INDIETRO

 

 

22 maggio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

C’è qualche cosa che sta dicendo Hegel che mi ha fatto riflettere. Riguarda la questione dell’intero, del concreto. Dicevamo che, in effetti, è il linguaggio l’intero, il concreto. Però, abbiamo anche detto che il linguaggio è autocontraddittorio, mentre se poniamo il linguaggio come l’intero lo poniamo come incontraddittorio. E, allora, è contraddittorio o incontraddittorio? Possiamo porre la questione in questo modo: dicendo che il linguaggio è autocontraddittorio, affermiamo questo in seguito a una certa operazione, che Severino ci direbbe, di astrazione, e cioè abbiamo astratto un primo elemento, ciò che dico, e poi ciò a cui ciò che dico si riferisce. Abbiamo considerato questi due elementi in quanto separati e a questa condizione, direbbe giustamente Severino, si produce un’autocontraddizione. In effetti, la si rileva immediatamente perché ciò che sto dicendo, per potere dirsi, deve dirsi in un altro modo, cioè ha bisogno di altro per dirsi. Però se dovessimo invece considerare questi due elementi non in quanto separati, astrattamente, ma come il concreto, come ci suggerisce di fare Hegel, allora in questo caso non sono più due elementi astratti ma sono due momenti dello stesso. Questo comporta che il linguaggio a questo punto si pone come incontraddittorio in quanto contiene il negativo ma come condizione del positivo – questo è Hegel. Quindi, il linguaggio, concretamente inteso, è incontraddittorio; astrattamente inteso è autocontraddittorio. È così risolta la questione. Però, che cosa vuol dire che il linguaggio è incontraddittorio? Vuol dire che nel momento in cui pone qualcosa, questo qualcosa è posto. È questo che fa del linguaggio quella cosa incredibile che più o meno conosciamo: una volta che il linguaggio pone qualche cosa, questo qualche cosa è posto, c’è, ed è l’unica cosa che fa essere le cose, che le fa esserci, perché le pone; e può porle perché non è autocontraddittorio, perché se fosse autocontraddittorio allora non porrebbe ciò che dice di porre, cioè, direbbe di porre qualche cosa ma poi, di fatto, non è quello che sta ponendo. E questo per il linguaggio sarebbe un problema perché non potrebbe porre, non potrebbe letteralmente fare esser le cose, per cui le cose non ci sarebbero. Potremmo dire che se le cose, in generale, ci sono è perché il linguaggio è incontraddittorio. sapete che il termine cosa risponde alla massima generalizzazione pensabile; non è pensabile un elemento che sia al di sopra della cosa, perché anche questo sarebbe una cosa; è proprio il termine che risponde alla massima universalizzazione pensabile. L’incontraddittorietà, e qui torniamo a Severino, non è soltanto un qualche cosa che si aggiunge, che rende più interessante la cosa; no, è che è solo se è incontraddittorio il linguaggio pone effettivamente le cose, cioè le fa essere, perché se rimanesse autocontraddittorio allora le farebbe essere ma anche non essere simultaneamente, cioè non sarebbero. Il problema, come sappiamo da Heidegger, è che a questo punto non sarebbero utilizzabili, perché è quella cosa ma anche non lo è, e, quindi, come la uso? Come quella cosa o come ciò che non è quella cosa? Ecco perché è importante che il linguaggio si mostri come l’incontraddittorio, preso concretamente; preso astrattamente, invece, sappiamo che è autocontraddittorio, perché i due momenti, tesi e antitesi, rimangono separati e, separatamente intesi, è chiaro che ognuno dei due si oppone all’altro, non c’è la sintesi ma rimane un’opposizione dove l’uno esclude l’altro. È la sintesi che li mette in relazione, che li volge in concreto, proprio come diceva Severino rispetto a “questa lampada che è sul tavolo”: perché sia “questa lampada che è su tavolo” occorre che questi termini, lampada, tavolo, ecc., non siano astratti, cioè, isolati, separati, perché se sono separati allora questa lampada, considerata astrattamente, non è più “questa lampada che è sul tavolo”, e, quindi, non potrei affermare ciò che affermo, cioè “questa lampada che è sul tavolo”. È un altro modo per dire che l’incontraddittorietà del linguaggio è una condizione del suo funzionamento. Era solo una cosa che mi era venuta in mente, magari era venuta in mente anche a voi. Siamo a pag. 23, punto 29. La scienza… Ricordo che il titolo che aveva dato Hegel era La scienza come esperienza della coscienza, il modo in cui si fa esperienza della coscienza, è questa la scienza per Hegel. La scienza, come presenta questo movimento formativo nel dettaglio del suo processo e nella sua necessità, così presenta nella figurazione a lui propria ciò che è già disceso a momento e proprietà dello spirito. La scienza, ci ha detto, deve compiere una serie di analisi per potere procedere, deve determinare; potremmo dire che deve muovere dall’astratto; per potere considerare qualche cosa deve necessariamente considerarlo come astratto. Meta è la chiara penetrazione dello spirito in ciò che è il sapere. Cioè: intendere bene come funziona il sapere rispetto al pensare, come vengo a sapere le cose, che cosa mi consente di sapere. L’insofferenza pretende l’impossibile, vale a dire il raggiungimento della meta senza i mezzi. Senza, cioè, questa analisi continua. Da un lato bisogna sopportare la lunghezza di quest’itinerario, ché ciascun momento è necessario;… Ciascun momento di questo procedere dialettico è necessario al passo successivo. È un po' come diceva Heidegger quando parlava del mondo, di cui sono fatto: tutto ciò che è intervenuto è stato necessario perché io sia oggi quello che sono; non c’è niente da scartare, tutto ciò che è accaduto ha concorso a farmi essere quello che sono. …- dall’altro lato occorre soffermarsi presso ciascun momento, giacché ciascuno di per sé è un’itera figura individuale;… Ciascun momento di questo movimento dialettico è di per sé qualcosa di individuale. …così ciascun momento viene considerato assoluto, proprio perché la sua determinatezza vien riguardata come un intiero o come un concreto, o come l’intiero nella peculiarità di questa determinazione. Considerare, dunque, ciascuno di questi momenti, di queste figure, del progressivo muoversi del pensiero come un intero perché, da una parte, ciascuno di questi momenti – qui viene in soccorso Peirce per intendere bene la cosa quando parla di Primità, Secondità, Terzietà – ciascuno di questi momenti è assoluto e determinato, non si fonde con gli altri, cioè, non scompare negli altri ma rimane assolutamente determinato; dall’altra parte, rimane assolutamente in relazione con gli altri; quindi, è assolutamente determinato e assolutamente in relazione. Sottolineare il fatto che rimanga determinato, che rimanga, per usare i termini di Hegel, una figura, significa che non scompare nell’altro, non dilegua nell’altro, ma rimane quello che è, sempre in relazione, tuttavia, con gli altri due a formare il circolo ermeneutico. Poiché non solo la sostanza dell’individuo, ma addirittura lo Spirito del mondo ha avuta la pazienza di percorrere queste forme in tutta l’estensione del tempo e di prender su di sé l’immane fatica della storia universale per riplasmare quindi in ciascuna forma, per quanto questa lo comportasse, il totale contenuto di se stesso;… Questa pazienza, che ha avuto il progredire dello Spirito umano nel corso dei millenni, è quello che ha portato a ciò che siamo oggi. …e poiché lo Spirito del mondo non avrebbe potuto attingere la coscienza di sé con minore fatica, è evidente che, secondo la cosa stessa, l’individuo non potrà arrivare a comprendere la sua sostanza attraverso un cammino più breve;… Lo stesso cammino che ha fatto l’umanità per essere ciò che è oggi… anche per l’individuo è la stessa cosa, deve cioè mantenere tutti i momenti che lo hanno condotto necessariamente a essere quello che è adesso. …tuttavia ha dinanzi a sé una fatica più lieve, perché tutto ciò in sé già consummatum est:… Tutto ciò che è accaduto ormai è saputo; tutto ciò che ha condotto a oggi, il nostro passato, è noto, per cui questo ci allevia la fatica del percorso, in quanto una buona parte di questo percorso è conosciuta, sappiamo che cosa è successo prima di noi e che cosa è accaduto tale per cui oggi siamo nella condizione in cui ci troviamo. Per esempio, due guerre mondiali hanno condotto a una situazione che è quella che viviamo oggi. Essendo il contenuto di già un pensato, esso è proprietà della sostanza;… È diventato sostanza, cioè, qualcosa di concreto, il nostro passato. …non più l’esserci deve venir volto nella forma dell’esser-in-sé; anzi, è ciò ch’è in sé che deve venir volto nella forma dell’esser-per-sé; - ciò ch’è in sé, non più meramente originario né calato nell’esserci, ma piuttosto ridotto già a memoria. Dice non più l’esserci deve venir volto nella forma dell’esser-in-sé: questo percorso è già stato fatto, è già passato all’esser-per-sé e tornato all’in sé, è già coscienza, noi abbiamo coscienza del nostro passato. Nella posizione in cui noi qui cogliamo quel movimento, rispetto all’intiero si risparmia il togliere dell’esserci;… Nel momento in cui cogliamo questo movimento dialettico e lo conosciamo, ci si risparmia la necessità di togliere l’esserci, cioè, di togliere l’immediato, perché sappiamo già che l’immediato è stato questo e quest’altro …ma quello che pur tuttavia rimane e che richiede più alta trasformazione è la rappresentazione e la nozione delle forme. La rappresentazione e la nozione delle forme non sono altro che concetti. L’esserci, ripreso indietro nella sostanza, con questa prima negazione soltanto immediatamente è trasferito nell’elemento del Sé;… L‘esserci, cioè l’immediatezza, una volta che è noto tutto ciò che è accaduto, è diventato qualcosa che è in sé, che è quella che è, cioè è saputa, ne abbiamo coscienza. …questa proprietà a lui acquisita ha, dunque, ancora carattere di immediatezza priva di concetto, d’immota indifferenza, non altrimenti che l’esserci, il quale è per tal modo passato soltanto nella rappresentazione. Le cose accadute hanno ancora questa immediatezza, cioè sono quelle che sono; diventano importanti per noi nel momento in cui ne prendiamo coscienza, perché anche le cose accadute possono rimanere in sé, implicite. Ma quello che ci sta dicendo è che è sempre necessario questo continuo lavoro dialettico per fare in modo che la coscienza possa giungere a essere consapevole di sé. Con ciò l’esserci è in pari tempo un alcunché di noto, qualcosa con cui lo spirito esistente ha chiuso la partita… L’esserci, l’immediatezza, è diventato noto, il passato è noto. …e in cui quindi non ha più né attività né interesse. Se l’attività che sta chiudendo la partita con l’esserci è essa stessa solo il movimento dello spirito particolare che non arriva a concepirsi, viceversa il sapere è rivolto contro la rappresentazione così costituitasi e contro siffatto esser-noto; il sapere è l’operare del Sé universale ed è l’interesse del pensare. Il noto sarebbe la chiacchiera: ciò che è noto a tutti, che tutti sanno, ma che nessuno interroga. Questo, dice Hegel, non è il sapere, anzi, questo è ciò contro cui tutta la Fenomenologia dello spirito si batte, contro questo esser noto e, quindi, non più interrogato. Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri; allora il sapere, senza nemmeno avvertire come ciò avvenga, non fa un passo avanti nonostante il grande e incomposto discorrere che esso fa. Senza ponderazione, il soggetto e l’oggetto ecc., Dio, la natura, l’intelletto, la sensibilità ecc., vengono posti a fondamento come noti e come qualcosa che ha valore sicuro, e costituiscono dei punti fissi per l’andata e il ritorno; il movimento corre su e giù tra questi punti che restano immoti e ne sfiora soltanto la superficie. Queste cose note sono quelle cose non sono più poste nel movimento di tesi e antitesi; non c’è la possibilità di cogliere il movimento che c’è fra un elemento, il suo estroflettersi verso l’esterno e il suo ritornare verso l’interno. Ci sta dicendo che queste cose note sono come dei punti messi lì, immobili, che non dicono più niente e che, soprattutto, non consentono un sapere. Così l’apprendere e l’esaminare consiste soltanto nel vedere se ognuno trovi anche nella sua rappresentazione quello che costoro hanno detto: se proprio gli sembri così, e se così gli sia noto o meno. L’analisi di una rappresentazione come di solito era condotta, non consisteva in altro che nel togliere la forma del suo esser-nota. Io prendo la forma di qualcosa che è noto - forma nel senso di concetto -, lo tolgo e lo tengo lì, immobile. Scomporre una rappresentazione nei suoi elementi originari è un ritornare ai suoi momenti, i quali per lo meno non hanno la forma della rappresentazione trovata, ma costituiscono l’immediata proprietà del Sé. È questo che occorre reperire: scomporre il noto, il conosciuto, la chiacchiera, interrogarla, metterla alla prova, e quindi cogliere quei momenti che hanno costituito il movimento dialettico che hanno condotto al Sé, a quello che è. Una tale analisi giunge bensì solo a pensieri che, anch’essi, sono determinazioni note, salde e ferme. Ma questo separato, questo stesso ineffettuale, è un momento essenziale;… Cioè: quando io analizzo le cose le astraggo necessariamente. Dice: Una tale analisi giunge bensì solo a pensieri che, anch’essi, sono determinazioni note, salde e ferme, perché è da lì che si parte. Se una determinazione nota non è salda e ferma non posso partire, non posso muovermi. Ma questo separato, questo stesso ineffettuale: non è qualcosa che si effettua, è qualcosa che io ho astratto. …è un momento essenziale; infatti, sol perché il concreto si separa e si fa ineffettuale, esso è ciò che muove sé. Perché ci sia questo movimento, questa dialettica, ha la necessità di considerare le cose come se fossero separate, come se fossero astratte rispetto al concreto. Solo facendo così qualcosa si può muovere, soltanto attraverso questa astrazione. L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta. Questa attività del separare è tutto ciò di cui è fatta la Fenomenologia dello spirito: separare, considerare; ma per fare questo deve astrarre, deve togliere dal concreto. Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non suscita, quindi, meraviglia alcuna. Dire che il circolo evoca il circolo ermeneutico sarebbe hegelianamente il per noi: noi sappiamo che il circolo di cui sta parlando è il circolo ermeneutico, lui non lo poteva sapere, perché l’ermeneutica non era ancora così apprezzata; esisteva sì, si conosceva il testo di Aristotele, il Περ ρμηνείας, ma non c’era l’ermeneutica così come è pensata oggi. Dice Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata. Questo circolo conchiuso non è altro che la relazione immediata che c’è tra i vari momenti, ed è questa relazione immediata che li tiene insieme. Ma che l’accidentale ut sic (così com’è), separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro… Io posso sì astrarre così com’è, però lo tiro fuori dal suo ambito, lo astraggo da ciò che lo rende reale, e ciò che lo rende reale è la connessione, la relazione, diceva prima, con altri momenti. …guadagni una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo;… Cioè: io pongo qualche cosa ma, per potere porre questa cosa, devo porre anche il suo negativo. Se non pongo anche il suo negativo a fianco, io non sto ponendo nulla. Questo in Severino è molto evidente. Pongo questa cosa ma, dice, separato dal proprio ambito, ma il proprio ambito qual è? Il proprio ambito è fatto anche del negativo; se io l’astraggo dal negativo, non è più niente. Quando parla di immane potenza del negativo ci sta dicendo che il negativo, vale a dire ciò che sto ponendo non è, è la condizione per potere porre ciò che sto ponendo in quanto ciò che è. …esso è l’energia del pensare, del puro Io. È il negativo che mette in moto il movimento. Per usare termini semiotici, è la relazione con il significato… Considerate la A è B di Peirce: il negativo è la B, è ciò che la A non è, ma se non ci fosse la B non ci sarebbe neanche la A. La morte, se così vogliamo chiamare questa irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede a massima forza. Mortuum è la metafora del negativo. La bellezza senza forza odia l’intelletto, perché questo le attribuisce dei compiti ch’essa non è in grado d’assolvere. La bellezza senza forza, dice: la forza che gli dà il negativo. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Cioè, nel negativo. Nell’assoluta devastazione: io dico una cosa, questa cosa è quella che è, ma per dire che è quella che è devo dire ciò che quella cosa non è; ecco l’assoluta devastazione, che è la vita dello spirito, è la vita stessa. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualche cos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Che è un po' quello che abbiamo fatto in questi anni. Dicendo che per dire una devo dire ciò che quella cosa non è, è come se, usando le parole di Hegel, avessimo guardato in faccia il negativo, la sua devastazione, ma questa è la condizione per pensare. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. Il negativo sarebbe il nulla, ma io lo faccio diventare essere, lo faccio diventare qualcosa di fondamentale, lo faccio diventare la condizione perché ciò che dico abbia un significato. Essa è quel medesimo che sopra fu detto il Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta, e cioè, in genere, solo essente, ed è quindi la verace sostanza, l’essere e l’immediatezza che non ha la mediazione fuori di lei, ma è questa stessa. Questa magica forza, dice, è soggetto, cioè, è l’agire, il fare. Questo agire è l’agire del negativo sul positivo e del positivo sul negativo. Dice nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta: l’immediatezza astratta è l’immediato, quello che io immagino separato dal concreto, è la lampada che io immagino separata da “questa lampada che è sul tavolo”. E cioè, in genere, solo essente: non è solo essente “questa lampada che è sul tavolo”, perché è il concreto, non è qualcosa che si dà immediatamente e basta. Il genere di studio proprio dell’antichità si differenzia da quello dei tempi moderni, perché era propriamente il processo di formazione della coscienza naturale. Lo studio della natura vede le cose così come appaiono, ut sic, così come sono, astraendole, immaginandole completamente astratte da un concreto. Allora, l’individuo, esercitandosi dettagliatamente in ciascuna parte della sua esistenza e filosofando su ogni accadimento, si educò a una universalità intimamente concretata. Nei tempi moderni egli trova invece bella e preparata la forma astratta; lo sforzo per giungere ad afferrarla e a farla sua è oggi più un’esteriorizzazione dell’interno, improvvisa e priva di mediazione, è più una monca produzione dell’universale, che non un procedere di questo dalla concreta e molteplice varietà dell’essere determinato. Si riferisce alla scienza, che ha fatto questo percorso: all’inizio ha tratto l’astratto dal concreto però mantenendolo come qualcosa di concreto; oggi, dice, non c’è più questo concreto, è rimasto solo l’astratto e la scienza ha a che fare solo con questa cosa. Ora, quindi, il compito non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, cioè, l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati. Il compito non è tanto il purificare l’individuo dall’immediatezza, quanto nell’attuare l’universale, nell’infondergli lo spirito. Attuare l’universale, cioè, pensare ciò che accade come qualche cosa che deve giungere all’universale. Soltanto l’universale ha la forma della necessità, cioè, è così perché deve essere così. Andiamo oltre. Le essenze pure sono quelle che riguardano il puro pensare, cioè, l’immediatezza interiore. Questo movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della scientificità. Tale movimento, considerato come il nesso del contenuto che gli è proprio, è la necessità e il dispiegamento del contenuto stesso a totalità organica. È questo movimento che comporta la totalità organica, cioè dell’organismo. Hegel parla dell’organismo proprio nell’accezione biologica, come qualcosa che non è la somma delle parti, ma un’altra cosa, è un complesso di cose molto più complesso della somma delle sue parti. Il cammino pel quale vien raggiunto il concetto del sapere diviene anch’esso, per via di quel movimento, un divenire necessario e perfetto; cosicché quella preparazione cessa di essere un filosofare accidentale che si appoggia a questi o a quegli oggetti, a queste o a quelle relazioni, a questi o a quei pensieri della coscienza imperfetta, come l’accidentalità lo consente, e che cerca di fondare il vero con ragionamenti che sbandano di qua e di là, con conclusioni e deduzioni da pensieri determinati; anzi questo cammino mediante quel movimento del concetto abbraccerà, nella sua necessità, l’intero mondo della coscienza. Cioè, questo cammino deve abbracciare ogni momento del suo processo. Una tale presentazione esaurisce quindi la prima parte della scienza, poiché l’essere determinato dello spirito come prima esistenza non è altro che l’immediato o il cominciamento… Quindi, la prima parte della scienza è il cominciamento, l’immediato, è il porre qualche cosa. …ma il cominciamento non è ancora il suo ritorno in sé. È solo il cominciamento. L’elemento dell’esistenza immediata è quindi la determinatezza, per la quale questa parte della scienza si distingue dalle altre. L’accenno a questa differenza conduce a discutere alcuni pensieri irrigiditi che sogliono farsi avanti proprio a questo punto. Questo è il cominciamento, il porre qualche cosa, è il momento fondamentale, perché se non c’è il cominciamento non c’è neanche tutto il resto. Però, e sta la qui la questione in Hegel, è vero che se non c’è il cominciamento non c’è neanche il resto, ma se non c’è il per sé che ritorna sull’in sé non c’è neppure l’in sé. È la stessa cosa che diceva Peirce: questo movimento, questa relazione tra la A e la B fa essere sia la A che la B, perché la A è il cominciamento - che di per sé è nulla, è soltanto un porre qualche cosa ma non è neanche un porre qualche cosa, perché questo qualche cosa è qualche cosa perché c’è un rinvio. Quindi, ci si ritrova in questa situazione bizzarra per cui, per iniziare, devo porre qualche cosa che, di fatto, non pongo, che non pongo finché non c’è un ritorno. Vale a dire, il cominciamento è già da sempre cominciato. È impossibile stabilire il punto del cominciamento, così come per Peirce è impossibile stabilire il primo segno: non esiste il primo segno, ciascun segno è segno perché segno per un altro segno, necessariamente. Questo punto è importante nel pensiero di Hegel. Il problema che sta ponendo qui è quello del linguaggio, se proprio vogliamo dirla tutta. Come comincia il linguaggio? Qual è il primo suono che possiamo considerare come parola? Soltanto dopo potremo dire che quella è una parola, ma sul momento, mentre si pone, non è ancora niente, non è niente finché non trova un rinvio per cui allora c’è un significato che tornando al punto di partenza dà la sua portata di punto di partenza. È il problema stesso del linguaggio, del suo cominciamento: come comincia? Quando? In che modo? Hegel la svolge così: qualche cosa si avvia, ma noi diciamo che qualche cosa si avvia solo dopo. È per questo che molti, tra cui lo stesso Heidegger, dicono che si è da sempre nel linguaggio, non c’è un momento in cui si entra nel linguaggio, si è lì già da sempre: il cominciamento è qualcosa che è tale soltanto alla fine, perché questo cominciamento ha come fine il tornare su di sé e, quindi, porsi come cominciamento. È un po' complesso ma è così che lo sta ponendo Hegel. D’altra parte, non c’è modo di stabilire dove comincia il linguaggio. E così anche per il cominciamento: per stabilire dov’è il cominciamento dovrei essere già fuori dal cominciamento, anche solo per pensarlo. Come posso porre il cominciamento così tout court, senza nessun riferimento, senza alcun referente? Come so che è un cominciamento? Non lo posso sapere in nessun modo. Per questo dicevo che posso saperlo soltanto in un ritorno. Sembra paradossale, eppure lo stesso Peirce pone la questione esattamente in questi termini: non c’è il primo segno, non esiste. E, allora, da dove si comincia? Quando si pensa di cominciare, in realtà si è già cominciato, si è già oltre; per pensare il cominciamento io devo essere già oltre il cominciamento.