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22  gennaio 1998

 

Parleremo questa sera della sovrapposizione fra la logica e la retorica, sovrapposizione che non procede senza intoppi. In effetti, la più parte delle affermazioni sono costruzioni retoriche che vengono prese come proposizioni logiche e quindi necessarie. Ma, che cosa comporta questa sovrapposizione, perché ciò di cui si tratta è intendere di volta in volta che ciò che viene affermato in un qualunque discorso; essendo una costruzione retorica, non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale, logicamente parlando, in quanto la sua verità è strettamente connessa con le regole del gioco in cui questa affermazione è inserita, mentre generalmente si è inclini a considerare questa affermazione come una verità atemporale, fuori dal tempo, vera sempre necessariamente. Tutto ciò che dalla stessa logica, o ciò che comunemente è inteso con logica, da quella aristotelica in poi, è stato posto come necessario, risulta non esserlo dal momento che il problema sostanziale è sempre stato ed è a tutt’oggi quello di potere stabilire a quali condizioni possiamo parlare di verità, a quali condizioni cioè è possibile affermare qualche cosa che sia necessario. E qui il pensiero si è sbizzarrito, con tutto ciò che ne è seguito, ma ciò che viene affermato, qualunque cosa esso sia, se non è richiesto tutto questo, cioè di sottoporsi o di subire l’esame del criterio vero-funzionale, cessa ovviamente di doversi appellare ad un criterio superiore, quale ad esempio una figura retorica rispetto alla quale a nessuno passerebbe in mente di chiedere se è vera o falsa. Ma le cose in cui credo, quelle in cui credo più fortemente, più fermamente, se le considerassi figure retoriche per esempio, cosa accadrebbe? Qui dobbiamo aprire una piccola parentesi rispetto credere, sul quale tanto si è detto. Intanto, come possiamo definire questa operazione? Potremmo dire intanto che con credere intendiamo dare il proprio assenso ad un’affermazione in modo incondizionato; vuol dire che questo assenso non ha alcun dubbio, posta in questo modo allora, cessare di credere vale a sospendere il proprio assenso nei confronti di una affermazione. Questione non marginale questa dal momento che ciò che io credo vero pilota, per così dire, tutto ciò che faccio, o in buona parte, quantomeno le cose più importanti, cioè mi muovo tenendo conto di ciò che credo, faccio le cose che credo utili, sagge, opportune, buone, virtuose, a seconda dei casi, e non faccio quelle che invece reputo contrarie alle precedenti. In ogni caso, se le faccio, questo non andrà senza nessuna conseguenza, prima fra tutte quella di sapere di avere fatto qualcosa che non avrei dovuto fare. Dunque, le cose in cui credo hanno un’importanza nella economia del mio discorso piuttosto notevole, piuttosto pesante; ma questo non significa affatto che, facendo l’ipotesi in cui io non creda a nulla, se faccio le cose con criterio e non credo a nulla, allora non faccio nulla. Ma se non credo dunque, cioè non do il mio assenso incondizionato a nessuna affermazione, ma considero ciascuna affermazione come figura retorica e quindi come una proposizione, diciamo come una affermazione che non richiede di essere considerata vera o falsa, allora avviene un fenomeno bizzarro e cioè questo: che mi trovo a muovermi in una mobilità assoluta cioè non c’è nessuna affermazione, nessuna proposizione che sia in condizione di arrestare il mio discorso e una volta arrestato, in base a questo arresto, significare tutto ciò che faccio. Facciamo un esempio: se io fossi un fervente cattolico, per esempio, tutto ciò che mi trovo a fare, a pensare, a dire, tiene conto di questo modo di pensare e in base a questo io costruisco la mia  visione delle cose. Cioè per me le cose stanno così, in quel caso per esempio che tutto esiste perché Dio lo ha voluto, io sono fatto in un certo modo per rendere gloria a Lui ecc.

Allora, dicevo, che le cose che credo sono quelle che mi dirigono, mi danno la direzione del percorso che sto facendo; ma come avviene che io creda a qualcosa? E’ piuttosto singolare che in effetti gli umani si trovino a credere delle cose piuttosto che no, considerato il fatto che hanno tutti gli strumenti per potere concludere che attribuire il proprio assenso in modo incondizionato a una qualunque proposizione è un’operazione arbitraria, gratuita cioè non necessaria. Dunque, come avviene che si creda in qualcosa anziché nulla? Credere è, nell’accezione che abbiamo indicata, uno dei pilastri della struttura di quel discorso che si indica come discorso religioso, perché per dare il mio assenso incondizionato in qualche cosa, devo supporre che questo qualche cosa non vari, non muti, non stia continuamente a trasformarsi, altrimenti l’oggetto della mia credenza mi sfugge e dunque occorre che un elemento sia assolutamente fermo, stabile. Potrebbe essere questo elemento un elemento del linguaggio? Dipende, perché posso anche credere che questo elemento in cui credo è un elemento del linguaggio e che il linguaggio, per esempio è un fatto naturale che procede da alcune cose che magari si ignorano, ma che tuttavia ha una causa da qualche parte, ha un fine. Questo credere, in effetti, può assumere le configurazioni più disparate, posso credere ad esempio che nulla sia fuori dalla parola; in questo caso darei il mio assenso incondizionato a questa proposizione, visto che abbiamo definito il credere come dare l’assenso incondizionato ad una proposizione: in questo caso dunque crederei che nessun elemento è fuori dalla parola. Posto in quest’accezione possiamo verificare se è proprio così: possiamo dare il nostro assenso incondizionato a questa proposizione che afferma che nulla è al di fuori della parola? Cioè dire che è assolutamente vero? Qui possiamo incominciare a porci delle questioni: è poi proprio sicuro che do il mio assenso incondizionato, nel senso che credo proprio che questa proposizione sia vera? Oppure no, non credo che sia vera, il che non comporta necessariamente che sia falsa. Supponiamo che  non creda che questa proposizione che afferma che nulla che sia fuori dalla parola sia vera e non lo credo perché il mio assenso non è incondizionato, ma è condizionato ad una richiesta che per esempio può essere quella di provare questa affermazione, cosa che potrebbe essere complessa dal momento che qualunque criterio, qualunque persona possa accogliere per provare una simile operazione. Io posso comunque domandare conto di quale sia il criterio utilizzato per stabilire la verità e via di seguito, quindi non lo posso provare in modo definitivo, dunque non ci posso credere, non credo che non vi sia nessun elemento fuori dalla parola, non lo credo affatto. Tuttavia, come abbiamo detto molte volte, non lo posso negare, ma non ci credo cioè non do il mio assenso incondizionato, perché abbiamo visto che è condizionato alle cose che dicevo prima. Dunque, affermare che nessun elemento è fuori dalla parola non comporta il credere che sia così. Abbiamo detto dare un assenso incondizionato, ma se questo assenso è condizionato per definizione, cioè se avessimo detto che credere è fornire il proprio assenso condizionato a qualcos’altro, allora più che credere potremmo parlare di ipotesi: io faccio un ipotesi, questa è condizionata a qualche altra cosa che attende a sua volta di essere verificata per togliere la condizione, è condizionata ad una verifica. Certo, potremmo dire che il credere è condizionato dalla parola, ma neanche questo lo possiamo credere, lo possiamo soltanto non negare. Detto questo, e cioè il fatto che l’affermare che  nessun elemento sia fuori dalla parola non comporta nessuna credenza, anzi la impedisce, rimane però un aspetto importante da considerare circa il credere. Siamo partiti dalla domanda perché gli umani compiono questa operazione anziché no? Come avviene che sia possibile credere in qualcosa, dare cioè il proprio assenso incondizionato? Ma che cos’è dare il proprio assenso incondizionato? Qui, poniamo la questione in termini retorici più che logici, poi vedremo se è possibile dirlo in termini più precisi: dare il proprio assenso incondizionato è, in effetti, attribuire a ciò a cui si dà il proprio assenso la prerogativa di essere assolutamente vero e quindi assolutamente reale; in effetti il confine tra la verità e la realtà, generalmente è molto labile. Come dire che lì c’è qualcosa che non mente, c’è qualche cosa che può garantire, cosa non ha nessuna importanza, ma può garantire, ha questa facoltà, essendo assolutamente vero definitivo, può offrire questa garanzia. Molto semplicisticamente quella cosa che penso è vera e quindi questo è un aspetto fondamentale, non erro, cioè il discorso in cui mi trovo incontra una battuta d’arresto, anziché vagare nel nulla trova una battuta d’arresto. E’ come se ciò che dico non fosse più da solo ma fosse in compagnia di quest’altro elemento che essendo certo, quindi non mentendo, garantisce che il mio discorso si fermi ad un certo punto, si arresti, e arrestandosi ovviamente dà un senso a tutto ciò che precede e che segue. Ma perché mai io dovrei cercare un qualche cosa che arresti il mio discorso. Qui si apre una questione che riguarda più propriamente i luoghi comuni che sono quelle proposizioni che affermano che esiste un qualche cosa fuori dalla parola di assolutamente sicuro, garantito. Abbiamo già accennato alla questione dell’ascolto; è solo se non c’è nessuno che lo ascolti ed io non sono bastevole, perché questa garanzia di verità viene da qualche altra cosa, non da me, perché se venisse da me sarebbe del tutto soggettiva. Dunque, questo elemento occorre che non proceda da me, perché se procedesse da me non sarebbe attendibile perché l’elemento che deve essere saldo deve essere fuori dal mio pensiero, finché lo penso io, finché viene costruito dal mio discorso, segue le leggi del linguaggio e quindi assolutamente inarrestabile e io non riesco a fermare i miei pensieri, ci vuole un elemento esterno che da fuori mi fermi. Questa è una superstizione ovviamente, perché la ricerca di un elemento esterno è necessaria se e soltanto se immagino che il discorso debba essere garantito da qualcosa, altrimenti non ha nessun rilievo una cosa del genere. Ecco che allora importa che ci sia un altro o altro che mi ritorni il mio discorso in modo tale da poterlo stabilire come sicuro, come certo, ma ciò che impedisce a me di poter compiere quest’operazione, almeno nel luogo comune, è il fatto che in qualche modo avverto che il mio pensiero non è arrestabile e cioè che a qualunque cosa intervenga ne interviene sempre un’altra, per questo necessito di qualcosa di esterno che mi fermi; come è per esempio  clinicamente parlando, nella struttura del discorso schizofrenico l’assenza di un argine, di qualche cosa che intervenga come punto di tenuta. Ma, il discorso che attende dall’altro o da altro la proprio garanzia è per definizione il discorso religioso, cioè un discorso in cerca di Dio. E dicevamo prima che questo avviene per non essere soli, cioè per non errare; perché si dovrebbe temere di errare, per quale motivo, perché questa necessità, da dove viene? Questa è una questione complessa da affrontare, che comporta almeno due problemi. Il primo riguarda questo cioè se la struttura stessa del linguaggio veicoli in qualche modo questa necessità, se cioè in qualche modo alluda alla possibilità o all’eventualità di un elemento fuori da se stesso; il secondo problema è che, per considerare il primo problema, comunque si utilizzi il linguaggio e se fosse vera la prima ipotesi in ogni caso anche la seconda  ne sarebbe viziata. E dunque si tratta di risolvere almeno in parte, e cioè se il bisogno di religiosità sia strutturale all’atto di parola oppure no. Certo, se fosse tale, in questo caso noi non staremo facendo altro che questo perché non potremmo uscirne. Questa è l’unica cosa che per il momento ci conforta nel pensare che forse non è esattamente così, pur essendo tuttavia perfettamente consapevoli che il discorso da quando ne esistono tracce, è andato per lo più in questa direzione, tranne in casi sporadici che ci sono stati fortunatamente. Potremmo allora dire che, e qui torniamo ad un aspetto retorico, che questo elemento, questa ricerca di Dio, esercita una fortissima attrazione, non è che ci manchino delle spiegazioni ad una cosa del genere, non è questo il difficile, ma intendere la struttura di questo meccanismo e cioè quali proposizioni occorre o è necessario costruire per poter impiantare un discorso religioso, o per dirla molto più semplicemente, quali sono le condizioni del discorso religioso. E’ ovvio che così in prima istanza potremmo dire che è necessaria una regola che affermi varie cose: intanto che esiste qualcosa fuori dal linguaggio e che quindi il linguaggio non è tutto e quindi che non è possibile pensare tutto e quindi, se io pur ho l’idea del tutto ma non riesco a pensarlo, allora vuole dire che c’è e che è al di là di me, che trascende. E dunque se questo elemento c’è ma non posso pensarlo, ecco che allora sono limitato e il mio discorso è limitato e dunque rimango in attesa di qualche cosa che mi sbarazzi di questo limite o mi indichi la via per farlo. Come fa il linguaggio a costruire una cosa del genere? Questa è una questione interessante, perché sappiamo perfettamente che il linguaggio costruisce l’idea del tutto, vale a dire qualunque cosa che è senza limiti. E’ ovvio che di nuovo qui  interviene un significante che è limite, altrettanto costruito dal linguaggio, e che indica qualche cosa che impedisce di andare oltre un certo punto; però già formulando questo pensiero già alludo a un oltre questo punto. Che cosa fa il linguaggio costruendo tutti questi termini? Da dove trae gli elementi per potere parlare di questi termini? Considerate l’aspetto logico anche più tradizionale del limite, ad esempio, il principio del terzo escluso, non si dà il caso in cui “ a e non-a” simultaneamente. Questo generalmente è stato posto come limite, limite del pensiero, non posso pensare simultaneamente una cosa e il suo contrario, che cosa impone questo limite, da dove viene? Abbiamo detto molte volte che è una procedura del linguaggio. Qui comincia a delinearsi una questione, notevole per un verso, bizzarra per un altro, che il limite in quanto significante di per sé non significa assolutamente nulla, è un elemento a cui di volta in volta viene attribuito un senso e quindi non può essere utilizzato come un assoluto, è qualcosa che ferma ma può fermare provvisoriamente, può fermare ma non del tutto, può fermare per rilanciare, può fare un sacco di cose. La questione notevole invece è che rispetto ad alcuni termini si è posta una questione, e cioè che questi termini corrispondessero a qualche cosa che il linguaggio non può contenere come il bene, come l’assoluto, il tutto. E’ ovvio che per il momento la questione rimane tale e quale, come dire che sono quesiti che non hanno nessuna risposta. Ma quando ci troviamo di fronte a un quesito che non ha nessuna risposta, allora la domanda va posta in altri termini e cioè occorre chiedersi se si è posta la questione in termini che abbiano un senso oppure no. Quando parlo dell’assenza di limite, per esempio, di che cosa sto parlando? Di un concetto ovviamente, ma di un concetto che non ha nessun referente, di un concetto cosiddetto astratto; il linguaggio dunque costruisce un concetto astratto, costruisce qualche cosa che non ha nessun referente, così come costruisce cose che hanno dei referenti. Ma chi lo stabilisce? Sempre il linguaggio ovviamente, in quanto nessun altro ha questa prerogativa, di potere fare una cosa del genere. Immaginate allora che  un concetto come l’illimitato, l’infinito abbiano invece un referente; chiediamoci prima che cos’è un referente, domanda legittima e anzi forse indispensabile per potere proseguire, altrimenti continuiamo a parlare di cose che ignoriamo del tutto come spesso avviene, e cioè che cosa intendiamo in questo caso con referente? Ciò che la parola non può non dire. E che cos’è che la parola non può non dire? Se stessa, è l’unica cosa che non può non dire, perché se non la dicesse non esisterebbe. Dunque, in questa accezione di referente allora, la nozione di infinito ha un referente? Sì, se stesso. Può apparire un’affermazione priva di senso e, cosa che è ancora peggiore, priva di qualunque utilità, però perché la parola abbia come referente se stessa occorre che esista e se esiste ha un senso. Altra questione: potrebbe darsi parola senza senso o senza significato? Occorre che sia necessariamente un significato, come dire che allora questo significante infinito ha un significato: se abbiamo detto che è una parola e che ciascuna parola non può non avere un significato, necessariamente ne ha uno. Però forse possiamo distinguere tra significato e senso, perché se attribuiamo necessariamente alla parola un significato, a questo punto, se noi non precisiamo ciò che stiamo dicendo, ci troviamo immediatamente di fronte a grosse difficoltà nel momento in cui qualunque persona ci chiedesse “quale?”. Se il significato fosse qualunque, sarebbe un significato? Il significato è quello che assume a seconda del gioco in cui è inserito, ma per essere inserito in un gioco, occorre che sia un elemento linguistico, e se è tale ha già un significato, in quanto parola. Il problema forse che apparentemente è insolubile, ha una soluzione, se noi restringiamo ulteriormente la nozione di significato e cioè il significato è ciò che permette di riconoscere una parola in quanto tale; a questo punto abbiamo risolto il problema, però siamo costretti a distinguere tra significato e senso e a questo punto il significato non è affatto il senso: il senso è una variante e varia a seconda del gioco in cui è inserito, il significato no; nell’accezione che stiamo producendo è una  invariante. Necessariamente una parola per essere tale occorre che abbia un significato o più propriamente possiamo addirittura azzardare che una parola è un significato, perché se rimanessimo ancora fermi a domandarci se ha un significato allora questo significato da dove gli arriva, chi lo produce se non lei stessa? La parola è un significato, è cioè quell’elemento che è in condizioni di dire di se stesso che è una parola. E’ chiaro che dobbiamo ora distinguere a questo punto tra significato che possiamo ascriverlo tra le procedure linguistiche, e il senso che è una variante; il senso è la direzione che la parola assume, e questo di volta in volta a seconda del gioco i cui si trova inserita; è un significato, quindi una parola, quindi riconosciuta come tale e a quel punto viene provveduta di senso dalla combinatoria in cui si trova; il senso cioè letteralmente la direzione. Ma possiamo inserire una terza categoria? Possiamo inserire oltre al senso e significato anche la rappresentazione? Distinguere tra senso e rappresentazione rimane arbitrario, perché io non posso provare che la rappresentazione che io ed un’altra persona abbiamo di una stessa cosa è la stessa, ma possiamo provare il contrario? Questa non è un’affermazione necessaria, perché, certo, possiamo pensare che la rappresentazione che abbiamo di una stessa cosa sia differente, ma non possiamo provarlo, cioè non è un’affermazione necessaria perché nemmeno il contrario è provabile. Come possiamo  provare che è differente, in base a quale criterio stabiliamo un parametro che ci dice che è differente, ci sfugge di mano da tutte le parti, e quindi non possiamo utilizzarlo come procedura. Affermare che tutto ciò che dico è arbitrario o è gratuito o non necessario, è necessario oppure no? Sì, non è necessario affermarlo, diventa necessario quando lo si afferma, ma affermarlo non è necessario. Ma se io affermo che nulla è fuori dalla parola, ciò che affermo è necessario, ma l’affermarlo no, è necessario in quanto non può non essere, non può darsi che sia fuori dalla parola. Ma affermare che nulla è fuori dalla parola è un paradosso? Intanto paradosso è una proposizione che afferma di se stessa che è vera se e soltanto se lo è la sua contraria, quindi perché affermare che nulla è fuori dalla parola è un paradosso? Non è un paradosso, ma è un’asserzione in  quanto il paradosso è quel qualcosa che afferma che qualche cosa è fuori dalla parola. Se affermo che qualche cosa è fuori dalla parola allora sì che sto enunciando la formula del paradosso. Potrei decidere che nulla è fuori dalla parola, e quindi  affermarlo, oppure decido di crederlo?