, diciamo di nuovo che l’anima è in qualche maniera tutte le cose. In realtà le cose sono sensibili o intellegibili e la scienza è in certo modo gli oggetti del sapere, la sensazione gli oggetti del senso. 432a, 5. Ora, poiché nessuna cosa, come sembra, esiste separata dalle grandezze sensibili, è nelle forme sensibili che esistono gli intellegibili e quelli che si dicono per astrazione e quanti sono qualità e proprietà di sensibili. Per questo chi non avesse sensazione alcuna, non apprenderebbe né comprenderebbe niente, e quando l’uomo pensa a una cosa, di necessità pensa insieme una qualche immagine, perché le immagini sono come sensazioni, solo che mancano di materia. È perché c’è il sensibile che io penso, cioè, perché ricevo delle sensazioni. Ma perché posso ricevere sensazioni? È qui la questione. Posso ricevere delle sensazioni perché, per via del fatto che parlo, qualche cosa incomincia ad essere qualcosa; quindi, posso avere la sensazione da parte di qualche cosa perché è un qualche cosa che mi dà una sensazione, sennò non c’è questo qualche cosa. E questo qualche cosa da dove? Arriva – l’ho detto prima – dall’entelechia. L’entelechia è la simultaneità, la coappartenenza di uno e molti, dell’uno e del due, che vivono insieme incessantemente. Ora, qui si pone la questione interessante del fatto che per Aristotele non solo non c’è l’uno, o meglio, c’è sì l’uno, ma l’uno è il prodotto dei molti. Per Aristotele ci sono i molti e poi c’è l’uno: sono i molti che determinano l’uno, sono i molti che determinano quella cosa bizzarra, l’universale - l’uno di Plotino è l’universale -; ma questo universale per Aristotele è fatto di molti, sono i molti che lo producono. Lui stesso lo diceva nella logica: come costruisco l’universale, la premessa maggiore? Dai molti, cioè, per induzione traggo la premessa universale. Quindi, questo universale non c’è senza i molti. E questi molti a dove vengono? Dalle sensazioni, senza le quali sensazioni non posso pensare. E queste sensazioni da dove vengono? Dal primo movimento che esiste, cioè dall’entelechia. Da qui si capisce il senso anche di quel famosissimo quadro di Raffaello, l’Accademia di Atene, dove ci sono Platone, che col dito indice punta verso l’alto, verso le idee, e Aristotele, che invece con la mano aperta guarda verso il basso, cioè, verso le sensazioni, perché senza sensazioni - lo diceva prima - io non posso pensare niente, perché non mi viene niente da pensare, occorrono le sensazioni, cioè che qualche cosa diventi qualcosa, che qualcosa sia qualcosa: solo a questa condizione posso cominciare a pensare; il che è come dire in altri termini che soltanto se c’è il linguaggio posso pensare. È come se Aristotele, ponendo la questione dell’entelechia, avesse colto, senza avvertirne tutta la potenza, il nucleo stesso del linguaggio, e, ponendo e cogliendo il nucleo del linguaggio, trova poi il nucleo di qualunque cosa, perché qualunque cosa esiste in quanto ne parliamo.

Intervento: Tempo fa si parlava del pathos…

 Sì, il pathos, è il sentire qualcosa. Il pathos non è altro che un discorso che procede da una sensazione, dall’emozione, e questo innesca il pensiero, certo, per cui si comincia a parlare, a dire. E da qui sorge naturalmente nel momento in cui c’è la entelechia c’è la volontà di potenza, perché senza entelechia non c’è volontà di potenza. La volontà di potenza non è altro che la constatazione, la maledizione per cui per determinare l’uno necessito dei molti. Ma questi molti quanti sono? Due, tre, quattro, cinque? Sono infiniti, non li controllo. Ecco la maledizione della volontà di potenza: non posso controllare i molti e, quindi, devo fare dei molti uno. Ma, tuttavia e purtroppo, questo uno risulta comunque una produzione dei molti, sempre, inesorabilmente. Quindi, o l’uno voglio determinarlo, e quindi lo determino attraverso i molti, ma questi molti non li controllo e, quindi, è come se dovessi di nuovo ricondurre questi molti a un altro uno, che a questo punto dovrebbe darmi l’opportunità di determinare il primo, ma non me la darà mai perché si innesca un processo all’infinito. Ecco la maledizione della volontà di potenza, che vuole determinare ma per determinare deve usare l’indeterminato, per cui non determinerà mai. Da qui il super potenziamento di cui parla Nietzsche, ma che più che super potenziamento è un continuo potenziamento, una continua rincorsa dietro a questa impossibilità di determinare l’uno se non attraverso i molti, perché l’uno è i molti. Determinando l’uno, ciò con cui lo determino è i molti, quindi, questi molti sono l’uno e l’uno è i molti; da cui la volontà di potenza, come direbbe Nietzsche, digrigna i denti perché non può afferrare, perché per poter afferrare è come se dovesse lasciare andare inesorabilmente, e non può fare altrimenti. Quindi, ecco il tentativo di Plotino è anche in fondo il suo successo, perché Plotino ha avuto un successo strepitoso, anche perché dice che non bisogna interrogare. Difatti, nelle Enneadi accosta l’interrogare le ipostasi all’empietà, come dire che chi pensa, chi domanda è empio. Ora, qui, il libro Paideia antignostica spiega bene il pensiero di Plotino. Al di là di questa trasposizione o trasfigurazione mitica… Sta parlando dei dei miti che Plotino riprende dal Fedro di Platone. …è espressa una specie di esperienza interna della realtà intelligibile, corrispondente al luogo sovraceleste del Fedro platonico. È l’esperienza mistica che sola risolve tutte le antinomie della ragione. L’esperienza mistica: questa risolve le antinomie della ragione. S dovrebbe sentire cosa ne avrebbe detto Protagora, il quale ha scritto un libro che si chiama proprio Le antilogie. … nel cosmo intellegibile l’oggetto è come assorbito nell’atmosfera luminosa che lo cinge e l’intride, come nella valle del Nilo si vedono per le colline del deserto egiziano, tinti di un rosso dorato dalla luce mediterranea, gli uomini che vi camminano formando con la terra una sola massa luminosa. Non c’è visione vera se non quando l’oggetto immane nell’intimità di noi stessi, proprio come se uno posseduto dal dio, invaso da Febo o da qualche musa, provochi in sé la visione del dio, qualora abbia la capacità di guardare il dio dentro di sé. Qui era Marsilio Ficino nella Teologia platonica. Ecco, questo vi dà l’idea, non solo della distanza immensa tra il neoplatonismo e Aristotele, ma anche di come il neoplatonismo si sia ammantato di questo misticismo. Infatti, Plotino era un egiziano e pare che avesse avuto molti contatti anche col misticismo persiano o comunque orientale, con i riti e i miti orientali. Dunque, un successo, il successo di colui che dice che, sì, certo, – nel frattempo c’erano stati presocratici, ci sono stati i sofisti, Aristotele naturalmente – l’uno devo determinarlo attraverso i molti, ma che cosa dice Plotino? Sì, voi non potete determinarlo, ma c’è qualcuno che lo può fare, sempre indicando col ditino che punta verso l’alto - mentre Aristotele dice “rimani piedi per terra, è dalle sensazioni che noi cominciamo a pensare”, e queste sensazioni, certo, lui non poteva arrivarci del tutto, però pone la questione: queste sensazioni esistono perché c’è entelechia, c’è questo primo movimento tra l’uno e i molti che si coappartengono, e da questo movimento è possibile la nascita di qualunque cosa; è possibile la nascita di qualunque cosa perché incomincia a esistere qualcosa, sennò non esiste niente. Ma dicevo del successo di Plotino, perché allude al fatto che questo uno in effetti sia quel luogo dove i molti non ci sono più, sono scomparsi, ma c’è soltanto più l’uno. Ma come fa l’uno a esserci senza i molti? Non puoi saperlo razionalmente ma soltanto attraverso questa identità mistica con l’uno. Ecco, questo è il neoplatonismo che, come abbiamo visto anche prima, affascina ancora oggi molti pensatori. Mathieu era un credente, addirittura correva voce che facesse parte dell’Opus Dei. E poi Reale è anche lui un grande ammiratore di Plotino, anche lui era un fervente cristiano. Ma, al di là di questo, il neoplatonismo non è soltanto appannaggio dei credenti, naturalmente. Da quando Baruch Spinoza pose questa vicinanza, deus sive natura, Dio o natura, poi trasformata in equazione dall’illuminismo: la natura è Dio, o, più propriamente, Dio non è altro che la natura. Ciò che tutto è stato pensato di Dio in realtà era la natura, che si comporta proprio come il Dio degli ebrei, il quale è vendicativo, terribile. La natura ha preso il suo posto: voi offendete la natura e la natura vi distruggerà. Prima suonava così: voi offendete il Dio ed ecco che il Dio vi manda l’olocausto, vi manda Eichmann e compagnia bella, perché l’avete offesa in qualche modo; loro non sanno che cosa hanno fatto, non hanno fatto niente, naturalmente, però l’idea è questa: se Dio ci punisce è perché abbiamo mancato in qualche cosa nei suoi confronti. È la stessa cosa oggi è per la natura, Deus sive natura: offendiamo la natura e la natura ci punisce mandandoci la piogge, per cui, ecco, vedete queste piogge che insistono, sono la punizione della natura.

Intervento: La ragione nel periodo dell’illuminismo…

La ragione sorge con Cartesio, ma anche Cartesio con il suo dubbio lui si purifica. Lui stesso dice che con il dubbio si libera di tutte le cose che impediscono di pensare correttamente: è una sorta di purificatio, in fondo; perché come sa che le cose di cui vuole sbarazzarsi non siano invece proprio quelle che gli consentono di pensare le cose migliori, per esempio? E, invece, no, lui punta alla purificazione. Anche lui, in fondo, se lo vediamo bene, vuole purificarsi per aggiungere l’uno, cioè la verità. Quando sarà il momento leggeremo anche Ficino nella sua Teologia platonica, che è lo stesso titolo che ha dato anche Proclo a un suo saggio. Teologia allora indicava propriamente la metafisica, e cioè quella cosa che per Aristotele era la filosofia prima. Questa era la teologia, poi dopo è diventata un’altra cosa.

Intervento: Sempre sulla questione della ragione. È come se la ragione unificasse, mentre l’irrazionale fosse i molti.

Esattamente. È per questo che la ragione non riesce a unificare: perché ci sono molti, c’è il nemico. È qualche cosa che va contro quello che dovrebbe essere l’uno, l’ordine, la legge naturale. Infatti, l’idea di legge naturale sorge con l’illuminismo, poi ripresa dopo come diritti naturali, civili, ecc. Si è cominciato a pensare ai diritti civili perché si è cominciato a pensare a un diritto naturale: è naturale che gli uomini debbano essere considerati in un certo modo, è la natura che lo vuole, oppure Deus vult, che è la stessa cosa, in fondo.