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22 marzo 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Questa sera ci occupiamo della δόξα. Siamo a pag. 167. Per comprendere il fenomeno fondamentale della quotidianità, il fenomeno che sta alla base di questo parlare peculiare, è necessario che ci intendiamo ancora preliminarmente circa il senso dell’ἒνδοξον, della δόξα. Il termine δόξα designa anzitutto l’“opinione su qualcosa”, ma significa anche, per lo più, “avere un’opinione”. Per Aristotele la δόξα è ού ζήτησις, “non una ricerca”, bensì φάσις τις ἤδηφάσις è dire sì. …: io ho “già un’opinione”, non sto ancora cercando, non sono ancora in cammino per verificare la natura di una cosa, ma al suo riguardo la penso in questo e quel modo. Φάσις: un certo λέγειν, un dire-sì a ciò su cui ho un’opinione. Nella misura in cui è caratterizzata dal fatto di essere un certo dire-sì, non un indagare, un riflettere, un “farsi ora un’opinione”, la δόξα è in relazione con l’έπιστήμηL’έπιστήμη è il sapere certo …se cioè possiedo una conoscenza di qualcosa nel senso che ne sono ben informato, che posso dire qualcosa in merito alla cosa in questione anche se non ce l’ho davanti agli occhi. Infatti, posso dire che 2+2=4 anche se di fronte agli occhi non ho tutto l’armamentario, per es., il pallottoliere. Questa conoscenza in quanto έπιστήμη è caratterizzata dal fatto di non essere una ζήτησις,… Se è έπιστήμη vuol dire che so, che è una certezza. …poiché già si conosce: essa è dunque un sì. Anche la δόξα è in un certo modo un sì, un pensarla in una certa maniera sulla cosa, però si distingue dall’έπιστήμη in quanto appartiene alla δόξα. Ora, Heidegger considera qui un altro aspetto, e cioè l’όρθότης, che tendenzialmente si traduce con “adeguamento”, adæquatio rei et intellectus, come dire che la proposizione che afferma che Cesare in questo momento è qui di fronte a me è vera perché in questo momento Cesare è qui davanti a me. Quindi, devo presupporre che ci sia una cosa che è quella che è, come quella famosa proposizione di Tarski che dice “La neve è bianca se e soltanto se la neve è bianca”. La prima parte “La neve è bianca” è messa con le virgolette semplici, che in logica indica il nome della proposizione, per cui il nome della proposizione è vero se corrisponde a un dato di fatto. L’όρθότης. Se sono bene informato, in modo definitivo e compiuto, di una cosa, il senso di questa mia conoscenza implica di per sé che il conosciuto non possa essere “falso”, ψευδές, altrimenti non si tratterebbe di un’έπιστήμη. L’όρθότης presuppone che io sappia come stanno le cose; per es., che la neve è bianca e non verde. La δόξα deve avere όρθότης, essa implica la “direzione” verso, l’“essere direzionata” verso l’ἀλήθεια. L’“essere direzionata”: è così che Heidegger traduce όρθότης, quindi, non tanto come adeguatezza ma come l’essere direzionata verso l’ἀλήθεια: mostra la direzione in cui si trova la verità. L’“avere un’opinione” è infatti solo un’opinione, potrebbe anche essere altrimenti. In sé la δόξα è vera e falsa: potrebbe essere così, ma potrebbe anche essere altrimenti. L’essere direzionata verso l’ἀλήθεια è costitutivo per la δόξα, ed è per questo che essa implica la possibilità dello ψεῦδός (falso). Come dire che ogni pensiero è sempre e comunque direzionato verso l’ἀλήθεια. Perché? Perché l’ἀλήθεια, la verità, rappresenta il punto di arresto, il punto in cui mi fermo e, quindi, posso dire che le cose stanno così. Se la verità non costituisse un punto di arresto, questa verità sarebbe sempre spostata e, quindi, sempre da cercare. Sappiamo che il linguaggio funziona in questa maniera, cioè, pone qualche cosa, che deve essere finito per potere essere utilizzato, quindi ha bisogno della verità come qualche cosa che mi dice che lì mi posso arrestare, che lì mi posso fermare perché è così. Il “potrebbe anche essere altrimenti” è implicito nell’opinione stessa – essa implica cioè che io non possa affermare in modo assertorio: “Le cose stanno così”, poiché, al contrario, potrebbe anche essere altrimenti: noi supponiamo all’interno di una determinata φάσις (dire sì a qualcosa). La δόξα si distingue quindi anche dalla φαντασία. Φαντασία: l’“avere presente” qualcosa senza percepirlo direttamente, il mero “richiamare alla mente, immaginare”, può essere vero o falso come la δόξα. La φαντασία ha entrambe le possibilità, però le ha, per così dire, solo dall’esterno, mentre la δόξα ha la possibilità in se stessa. La φαντασία può anche essere, sì, falsa, nel senso che io, per es., posso ricordare male qualcosa. Però, la φαντασία è qualcosa di più interessante. Lui qui se la sbriga rapidamente, ma la φαντασία è una rappresentazione. In effetti, è la rappresentazione che presentifica nel pensiero ciò che non è immediatamente presente, evidente, ciò che non è sotto mano, direbbe Heidegger – non ce l’ho sotto mano però lo presentifico nel pensiero. E qui c’è una questione interessante, perché che cos’ho veramente sotto mano? Conosco veramente le cose o posso soltanto averne un’idea, in questo caso una φαντασία, una rappresentazione? Però, qui rappresentazione è una rappresentazione dove il rappresentato, di fatto, non c’è in quanto tale. C’è il rappresentante ma il rappresentato, ciò da cui la rappresentazione trae, per così dire, la sua forza; è difficile da stabilire perché sarebbe la determinazione del come stanno veramente le cose o del che cosa è veramente quella cosa. Se questo non posso conoscerlo, se non posso averne accesso, allora la rappresentazione sarà sempre rappresentazione di qualche cosa che, di fatto, non è mai presente, non è mai qui sotto mano. Quindi, la φαντασία è, in effetti, qualcosa che appare costitutiva della δόξα: ho un’opinione, mi faccio un’idea su qualche cosa, ma questo qualche cosa è un’altra φαντασία, è un altro pensiero, è un’altra idea, non è la cosa in sé. Il senso stesso dell’opinare implica di per sé il “può” – vero o falso. Δύνατοναδύνατον (possibile-impossibile). L’ἒνδοξον è quella modalità dell’essere orientati in cui si è orientati su quell’ente che può anche essere altrimenti. Ma se l’ente fosse sempre e comunque altrimenti, come ci diceva Eraclito, ἒν πάντα εἰναι? C’è la possibilità che l’opinione venga rivista. Invece, nel caso dell’ente che è sempre così com’è, e che è sempre ciò che è – nel caso dell’έπιστήμη –, non c’è revisione. Però, occorre che l’ente sia immutabile, cioè che sia sempre quello che è. La δόξα è il modo in cui “ci” è il mondo dell’essere l’uno con l’altro. A questo punto possiamo intendere la δόξα più semplicemente come il pensiero stesso, il νοεῖν, il pensare; questa è la δόξα, non è qualcosa che si aggiunge al pensiero ma è il pensiero stesso. Lo dirà tra breve. Per suo tramite, nell’essere l’uno con l’altro viene apportata la possibilità di essere un essere l’uno contro l’altro, nel senso che l’uno ha un’opinione, l’altro ne ha un’altra, poiché l’ente può anche essere altrimenti: la possibilità fondamentale del parlare l’uno contro l’altro. Qui ci potremmo porre una domanda: si parla mai altrimenti che così, se non uno contro l’altro? È un “contro” che non prevede necessariamente il prendersi a coltellate. Oggi non si usa più, un tempo sì, nel Medioevo c’erano le dispute religiose dove, in effetti, ci si ammazzava. Si è sempre uno contro l’altro. Qui Heidegger non se ne avvede, però è il modo di pensare Hegel, il posto e il suo negativo, l’uno contro l’altro, che poi, naturalmente, si integrano, e questa integrazione rende l’uno differente da sé. Ma è sempre l’uno contro l’altro: ciascun elemento è quello che è per via del fatto che non è quello che è, cioè, ha un suo negativo. La δόξα è il modo in cui abbiamo lì la vita nella sua quotidianità. È questa la vita: la δόξα. E non v’è dubbio che la vita non ne sa di se stessa al modo della scienza, in termini teoretici, poiché quest’ultima è solo una possibilità eccellente. La δόξα è il modo in cui la vita ne sa di se stessa. È ciò che la vita può sapere di sé. Lo scopo λόγοι ṕητορικοί, la formazione del πιστεύειν (convinzione), non è che la formazione di una δόξα, della corretta opinione su una cosa. Infatti, la δόξα implica l’elemento peculiare del πιστεύειν, prevede cioè una certa πίστις, una φάσις. La πίστις è il far credere, il persuadere. Cioè, io ho una corretta opinione su una cosa quando ne sono persuaso o, meglio ancora, quando riesco a persuadere altri. A pag. 169. Definiamo l’esserci, in base al suo carattere ontologico, in quanto “essere in un mondo”, più esattamente in quanto “essere l’uno con l’altro”… Che sappiamo “essere l’uno contro l’altro”, perché “l’uno con l’altro” vuol dire che parliamo, mentre “uno contro l’altro” vuol dire che ciascuno ha un’opinione che differisce o può differire da un’altra e, quindi, deve essere ricondotto al giusto modo di pensare. Questo avere in comune è un avere a che fare con il mondo in quanto prendersi cura del mondo. Prendersi cura del mondo è parlare con gli altri, è un dialogo continuo. Il carattere dell’avere a che fare consiste nel fatto che in questo “essere nel mondo” ne va dell’essere stesso. In effetti, l’essere non è altro che questo essere nel mondo, cioè, parlare: l’esserci non è altro che questo. Ci si prende cura dell’εύδαιμονία (felicità, soddisfacimento): nel prendersi cura di ciò con cui la vita ha a che fare, la vita stessa si prende cura del suo proprio essere. Se ne prende cura parlando, il parlare si prende continuamente cura di sé. Questo è il modo in cui il parlare si prende cura di sé: continuando a parlare. L’essere l’uno con l’altro nel modo del prendersi cura ha la determinazione fondamentale del parlare l’uno con l’altro, il λόγος è un fenomeno fondamentale della κοινωνία. È chiaro che si è insieme solo quando si parla, sennò non c’è nessuna κοινωνία, nessuna comunità: la comunità è sempre comunità di parlanti. Il λόγος ha la funzione fondamentale di rendere manifesto ciò in cui la vita in quanto “essere in un mondo” si trattiene: δηλοῡν (manifestare). Il λόγος manifesta ciò in cui la vita si trattiene. Manifesta che cosa? Il tutto, tutto ciò che ci riguarda, tutto ciò di cui ci occupiamo. Il λόγος è tutto quanto, potremmo dire che è il tutto. L’“essere nel mondo” è un essere che ha scoperto il mondo; l’essere “in” esso è orientato, il “ciò in cui è scoperto”. L’essere-in si trattiene in una determinata dimestichezza, da cui trae il suo orientamento. È chiaro che la dimestichezza, la familiarità, è l’opinione comune, la chiacchiera. In ultima analisi, ciò che vogliamo porre in luce è il fenomeno dell’essere-in, per comprendere, in base ad esso, la concettualità come una possibilità fondamentale. Solo se si è nel mondo si possono avere concetti. Ma si è nel mondo in quanto si parla gli uni con gli altri, quindi, la condizione per creare concetti è di essere parlanti gli uni con gli altri. A pag. 170. La dimestichezza con il mondo e, quindi, l’avere a che fare con esso e il vivere in esso sono supportati dal parlare inteso come il modo peculiare di mostrare ciò su cui ci si orienta. Parlando si mostra sempre. Parlare è sempre un’ipotiposi, è sempre un fare vedere, il dire esibisce, e sappiamo che il modo più efficace, più rapido, per persuadere è fare vedere. Il parlare l’uno con l’altro è quindi il filo conduttore per la scoperta del fenomeno fondamentale della svelatezza dell’esserci in quanto “essere in un mondo”. Come filo conduttore concreto assumiamo qui la retorica, nella misura in cui essa è l’interpretazione dell’esserci in riferimento alla possibilità fondamentale del parlare l’uno con l’altro. La retorica non è altro che il parlare l’uno con l’altro. La retorica ha il compito di porre in luce ciò che parla a favore di una cosa. Vi sono tre elementi che possono essere definiti “parlanti a favore di qualcosa”, tre πίστεις, in analogia con la struttura del parlare stesso: 1. il parlare di qualcosa, 2. il parlare a qualcuno, 3. l’essere-parlante stesso. Si parla sempre di qualcosa (λέγειν τί), se dico, dico qualcosa, ma lo dico a qualcuno. Certo, ma sono io che lo sto dicendo, il parlante. In tutti questi casi ciò di cui si parla si mostra nella determinazione fondamentale del poter anche essere altrimenti, dell’essere di volta in volta diverso. L’ente di cui si discorre nella vita di tutti i giorni non è l’άεί ὅν (l’ente che è sempre), ma l’ενδεχόμενον καί ἄλλως ἕκειν (quel possibile che può essere una cosa o l’altra, può cambiare continuamente), definibile anche come quell’ente che può essere più o meno ciò che in effetti è. Aristotele definisce il τέλος della πρᾶξις un τέλος κατά τόν καιρόνIl τέλος come fine dell’agire, della πρᾶξις. Il fine dell’agire è qualche cosa che tiene conto del καιρός, che per i greci è il momento opportuno per fare o non fare. …il “come, dove, quando, a chi” che fissa l’avere a che fare conforme all’essere è colto “nell’attimo”. Καιρός propriamente non è l’attimo, ma in questo caso, potremmo dire, è l’attimo favorevole. Ed è in riferimento al καιρός che si evidenzia un carattere del prendersi cura: esso oscilla sempre, non sta mai fermo. È su un ente siffatto che bisogna addurre determinate opinioni, formarle negli altri, portare l’esserci nella δόξα, procurare un ἒνδοξον (opinione) sul mondo. È un altro modo per dire che c’è l’opinione perché ciascuno è sempre contro l’altro: la mia opinione contro la tua. Ed è per questo che si parla, lui non se ne accorge, non lo vede, ma, in termini più radicali, è perché ciò che io dico è sempre qualche cosa d’altro rispetto al voler dire: il dire e il detto sono due cose differenti. Ed è lì che c’è il “nemico”, e cioè che per dire che cos’è questo devo dire ciò che questo non è, cioè il suo negativo, ed entrambi si coappartengono. È in questo senso che si è sempre “contro”, ciascuna cosa è “contro”: il dire è contro il detto. Potremmo addirittura azzardare che ogni dire è contraddetto dicendosi. Perveniamo così al modo fondamentale in cui viene avuto il mondo di cui ci si prende cura: la δόξα, termine tradotto con “avere un’opinione su qualcosa”, “la mia opinione in merito è…”, “sono a favore del fatto che…”. Aristotele ha trattato il fenomeno fondamentale della δόξα assai spesso e in molti modi. È lo stesso fenomeno che viene ampiamente discusso nei tardi dialoghi platonici, soprattutto nel Teeteto, nel Filebo e nel Sofista. /…/ Mi limito a caratterizzare la δόξα per lo più in termini schematici, senza intraprendere una vera e propria interpretazione del passo (Etica Nicomachea Z 10) che andremo a considerare. Delimitandoli rispetto a tre fenomeni affini, si evidenziano tre elementi della δόξα, che viene contrapposta: 1. al βουλεύεσθαι: che è un cercare, una ζήτησις (ricerca), un tendere verso una determinata opinione che voglio fare mia; tramite la riflessione voglio pervenire anzitutto al τέλος di una δόξα. L’intendimento è sempre lo stesso: giungere a un fine, a una verità. Ciò che noi chiamiamo fine è la verità, è ciò che mi consente di dire “è così”, quindi, di arrestare il percorso, non cerco più qualcosa ma l’ho trovata. Non si tratta di un sì: voglio soltanto appropriarmi di una determinata opinione su un dato di fatto, mentre la δόξα non è più un cercare, ma si colloca alla fine del cercare: è una φάσις (dire di sì). Nondimeno, benché essa sia un sì, non è comunque una conoscenza;… Questo βουλεύεσθαι è un cercare che lui contrappone alla δόξα, in quanto la δόξα non è più un cercare, ma ha già trovato. La δόξα si contrappone poi 2. all’έπιστήμη: l’“essere ben informato” su qualcosa è caratterizzato dal fatto che colui che conosce pensa la cosa in modo tale da orientarsi su di essa anche se non è lì presente. Essere ben informato su una cosa significa che ne sono sicuro. È per questo che ho έπιστήμη solo dell’ente che ha il carattere dell’άεί (sempre così). Il presupposto fondamentale della possibilità della conoscenza riguarda l’ente di cui si dà conoscenza, presume cioè che esso sia sempre così com’è, dunque non possa mutare; invece, di ciò che non è άεί qualcosa può mutare. Qualcosa che non è sempre può mutare. Qui, capite subito, che c’è un aspetto interessante: l’έπιστήμη presuppone che l’ente sia quello che è, sempre. Però, che significa che è sempre quello che è? Come lo verifico? In base a che cosa? Qui la questione si fa complessa, perché se io pre-sumo che l’ente sia sempre quello che è, devo avere un criterio di verità per poterlo affermare, che mi faccia dire “adesso è così, dopo è anche così, poi ancora è così, è sempre così”. A quale condizione io posso fare un’affermazione del genere? A quale condizione io posso immaginare che questa cosa non muti mai? C’è una sola condizione: che sia fuori del linguaggio. Solo così posso pensare che questo ente sia sempre, άεί, lo stesso, cioè, se è fuori de linguaggio. Perché se è nel linguaggio, cioè nel mondo, nell’esserci, allora è nel λόγος; non soltanto è nel λόγος ma è determinato dal λόγος. E qui torniamo alla questione della rappresentazione, della fantasia. Questo ente, che io ho di fronte e che voglia sia sempre lo stesso, è qualcosa che mi rappresento oppure colgo esattamente la cosa così com’è? Ma per coglierla così com’è non ci deve essere nessun medio tra me e la cosa, e allora con che cosa la percepisco? Fu il problema di Husserl, quando lui voleva cogliere la cosa in sé, in carne ed ossa, come diceva lui, ma poi alla fine si accorge che se non c’è un qualche cosa che mi consente di approcciare quella cosa, quella cosa non c’è perché non l’approccerò mai. Questa cosa che mi consente di approcciare quella cosa è ciò che chiamiamo linguaggio. Ma a questo punto il linguaggio, certo, mi consente di approcciare qualche cosa ma non mi consente di sapere ciò che sto approcciando: Zenone: vedo che Achille supera la tartaruga ma non lo so matematizzare, non lo so calcolare, non lo so conoscere.

Intervento: Questo perché introduco un’altra δόξα.

Bravo. Qui ci sarebbe un piccolo riferimento da fare. Il pensiero, secondo la tradizione, nasce con Talete, primo filosofo, era un matematico. Come dire che la prima necessità del pensiero fu quella di calcolare, calcolare come controllare, dominare, manipolare: solo se calcolo ne ho il controllo. Quindi, si capisce anche perché per gli antichi – per i Pitagorici, ma anche, in fondo, per Platone e per Aristotele, anche se con lui a cosa va scemando, ma fino a Platone sicuramente – la matematica era considerata il cardine di tutto il pensiero. Cosa aveva fatto scrivere Platone sul frontone dell’ingresso della sua scuola, l’accademia? Qui entrano solo i geometri. Geometri per gli antichi non aveva il significato odierno, aveva un altro significato, era qualcuno che sapeva calcolare, quindi, sapeva pensare, perché il pensiero era identificato come calcolo; cosa che a tutt’oggi la logica crede, e cioè che il pensiero sia identificabile con il calcolo, in questo caso con il calcolo proposizionale.

Intervento: …

Se è nel linguaggio muta continuamente. L’unico modo per poterlo utilizzare è la δόξα, l’opinione che mi dice che è così perché si dice che è così. A pag. 173. L’opinare, l’“avere un’opinione” su qualcosa, implica un “essere convinti” di tale opinione. A sua volta, l’essere convinti di qualcosa implica il λόγος, un “esprimere” ciò su cui si ha un’opinione. Questa è un’altra cosa importante: l’essere convinti di qualche cosa prevede il dire questa cosa, un esprimere ciò su cui si ha un’opinione. La δόξα è caratterizzata dal fatto che mi è presente qualcosa nel carattere dell’“in quanto così e così”, cioè di qualcosa espresso in parole. Vedete, gira sempre intorno alla questione del linguaggio. Non fa che parlare di linguaggio, anche in Aristotele questo richiamo al λόγος, al λέγειν, è ininterrotto. La differenza decisiva sta quindi nella delimitazione della δόξα rispetto alla προαίρεσις (intenzione), una differenza di cui Aristotele tratta nel libro IV, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea. L’accostamento tra δόξα e προαίρεσις può apparire a prima vista sorprendente. L’opinione ha a che fare con l’intenzione. In un primo momento, infatti, non si vede che cosa possono avere a che fare l’uno con l’altro l’“essere risoluto” nei confronti di qualcosa e l’“avere un’opinione” su qualcosa. Non si deve dimenticare però che la filosofia precedente – Platone – interpretava la προαίρεσις come una certa δόξα. Il fenomeno della προαίρεσις deve quindi contenere determinati elementi che autorizzano tale interpretazione – cosa che diventa evidente se traduciamo correttamente il termine δόξα: “Sono a favore del fatto che la cosa stia in questo e quest’altro modo”. Questa è la traduzione di Heidegger di δόξα. Se però dico “Sono risoluto a che una cosa venga fatta in questo e quest’altro modo”, allora è προαίρεσιςÈ un volere che le cose vadano in un certo modo. …Aristotele circoscrive la προαίρεσις (l’essere risoluti in qualche cosa) in quattro direzioni: a) rispetto all’έπιθυμία, l’“essere inclini” a qualcosa, l’“avere una propensione” per qualcosa, l’“essere in una disposizione”” verso qualcosa; b) rispetto al θυμός (stato d’animo), l’“essere in eccitazione”, l’“essere agitati” per…, l’“essere in preda alla passione” per…; c) rispetto alla βούλησις, il “desiderio”, il “desiderare qualcosa”; d) rispetto alla δόξα. I tre fenomeni menzionati per primi vengono descritti brevemente al solo scopo di far comprendere la προαίρεσις, poiché non v’è dubbio che essa sia una determinazione dell’άρετή (virtù). L’άρετή, intesa come il disporre di una possibilità di essere, viene ulteriormente esplicata in quanto ἓξις, l’“avere presso di sé” una determinata possibilità di essere in questo e quel modo. /…/ Nel complesso i cinque fenomeni vanno caratterizzati come un tendere a qualcosa nel senso dell’averla in anticipo… Tendo a qualcosa, ma ce l’ho già. Per questo tra breve parlerà della πρότασις. La πρότασις è l’antecedente di una inferenza, è il “se” del “se… allora”. Quindi, il tendere a qualcosa nel senso dell’averla in anticipo: ce l’ho già ciò a cui tendo. …in modo tale che ciò a cui si tende sia in un certo senso anticipatamente già presente – προαίρεσις. Il ciò a cui si tende è presente in anticipo. Il tendere a qualcosa nel senso dell’anticipo è implicito sia nell’έπιθυμία che nel θυμός. È del tutto evidente ne caso del desiderio. Ce l’ho già in anticipo. Va bene, ma ce l’ho in anticipo come? Attraverso la rappresentazione. Kant dice – non è proprio così, ma adesso lo interpreto un po’ – che è perché siamo parlanti che possiamo rappresentarci qualche cosa. Lui faceva l’esempio della lussuria e del suo contrapposto, cioè la vergogna. La lussuria non è altro che il tendere verso un godimento futuro, quindi non ancora presente ma immaginato e fortissimamente desiderato. Ma per potere fare questo occorre il linguaggio, occorre la rappresentazione, occorre la possibilità di anticipare un qualche cosa, che ancora non è dato ma che io anticipo, rendo presente nel mio pensiero, è lì che è presente. Quindi, tendere a qualcosa nel senso dell’averla in anticipo potrebbe benissimo essere la definizione di lussuria, nel senso in cui ne parla Kant. Infatti, la lussuria non c’è negli animali, così come non può esserci ovviamente nemmeno vergogna, negli umani sì, gli umani possono immaginare un godimento futuro e desiderarlo fortemente, gli animali no, perché non parlano, quindi, non c’è rappresentazione, non c’è l’idea del tempo, del prima, del presente e del dopo. Potremo quasi arrivare a dire che gli umani si sono inventati il tempo proprio per dare una forma, un senso a questa rappresentazione: se mi rappresento qualcosa che non c’è vuole dire che prima c’era, quindi c’è un prima, un adesso in cui me lo rappresento e un dopo in cui succederà quel che succederà. Anche la δόξα, però, implica un tendere a qualcosa, in direzione dell’ἀληθής (vero). Sì, perché anche la rappresentazione punta al vero, cioè è vero quello che io mi rappresento, deve essere vero, non posso rappresentarmi il falso. Posso farlo per errore ma, tendenzialmente, mi rappresento quel godimento, che immagino grandissimo. Questo è vero per me che lo sto pensando: ecco l’ἀληθής che compare. Quindi, questo tendere verso qualcosa della rappresentazione è sempre e comunque un tendere al vero. Il tendere a qualcosa, che propriamente ancora non possiedo, ma che già mi tiene occupato, è il fenomeno che induce a stabilire una connessione tra questi differenti fenomeni e la προαίρεσις. C’è qualcosa che non possiedo ma che già mi tiene occupato. A pag. 175. La προαίρεσις tende al πρακτόν, ovvero a ciò che nell’attimo presente è decisivo per un prendersi cura, a ciò che è in gioco a suo favore. La decisione si concentra su ciò. La προαίρεσις implica l’orientamento sull’attimo presente nel suo complesso – esso non è un cosiddetto “atto”, ma la possibilità autentica di essere nell’attimo. La προαίρεσις è come quell’attesa di essere nell’attimo, ma non è che sia nell’attimo, è quell’attesa, quel momento prima. Parla quindi del θυμός, che possiamo tradurre con “stato d’animo”. Dice Aristotele del θυμός: “Ciò che si afferra quando si è eccitati, in preda a una cieca passione, non ha nulla a che fare con ciò che si padroneggia tramite la decisione lucida e trasparente”. Inoltre, per quanto sembri così, la προαίρεσις non è una βούλησις. Adesso fa la differenza. La προαίρεσις è un dirigersi verso qualche cosa di possibile, che posso effettivamente fare; la βούλησις, invece, è sempre un andare verso ma anche qualcosa che non dipende da me, mentre la προαίρεσις è sempre diretta verso qualcosa che dipende da me. A pag. 176. Ci avviciniamo alla δόξα delimitandola rispetto a fenomeni affini: έπιστήμη (sapere certo), φαντασία (rappresentazione), βουλεύεσθαι (desiderare qualcosa che può anche essere impossibile), προαίρεσις (desiderare qualcosa che so essere possibile). Stiamo tentando di precisare la delimitazione rispetto alla προαίρεσις, che è oggettivamente di fondamentale importanza. /…/ Questo carattere è il tendere a qualcosa: ciò a cui si tende viene anticipato. Δόξα: “essere a favore di qualcosa”. Dice “ciò a cui si tende viene anticipato”. Certo, l’essere a favore indica un certo orientamento, è ovvio, però qui insiste una questione che passa inosservata ad Heidegger, e ancor più ad Aristotele. Questo tendere a qualcosa che viene anticipato, cioè una rappresentazione, essere orientati verso qualcosa che è già presente: in un certo qual modo è già finito, è già stabilito. Quando nella rappresentazione io mi rappresento questo qualcosa che sarà, io lo penso come qualcosa di compiuto, di definito, perché sennò non potrei pensarlo. Tuttavia il tendere nella δόξα non, per esempio, il carattere della ὂρεξις, cioè dell’“aspirare”. La δόξα è piuttosto un certo sì, essa è giunta a una fine e si è fermata. Questa è la cosa importante dell’opinione, è ciò a cui serve l’opinione. Le differenze tra προαίρεσις e δόξα addotte da Aristotele sono sette:… Le affronteremo mercoledì prossimo.