INDIETRO

 

 

22 febbraio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Questa sera riprendiamo le ultime pagine lette, illustrandole un po’ meglio, nel senso di articolarle, di renderle più accessibili. In quelle pagine la questione si incentrava sull’άγαθόν, sul bene, sul bene come fine. Occorre sempre tenere conto che quando si parla degli umani, dell’uomo, la definizione di Aristotele è sempre la stessa: ζῶον λόγον ἔχων, cioè, un vivente che parla. Dunque, il finito. L’άγαθόν, il bene, è il finito. Infatti, introduce questa parola, il τέλειον, il “ciò oltre cui nulla”, ed è questo che gli umani cercano: il finito oltre il quale nulla, cioè, qualche cosa che sia compiuta, quindi, definitiva, quindi, controllabile, gestibile. Tutto ciò che dice Heidegger va in questa direzione, e cioè il bene non è altro che la ricerca del finito, quindi, del controllabile, del controllato. È questa la questione principale, perché è quella che sottolinea la presenza della volontà di dominare l’ente, che è insita nel linguaggio, più propriamente, coappartiene al linguaggio. L’άγαθόν, il bene, è raggiungere il finito oltre il quale non c’è nulla, perché è l’unica cosa che importa, non c’è altro dopo. Tutti gli sforzi, tutto il tendere degli umani verso qualcosa, l’άγαθόν, non è altro che il tendere verso il finito, qualcosa di controllato, di controllabile, di definito, di determinato. E oltre questo non c’è niente, come dire che è l’unica cosa che agli umani interessa, ciò che chiamano “il bene”. Il bene in questa accezione, che non è un concetto astratto che nessuno sa bene cosa sia, ma il bene come soddisfacimento relativo al compiuto, al compimento di qualche cosa, perché finalmente è finito, è determinato, quindi, come dicevamo qualche volta fa, lo posso utilizzare, ché se non è finito non lo posso utilizzare. Pensate al concetto di universale. L’universale è stato inventato proprio per questo motivo, cioè per fare dei molti uno allo scopo di controllarli: ex pluribus unum, da molti uno. Questo perché se da molti non li riduco a uno, non li posso usare, non li controllo. Infatti, in ciascuna inferenza – sapete che per Aristotele sono la deduzione, l’induzione e l’abduzione – compare l’universale, in diverse posizioni ma compare sempre: nella deduzione come premessa maggiore; nell’induzione come conclusione; nell’abduzione come premessa minore. La questione dell’universale ci interessa perché, in effetti, questo concetto è stato inventato al fine di controllare i particolari. Il particolare è quello che è perché rinvia a un altro e, quindi, è difficile da controllare perché preso in una deriva senza fine. L’universale prende “tutti” questi particolari e li trasforma in una unità, in qualcosa di finito, quindi, di gestibile. Infatti, ogni affermazione che si fa la si pone come universale, anche se particolare la si pone come universale, perché solo l’universale è uno. Anche il particolare è uno, certo, ma è uno relativamente a un altro, l’universale no. Il problema dell’universale è che può trarsi solo tramite induzione. Questo Hegel lo aveva inteso molto bene. Non posso dedurre l’universale, perché lo dedurrei da un altro universale, innescando immediatamente un rinvio infinito; quindi, l’universale non lo deduco ma lo costruisco per induzione, cioè, per analogia. Lo costruisco letteralmente, non c’è in natura, non posso dedurlo da niente, ma lo costruisco. E l’induzione fa esattamente questo: costruisce un universale, mette insieme dei particolari, per cui “è sempre successo così, quindi succederà anche la prossima volta!”, e abbiamo fatto un universale, quindi, utilizzabile. Tutta la questione del finito, di cui parla Heidegger, può essere letta in modo interessante, per quanto ci riguarda, proprio perché sottolinea come la finitezza sia necessaria per la volontà di dominare l’ente. Ciò che chiamava il bene, άγαθόν, è quella soddisfazione che incontra nel momento in cui c’è l’idea di avere unificato i vari enti in una unità, che adesso controllo, che adesso ho sotto mano. L’universale serve a questo, è stato inventato per questo, è una forma di controllo. Può apparire strano, ma l’universale è ciò che consente di controllare, di gestire, perché il particolare, sì, posso pensarlo come uno, ma lo penso come uno in relazione a un altro. Il particolare è ciò che incontro, è l’ente; l’universale, invece, lo costruisco, lo costruisco in modo tale da essere gestibile. Tutte queste cose diventano uno e come tale le gestisco.

Intervento: Sarebbe come il popolo risetto ai cittadini.

Qualcosa del genere. Il popolo posso manipolarlo, anche i cittadini, però, uno per uno è complicato.

Intervento: Se immagino tutti gli italiani…

Esatto. “Tutti vogliono questo …”. Ma se poi si va a verificare uno per uno, magari non è proprio così; però, funziona come idea che tutti vogliano una certa cosa o che “tutti sono così”: ecco a che cosa serve l’universale. Questione che poi è stata sollevata nel Medioevo con la famosa disputa sugli universali, che in parte ancora oggi viene discussa, ma non ci interessa minimamente. A pag. 128. Emerge qui una definizione fondamentale dell’esserci: esso è un ente tale che nel suo essere ne va espressamente o non espressamente del proprio essere… Quindi, un essere che si prende cura del proprio essere. Come? Parlando, non ha altri modi …di modo che l’άπλῶς τέλειον (fine massimo) è ciò che costituisce in senso assoluto l’essere-finito dell’esserci,… Il fine massimo è l’essere finito dell’esserci, perché finché non è finito non posso fare niente. …ovvero la possibilità assoluta di essere dell’esserci stesso. Come dire che l’esserci può essere soltanto se è finito. Io posso pensarmi soltanto come finito. Tenendo conto di ciò che dicevamo prima, posso pensarmi soltanto come universale, tant’è che ciascuno pensa di sé di essere il centro dell’universo. Se l’esserci, in quanto “essere nel mondo”, è stato definito, in base ai τέλη (ἡδονή- τιμή, piacere-rispetto), un sentirsi-situato, allora la possibilità di essere designerà una situatività, cioè la modalità dell’esserci in quanto διαγωγή, “permanere” in un mondo. Questo esserci nel senso più autentico ha la sua possibilità di attuazione nel θεωρεῑν. Questa è l’idea dei greci: soltanto lo ζῶον θεωρητικόν è in grado di pensarsi. Qui si apre una questione, cui potremmo accennare. In effetti, questo ϐίος θεωρητικός, questo vivere teoretico, in che modo si pone come τέλος, come qualcosa a cui tendere? Potremmo indicare così il vivere teoretico: quel vivere che non ha più da dominare gli enti perché li ha già dominati. Non gli enti particolari, ma l’ente in quanto ente: è questo che ha dominato e lo ha dominato perché sa che cos’è, e cioè sa che è una parola, che questo ente che ha di fronte, qualunque cosa sia, è una parola, un discorso. Anche in questo senso può intendersi ciò che dice Heidegger, e cioè che l’uomo è un dialogo: è un parlare, ha sempre a che fare con parole; anche quella cosa che ha di fronte è una parola, è un discorso. Io vedo Tizio, Caio, Sempronio, ma sono discorsi, sono discorsi ciò con cui io ho a che fare continuamente; non è la cosa, lui o lei in quanto tale, che tra l’altro non è mai esistito, ma è il discorso che io costruisco relativamente a quell’ente, a quella cosa che io immagino un ente, che in realtà è una parola, un discorso. Quindi, il vivere teoretico è quel vivere che non ha più bisogno di considerare gli enti in quanto enti, in quanto non parole, ma in quanto invece parole, discorsi; in questo senso ha già dominato gli enti, o meglio, l’ente in generale. Questo è un modo interessante di porre la questione dello ζῶον θεωρητικόν, del vivere teoretico, un vivere che non ha più bisogno di dominare gli enti, perché sa che ciascun ente non è altro che un discorso, un discorso che lui va facendo. Che è un altro modo per intendere ciò che diceva Heidegger quando dice che “ciascuno è il mondo in cui è situato”. O, ancora, ciò che diceva Gentile: quando io penso qualcosa, di fatto, penso il mio pensiero, non penso quella cosa lì, che non c’è, mentre c’è il mio pensiero, il mio discorso. Quindi, ciò con cui ha a che fare l’ente è un discorso, il mio discorso, non il suo ma il mio. Questa definizione, secondo cui, in ultima analisi, l’essere dell’esserci è quello che costituisce in senso assoluto l’esserci nel suo “Ci”, risuona nella definizione kantiana dell’uomo: la creatura razionale esiste come scopo a se stessa. È un modo ancora abbastanza marginale per indicare ciò cui stavo alludendo prima, e cioè che ciascuno è sempre e comunque nel proprio discorso. Il discorso che fa l’altro, come si suole dire, che si ascolta, io lo accolgo ma come “mio” discorso. Del discorso che fa l’altro non ne so nulla, ma dal momento in cui l’altro inizia a parlare partecipa del mio discorso. A pag. 129. Insomma, ciò che alla fine costituisce l’άπλῶς τέλειον di un ente che “ci” è... Questo “ci” è sempre per noi, ma più propriamente per me, come dire che qualcosa c’è per me. …è l’essere stesso dell’uomo. Il massimo fine è l’essere stesso, che si determina nel momento in cui si pone come finito, perché abbiamo visto che se non si pone finito non posso utilizzarlo in alcun modo. È questo άπλῶς τέλειον è ciò che si intende con l’espressione εύδαιμονία (felicità). La felicità è il raggiungimento di questo massimo fine, che è qualcosa di compiuto, di finito, di determinato. Definendo il significato di εύδαιμονία in base all’esserci stesso, Aristotele attribuisce a questo concetto popolare e corrente un senso specificamente filosofico. Nel contesto di questa chiarificazione dell’εύδαιμονία in quanto άπλῶς τέλειον, egli fornisce inoltre un’integrazione del τέλειον che indica in che senso esso si determini in quanto τέλειον dell’esserci dell’uomo. L’essenziale essere-riferito del τέλειον in quanto costituente l’essere-finito si esprime nella definizione dell’αὒταρκες (autosufficienza): “Quel particolare bene che rende finito l’esserci dell’uomo sembra bastare a se stesso, essere autosufficiente. (Poiché però, a dire il vero, l’uomo, secondo la sua propria possibilità di essere, è una creatura che vive nell’“essere l’uno con l’altro”, uno ζῶον πολιτικόν), la definizione di τέλειον in quanto “autosufficiente” non può essere riferita al singolo, ecc. Vedete qui questo αὒταρκες, cioè l’essere autosufficiente di questo fine, non ha bisogno di altro: una volta che ho raggiunto il finito, il compiuto, non mi serve altro, e non mi serve altro perché da quel momento è utilizzabile e, quindi, lo utilizzo. Cessa a quel punto di essere un problema, nell’accezione heideggeriana del termine, cioè diventa un utilizzabile, come qualunque altra cosa. A pag. 130. Una definizione dell’εύδαιμονία: essa non è, ad esempio, qualcosa di “sommato”, non è una somma. Aristotele vuol dire: anche supposto che, come evidenzia la definizione di αὒταρκες, a costituire l’essere-finito dell’esserci sia una molteplicità di riferimenti, bisogna comunque tenere conto del fatto che qui non si tratta di una somma, di una quantità, poiché né il τέλειον né la molteplicità di riferimenti vanno concepiti come somma, bensì in base all’essere il cui τέλειον è l’εύδαιμονία, cioè in base alla πρᾶξις (agire); e il τέλειον dell’esserci non è un “che cosa” ottenuto per addizione – qualcosa che si potrebbe sommare –, ma un “come” dell’εὖ (buono), εύζωία (vivere bene), ciò che, appunto, costituisce l’autentico τέλειον dell’esserci. Un altro riferimento all’idea dell’εύδαιμονία, della felicità, che poi non è altro che il τέλειον, ciò che si deve raggiungere. È qualcosa di finito, di conchiuso, di determinato. A pag. 131. Aristotele fornisce un filo conduttore generale per l’analisi dell’άγαθόν: trovo l’άγαθόν di un ente se considero il suo ἒργον. ἒργον generalmente si traduce con “forza”, ma Heidegger lo traduce come un agire per sé, un prendersi cura. In ogni πρᾶξις è sempre presente un ἒργον. Sembra quindi che l’άγαθόν in quanto tale possa essere trovato nell’operare stesso. Sta dicendo che l’umano, il parlante, è qualcuno che raggiunge parlando il suo bene, la sua soddisfazione, perché qui l’agire è l’agire del λόγος. Non dimentichiamo mai che l’esserci è sempre ζῶον λόγον ἔχον, un parlante. Se mi interrogo circa l’άνθρώπινον άγαθόν debbo prestare attenzione a ciò che, nell’esserci dell’uomo, è άνθρώπινον ἒργον, ovvero quel particolare prendersi cura dell’esserci umano che costituisce l’essere dell’uomo in quanto tale. Un prendersi cura che è un prendersi cura con la parola. A pag. 132. Dobbiamo sempre tenere concretamente presente l’uomo, così da poter cogliere altre modalità della vita. Nell’uomo “resta” dunque soltanto un modo dell’“essere nel mondo” tale da potersi rendere cura di qualcosa al suo interno; il “prendersi cura caratteristico di un ente che parla”. L’ϊδιον ἒργον, il modo proprio dell’uomo, è la πρᾶξις, definita come modo dell’“essere nel mondo”, e precisamente parlando, μετά λόγου (nel linguaggio), κατά λόγου (lungo il linguaggio). Questo prendersi cura va sempre tenuto ben presente, perché è un prendersi cura di un essere parlante. Il prendersi cura è nel λόγος, e lo dice espressamente: μετά λόγου e κατά λόγου, nel linguaggio e secondo il linguaggio. A pag. 133. Ciò di cui ne va è il modo autentico dell’esserci, affinché ciò di cui ci si deve prendere cura sia presente in se stesso, l’ἒργον “ci” sia, in modo tale che l’uomo sia nell’ἒργον, κατένέργειαν. Che si prenda cura secondo la cura stessa. Ma la cura stessa è il dire, è il λόγος. Il κατένέργειαν consente un’ulteriore determinazione ontologica. Sappiamo che l’essere dell’uomo è contraddistinto dall’άρετή, cioè dal modo dell’essere in cui il τέλος è avuto… Generalmente, άρετή viene tradotto con “virtù”, però qui è qualcosa di più per Heidegger, non è soltanto la virtù, ma è il modo particolare in cui ciascuno ha il suo τέλος, il suo tendere a qualche cosa. L’ένέργεια è quindi: /…/ nell’ipotesi che l’ἒργον sia assunto nella sua possibilità di essere più propria, in quanto compientesi nell’άρετή, in quanto effettivamente lì presente. /…/ Si evidenzia così che l’ἒργον dell’uomo è πρακτική ζωή (vita pratica). Ma la vita pratica è sempre nel λόγος, non esce da lì. Questo agire è l’agire del λόγος. Dunque, se il τέλος dell’uomo non sta al di fuori dell’uomo medesimo, bensì in esso in quanto sua possibilità di essere, allora l’άνθρώπινον άγαθόν è la ζωή stessa, la “vita” stessa. Il bene dell’uomo è la sua stessa vita, il suo stesso esserci. L’ἒργον è la vita stessa, concepita nel senso dell’“essere nel mondo” μετά λόγου (nel linguaggio), in modo tale cioè che in essa si parli. Vedete questo martellante e continuo rinvio al fatto che si sta parlando, che qualunque cosa si stia dicendo, descrivendo, è qualcosa che avviene nel linguaggio. L’άνθρώπινον άγαθόν è quindi ψυχῆς ένέργεια κατάρετήν (agire della vita secondo virtù). Questa virtù non è che nel modo del linguaggio. La ψυχῆ è definita come ciò che costituisce l’essere del vivente. L’“essere nel mondo” in quanto ένέργεια è una possibilità determinata del prendersi cura, della πρᾶξις, in quanto posta in opera, e questo “porre in opera” è concepito seriamente in quanto εὖ, in modo tale che l’ultima possibilità di essere venga colta alla sua fine. Questa fine è la possibilità di cogliere la propria πρᾶξις, il proprio agire. Il proprio agire si conchiude, si pone in essere nel momento in cui è finito. Da qui tutta la discussione che faceva intorno alla morte: la morte è quel momento in cui la vita ha un senso finito, perché non può aggiungere né togliere altro. È questo il senso della famosa frase di Heidegger, “l’essere è essere per la morte”, perché soltanto lì si chiude la sua ultima possibilità di essere, sennò è sempre un essere in divenire. A pag. 135. La nostra analisi è giunta a una conclusione provvisoria nella misura in cui abbiamo posto in luce le determinazioni fondamentali riguardanti l’essere dell’uomo. L’essere dell’uomo è tale quando conclude la sua possibilità, cioè, quando trova una fine, una chiusura, una delimitazione, trova letteralmente un’affermazione, cioè si ferma (ad-fermare), si ferma su qualche cosa, e allora si mette in atto la possibilità, cioè, soltanto quando si trova ad avere a che fare con il finito. Da qui la necessità del finito, anzi, il finito è la sua εύδαιμονία, la sua felicità, la sua gioia. Senza fine, nel senso del finito, del conchiuso, non c’è nessuna εύδαιμονία, non c’è niente. Siamo pervenuti alla definizione dell’essere della ζωή dell’uomo, che Aristotele definisce appunto ψυχῆς ένέργεια κατάρετήν τέλείαν. L’ένέργεια è un carattere di quell’ente che è animato e che è nel modo dell’essere in un mondo. Ένέργεια è un carattere dell’uomo, del parlante, e lo definisce come il modo dell’essere in un mondo. Ένέργεια è anche agire, da cui anche “energia”, la forza dell’agire. Però, lui dice che ένέργεια è una caratteristica del modo in cui ciascuno è. Vediamo come. La ζωή è una vita tale da esserci in maniera attiva, sicché questo esserci vive propriamente nel prendersi cura: essa ha il suo τέλος così da portare l’esserci dell’uomo alla sua fine autentica. Cosa vuol dire tutto ciò? Questa vita raggiunge il suo essere nel momento in cui qualche cosa si conclude, si compie; in quel momento è compiuto, in quel momento ha esaurito le sue possibilità. Tornate all’esempio che facevo prima dell’universale. L’universale sarebbe il τέλος, il finito, ciò che ha esaurito tutte le possibilità dei particolari, che vengono tutti compresi nell’universale. Pensate ancora al concetto di concreto di Severino: il concreto sarà il tutto nel momento in cui tutti gli astratti parteciperanno del concreto, come dire che solo a quel punto ho il tutto, cioè ho qualcosa di utilizzabile. Quindi, questa vita ha bisogno del finito come sua stessa possibilità di essere. Ci sta dicendo che ciascuno cerca di affermare qualche cosa, di stabilire come stanno le cose, per essere: io sono se domino gli enti. A pag. 136. Poniamo l’accento sul μετά λόγου (lungo, per via, attraverso il discorso) interrogandoci sul λόγος, cioè su quel parlare del mondo e rivolgersi al mondo in cui il concetto e la concettualità sono di casa. Certo, perché noi parliamo sempre per concetti. Il concetto non è altro che il pensato. Se l’ho pensato vuol dire che ho costruito un qualche cosa con una premessa, dei passaggi e una conclusione. Questo è il pensato, il concetto. Siamo alla ricerca della base, della fondatezza della formazione del concetto nell’esserci stesso. Cioè: come l’umano, il parlante, si crea un concetto. Come fa? La formazione del concetto non è una faccenda casuale, ma una possibilità fondamentale dell’esserci, nella misura in cui esso si è deciso per la scienza. Senza concetti non si va da nessuna parte, perché il concetto è il pensato, e se non qualcosa non è pensato non lo posso utilizzare, perché è niente. Il concetto, il pensato, è qualche cosa che è giunto a una fine, come se avesse esaurito le sue possibilità e, quindi, si è stabilito come fine, come εύδαιμονία, felicità. Qualcuno, per esempio, può essere soddisfatto dall’avere costruito un concetto soddisfacente. La definizione provvisoria di ζῶον λόγον ἔχον ci ha già fatto comprendere che vi si manifesta un carattere fondamentale dell’esserci in quanto ζῶον πολιτικόν: l’uomo è nel modo dell’essere l’uno con l’altro, la determinazione fondamentale del suo essere è l’essere l’uno con l’altro. È un parlante, sì, ma un parlante che dialoga. Dialogare (δια-λόγος) è un parlare verso, attraverso, con… non necessariamente in due, uno può dialogare con molte persone. A sua volta, l’essere l’uno con l’altro ha la sua possibilità fondamentale nel parlare, e precisamente nel parlare l’uno con l’altro – parlare inteso in quanto “esprimere se stessi” nel “parlare di qualcosa”. Ecco, lo dice: “esprimere se stessi” nel “parlare di qualcosa”. Quando io parlo di qualcosa esprimo me, non la cosa di cui parlo. Ecco Gentile: quando penso qualcosa penso i miei pensieri e non quel qualcosa. Il λόγος entra in funzione non solo in questa determinazione fondamentale, ma anche proprio là dove Aristotele si interroga sulle possibili άρεται (virtù, modi di accedere al fine). Articoleremo l’analisi di questo argomento seguendo il filo conduttore dell’indagine che Aristotele stesso svolge in merito al λόγον ἔχων. Il λόγον ἔχων è stato chiarito in modo superficiale. /…/ L’esserci dell’uomo, caratterizzato in quanto λόγον ἔχων, viene definito da Aristotele precisando che nell’uomo anche il suo essere-parlante svolge un ruolo fondamentale. Nell’essere l’uno con l’altro, l’uno può essere colui che parla, l’altro colui che ascolta. L’άκούειν, l’“udire”, è l’autentica αἴσθησις (percezione). In questo momento sposta l’accento della percezione, dal vedere, che sappiamo essere fondamentale per i greci, al sentire, all’ascoltare. Benché sia la vista, connessa al θεωρεῑν, a manifestare in senso proprio il mondo, in realtà a far ciò è l’udito, poiché esso è la percezione del parlare, è la possibilità dell’essere l’uno con l’altro. L’uomo non è soltanto un parlante e un ascoltante, bensì è di per sé un ente tale da ascoltare se stesso. Il parlare, in quanto “esprimersi su qualcosa”, è nel contempo un “parlare a se stessi”, sicché la definizione di λόγον ἔχον racchiude in sé ancora qualcos’altro: l’uomo ha il λόγος anche nel senso che presta ascolto a questo suo proprio parlare. Non soltanto parlando parlo di me, ma anche nel dialogo è come se parlassi sempre con me. Certo, sento ciò che l’altro dice, ma come lo sento? Lo sento in base al discorso che io stesso sono; come dire che io sono quel discorso che, ascoltando qualcun altro, proietta su quell’altro sempre il mio discorso. Certo, a partire da quello che l’altro dice, ci sono degli elementi che ovviamente intervengono, ma anche parlando nel cosiddetto soliloquio intervengono delle parole, delle sensazioni, delle cose che mi fanno continuamente modificare il mio discorso. Nell’uomo si dà quindi una possibilità di essere da caratterizzarsi come ύπακούειν (uditore). Aristotele ricava la dimostrazione di questo fenomeno fondamentale dalle concrete circostanze dell’esistenza, da fenomeni peculiari cui egli accenna nel libro I, capitolo 13, dell’Etica Nicomachea: si tratta di ciò che egli designa come “esortazione”, “ammonimento” e “rimprovero”. Tutti questi modi del parlare naturale l’uno con l’altro implicano la pretesa che l’altro non si limiti a prendere conoscenza di qualcosa, ma lo recepisca, lo segua, lo ricordi, dunque ripeta ciò di cui si è parlato, in modo che, ripetendolo, gli presta ascolto. Ne consegue che l’essere dell’uomo in quanto prendentesi cura implica la possibilità che presti ascolto al suo parlare. Dice che tutti questi modi del parlare naturale l’uno con l’altro implicano, non così casualmente, la pretesa che l’altro recepisca, segua. Ci sta dicendo che si parla per modificare l’altro, che è un discorso anche lui, naturalmente. L’intenzione qui è abbastanza chiara. Infatti, parla di esortazione, ammonimento, rimprovero, cioè, di far fare qualcosa all’altro, modificarlo; ovviamente, se immagino che l’altro sia un ente e non il mio discorso. Sta qui, per tornare a ciò che dicevamo all’inizio, la differenza tra il vivere teoretico e il vivere inseguendo gli enti, correndo dietro agli enti. Più precisamente, questa possibilità dell’ascoltare, questo άκουστικόν, convive con il modo dell’essere che è fondamentalmente implicito nella πρᾶξις, cioè la ὂρεξις (desiderio, intenzione). Tutto questo modo di parlare, di ascoltare, ecc., è ciò che è implicito nella πρᾶξις, cioè, l’agire è fatto di questo, di parlare e di ascoltare. Ogni prendersi cura implica una tendenza, tende a qualcosa, a un άγαθόν, che “ci” è sempre in quanto λεγόμενον , “ciò a cui ci si rivolge”. Ogni prendersi cura implica un tendere a qualcosa cui ci si rivolge, e questo qualcosa è l’άγαθόν in quanto λεγόμενον. Questo λεγόμενον ha a che fare naturalmente con il λέγειν, con il λόγος. Λεγόμενον è anche tradotto come detto, per cui a questo punto potremmo dire che “ci” è in quanto detto, che il ciò a cui ci si rivolge, il detto, ciò che si è ascoltato. Questo tendere presta ascolto a ciò che si dice, alla direttiva riguardante ciò di cui ci si deve prendere cura e come lo si debba fare. Vediamo con più chiarezza che il vivere prendentesi cura, che implica in sé il parlare, parla in modo tale da prestare ascolto a se stesso. Prendersi cura non è altro che prestare ascolto a ciò che si dice; non è il darsi da fare con qualcosa, ma è principalmente e soprattutto questo: prendersi cura del proprio discorso. La ζωή πρακτική μετά λόγου (la vita agìta secondo il linguaggio) parla in modo da prestare ascolto, essa stessa, a se stessa. È qualcosa che si avvicina a ciò che dicevo prima rispetto al vivere teoretico, quel vivere che, anziché correre dietro agli enti, ascolta il proprio pensiero; perché ha già dominato l’ente, nel senso che lo ha già compreso in quanto parola, in quanto discorso e non più come cose da inseguire. Sappiamo bene che la smania degli umani è di correre dietro agli enti, qualunque cosa siano, non ha importanza; l’importante è che ce ne sia sempre uno sotto mano da inseguire, da afferrare, da dominare. Se, invece, l’ente, non gli enti ma l’ente, è già compreso in quanto discorso, ecco che cessa la necessità di correre dietro agli enti, che a questo punto non hanno più alcun interesse, non hanno più niente da dire. L’unica cosa che ha propriamente da dire è il pensiero, è lui che ha da dire, è l’unico discorso con cui io, non solo ho a che fare, ma “posso” avere a che fare, cioè non avere a che fare se non con il mio discorso, anche quando sto a sentire ciò che altri mi dicono. Ora, però, questo prestare ascolto – prendentesi cura – al parlare non è, in quanto ὂρεξις (intenzione), propriamente un parlare, poiché è un parlare solo nella misura in cui presta ascolto al parlare. Non essendo propriamente un parlare, Aristotele lo designa come ἂλογον. Il che peraltro non significa che esso sia privo di riferimenti al parlare, ma non lo è κυρίως (maggiormente), la ὂρεξις non è primariamente un parlare. Dice che non è un parlare, ma è ovvio che è nel linguaggio anche lui, sennò non esisterebbe, non sarebbe mai esistito. Senza linguaggio non posso desiderare né bramare alcunché. A pag. 138. È questo il filo conduttore per la suddivisione delle possibili άρεται (virtù, modi approcciarsi al fine, al τέλος). Vi sono άρεται, modi della possibilità di essere, che si orientano sul parlare, riflettere, concepire in senso proprio. Vi sono poi modi del poter disporre dell’essere nei quali il λόγος e, sì, implicitamente presente, ma l’elemento decisivo sta nella “scelta deliberata”, nella προαίρεσις (intenzione). Nel primo caso si hanno le άρεται διανοηθικαί (virtù dianoetiche, quelle che riguardano il pensiero) nel secondo le άρεται ήθικαί (virtù che riguardano l’etica, il modo di condursi). Διανοεῖσθαι: “pensare”, “supporre”, “riflettere” in modo approfondito. ‘Ηθικός non significa “etico”; quando si parla di “virtù etiche” non bisogna prendere superficialmente la cosa troppo alla lettera. ‘Ηθος significa il “comportamento” dell’uomo, il modo in cui egli “ci” è, come si comporta in quanto uomo, come si presenta nell’essere l’uno con l’altro – come un oratore parla, qual è il suo comportamento in tutte queste circostanze, come si atteggia nei confronti delle cose di cui parla. Cioè: come “ci” è in ciò che dice. A pag. 139. L’uomo è un ente che parla. Questa definizione non è una scoperta di Aristotele. Egli afferma espressamente di riportare un ἒνδοξον (opinione), una δόξα dominante nell’esistenza greca. Già prima di Aristotele i greci vedevano nell’uomo un ente che parla. Persino la distinzione tra ζῶον λόγον ἔχον e ἂλογον risale agli έξωτερικοί λόγοι (discorsi esoterici). Έξωτερικοί λόγοι: a lungo ci si è arrovellati per trovare il vero significato di questa espressione. Si è formata e diffusa l’opinione che con essa si intendano i dialoghi di Aristotele, cioè quella parte dei suoi scritti che era stata pubblicata. Si tratta di un’opinione insostenibile. Il vero senso degli έξωτερικοί λόγοι è stato posto in luce per la prima volta nel 1883 da Diels negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Berlino. Jaeger ha ripreso questa ipotesi sfruttandola efficacemente per la definizione del carattere letterario degli scritti aristotelici. Έξωτερικοί λόγοι è il modo di parlare al di fuori della scienza, il “così si dice”, e ciò che si deposita in discorsi di questo genere. Quando assume l’ἂλογον in quanto determinazione fondamentale dell’uomo, Aristotele si richiama esplicitamente a tale λόγος. Questa circostanza ci offre un’indicazione essenziale circa il fatto che, se la definizione ζῶον λόγον ἔχον è così fondamentale, la relativa indagine di Aristotele deve avere un terreno reale, nella misura in cui non è casuale che i greci, nella loro autointerpretazione naturale dell’esserci, definiscano l’uomo uno ζῶον λόγον ἔχον. Noi non abbiamo una definizione corrispondente. Qualcosa del genere potrebbe suonare al massimo come: “L’uomo è un essere vivente che legge giornali”. Questo per dare l’idea di che cosa intendevano loro. Chiaramente, Aristotele non aveva a disposizione i quotidiani, però è un modo abbastanza efficace di pensare la cosa. Uno che legge i giornali, che cioè vuole conoscere le cose, vuole discutere, anche con ciò che legge per discuterne con altri, ecc., cioè: l’uomo è un dialogo. A pag. 140. Quando i greci dicono: “L’uomo è un essere vivente che parla”, non intendono ciò nel senso fisiologico che egli emette determinati suoni, bensì: “L’uomo è un essere vivente che ha il suo esserci autentico nel colloquio e nel discorso”. I greci esistevano nel discorso. Il retore è colui che detiene il potere effettivo sull’esserci: ρητορική πειθούς δημιουργός, il sapere discorrere è la possibilità che mi dà modo di esercitare il dominio effettivo sulle convinzioni degli uomini nel loro essere l’uno con l’altro. Il saper discorrere, dunque, è la possibilità di dominare.