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21 dicembre 2016

Siamo al Seminario del 14 maggio 1965, a pag. 142. Ma ritorniamo alla differenza, sopra menzionata, di anima e uomo. Perché noi, in quanto uomini, a differenza dell’animale, abbiamo qualcosa da dire, se dire significa: far vedere, rendere manifesto? Dire e far valere. Far valere, cioè mostrare che il proprio dire è vero, e questo sarebbe il motivo per cui si dice: far valere il proprio dire, far valere su altro o su altri, in genere, che è esattamente quello che vi dicevo qualche volta fa rispetto al porre o all’imporre qualcosa come una legge che, parafrasando Heidegger, è da far valere su altri o su altro, innanzitutto su ciò che segue nel dire, ma in ogni caso da far valere su altri perché se le cose stanno così, se la cosa che ho affermato è quella e se è quella allora non può che seguire quest’altra cosa qua. Questo è il motivo conduttore di ciò che stiamo dicendo ultimamente, e cioè la volontà di potenza come, torniamo a dirlo, il motivo per cui la persona parla. Qui Heidegger ci sta dicendo che gli umani parlano per far valere quello che dicono, e sappiamo a questo punto perché devono farlo valere, perché solo in questo modo, solo se ciò che si dice vale, cioè è vero, allora può essere imposto come una legge e, quindi, non solo può ma deve essere accolto da chiunque per quello che è, ed è così come io ho detto. Poco più avanti L’uomo, dunque, ha qualcosa da dire perché il dire, in quanto far vedere, è un far vedere l’ente in quanto essente in questo e quel modo. Fa vedere che quello che io dico è quello che è, è questo che deve essere imposto. L’uomo, dunque, sta nella manifestatività dell’essere, nella non-latenza dell’essente-presente. Cioè, ciò che io dico e che io impongo è ciò che si è imposto apparendo, essente-presente, è lì, è qualcosa, è quello che ho detto. Ciò è il fondamento per la possibilità, persino per la necessità, per la necessità essenziale, del dire; per ciò, dunque, che l’uomo parli. Il fatto che ciò che io affermo sia quello che è perché manifestamente è quello che è, cioè si mostra per quello che è. Quando io dico che questo è un accendino, in questo mio dire voglio mostrare, manifestare, ciò che necessariamente è, ciò che è presente in questo momento e che è l’accendino. Poco dopo dice Ciascun movimento del mio corpo, in quanto com-portamento e perciò in quanto comportarsi in questo e quel modo, non va semplicemente dentro uno spazio indifferente. Cioè, non è che i muove così, in uno spazio che non c’entra niente con il corpo. Piuttosto, il comportamento soggiorna già sempre in un determinato dintorno, che è aperto attraverso la cosa, cui io sono rapportato, quando, ad esempio, prendo qualcosa in mano. Anche questo è importante, qui c’è anche una critica al soggetto, al soggetto come qualcosa che sta lì a fronte degli oggetti. Lui ci sta dicendo che io in questo momento sono qui in quanto mi sto rapportando a tutto ciò che mi circonda, come direbbe lui, sono nel mio mondo. È soltanto essendo nel mio che io sono quello che sono, in questo momento io sono non in quanto soggetto, come una cosa distaccata da tutte queste cose qua, ma sono quello che sono in relazione a tutte queste cose, vale a dire, in relazione con queste cose per quello che sono per me in questo momento. Quindi, come dicevo, non si tratta più del soggetto ma di un esserci in tutte queste cose, un esserci nel mondo che è fatto di tutte queste cose. E io sono un ente fra tutti questi enti, ma questo ente fra tutti questi enti è quello che è in relazione a ciò che fa essere l’ente quello che è, e cioè l’essere, che in questo caso, come in tutti i casi per Heidegger, è l’esserci, cioè, il mio trovarmi qui in questo momento con l’intenzione di fare certe cose, di avere a disposizione certe cose per certe altre operazioni, tutte queste cose, messe insieme, sono ciò che io sono in questo momento, sono il mio Dasein, il mio esserci. Intervento: Quindi, ciascuno si definisce solo in relazione a… Esatto. È proprio la definizione che dà de Saussure, e così anche Peirce, del segno: il segno è quello che è in relazione agli altri segni, altrimenti non è un segno. È esattamente quello che sta dicendo qui Heidegger, lui parla della persona in quanto ente, però, sappiamo che l’ente è il significante e questo significante o, più propriamente, il segno è quello che è in relazione con altri segni, ma anche il significante, anche il significato, ovviamente. Poi, poco dopo, riprende la questione della cibernetica. Sapete che cibernetica viene dal greco κυβερνήτης, il pilota della nave, colui che governa, colui che guida, la cibernetica sarebbe l’arte di governare qualche cosa. Dunque, parla dell’uomo e dice a pag. 143: A conclusione, voglio porre Loro ancora un indovinello: “la figura di un piano mnestico-informativo… questa è una definizione… che deve venire indirizzato, in gruppi di segnali, a una postazione ricevente”… Questa sarebbe una definizione di “uomo”… Che cos’è questa figura? So che è impossibile indovinarlo. È, però, secondo Zerbe, l’idea dell’uomo. A fondamento di questa asserzione di Zerbe sta che il modello dell’uomo deve essere visto nella cibernetica del cannone di artiglieria. Che si può adattare esattamente alla stessa definizione, e cioè un piano mnestico-informativo, che prende le informazioni e le ricorda, che deve venire indirizzato in gruppi di segnali, perché altrimenti non capisce, a una postazione ricevente. Passa un aeroplano, io mando dei segnali e la postazione ricevente riceve questi segnali, li decodifica, colie la posizione del bersaglio e spara. Qui, però, Heidegger si accorge che questa definizione non è poi così… Poi, prosegue: ciò risulta chiaro dalla seguente proposizione del fondatore della cibernetica, Norbert Wiener, che dice: possiamo costruire un cannone di artiglieria contraerea, il quale, per il suo modo di essere strutturato, osserva il decorso statistico del velivolo-bersaglio stesso, lo inserisce poi in un sistema di regolazione e infine utilizza questo sistema di regolazione e infine utilizza questo sistema di regolazione per portare rapidamente la postazione del pezzo nella posizione osservata per il velivolo e conformarsi al movimento del velivolo stesso. La definizione dell’uomo, data da Wiener, suona: “L’uomo – una informazione”. Questa è la definizione di Wiener, che non è la stessa che dà Peirce dell’uomo come segno, perché qui l’informazione sembra un qualche cosa che parte da un punto, arriva a un altro e lì si ferma, ha svolto il suo compito: gli ho dato le informazioni per abbattere l’aeroplano, le informazioni sono state ricevute, e l’aeroplano viene abbattuto, chiuso il discorso. La posizione di Peirce è un po’ diversa: l’uomo è un segno ma per altri segni, continuamente, è segno perché preso in un rinvio incessante, infinito, di segni. Dunque, per Wiener l’uomo è informazione. Sull’uomo, Wiener scrive inoltre: “Una caratteristica peculiare, tuttavia, distingue gli uomini dagli altri animali in un modo che non lascia il minimo dubbio: egli è un animale che parla… E neanche è possibile dire che l’uomo sia un animale dotato di anima; giacché, purtroppo, l’esistenza dell’anima – qualunque cosa si possa intendere con questa – non è accessibile ai metodi di indagine scientifici”. Più avanti a pag. 144. Loro vedono qui la stessa cosa che abbiamo già incontrato nelle argomentazioni esposte dal prof. Hegglin: dal metodo di accesso, in quanto tale di una scienza della natura, viene determinato che cosa sia l’uomo. Abbiamo un metodo, un metodo ci dice quali cose possiamo considerare e quali no, possiamo considerare solo quelle che sono misurabili, all’interno di questo spazio si situa ciò che possiamo indicare come uomo. Tutto quello che esula dalla misurabilità non c’è. Nella cibernetica, il linguaggio deve venire concepito in modo tale che esso sia accessibile scientificamente. Nella determinazione fondamentale dell’uomo, il fondatore della cibernetica concorda apparentemente con l’antica tradizione della definizione metafisica dell’uomo. I Greci determinavano l’uomo come ζοον λογον εχων, vale a dire come essere vivente che ha il linguaggio. Wiener dice: l’uomo è quell’animale che parla. Ora, se l’uomo deve essere compreso scientificamente, ciò che lo caratterizza peculiarmente, in quanto uomo, rispetto all’animale, cioè il linguaggio, deve rappresentato in modo da essere afferrabile secondo principi scientifico-naturali. Cioè, la fisica. Detto in breve: il linguaggio, in quanto linguaggio, deve essere rappresentato come qualcosa di misurabile. Tutto si gioca all’interno della misurabilità nella filosofia della scienza. Passiamo ora al Seminario del 6 luglio 1965 sempre in casa Boss. Dice a pag. 145: Senza la sufficiente caratterizzazione del fenomeno del corpo, non si può dire che cosa sia la psicosomatica, se e come essa si possa strutturare come una scienza unitaria, come stia in generale la cosa intorno alla distinzione di psiche e soma. Cioè, prima di parlare di psicosomatica occorre che sappiamo almeno di che cosa stiamo parlando quando parliamo di psiche e quando parliamo di soma, sembra legittimo. Poco dopo a pag. 146. La teoria della relatività della fisica ha introdotto il punto di vista dell’osservatore nella tematica della scienza senza poter dire, in quanto fisica, che cosa significhi il punto di vista dell’osservatore. È una di quelle assunzioni di cui parlava precedentemente, cose che vengono assunte senza venire problematizzate. Evidentemente, esso concerne ciò che abbiamo appena sfiorato con la proposizione: io sono qui in ogni tempo. È un altro modo per indicare il Dasein, l’esserci. Io sono qui in ogni tempo perché quando dico “io sono qui” poi devo ridirlo, “io sono qui” ma è già passato del tempo ma io sono sempre qui, in ogni tempo, sono sempre qui, sono sempre io. In questo esser qui, ha sempre parte anche la corporeità dell’uomo. La microfisica deve constatare l’interferenza misurativa dello strumentario dei suoi esperimenti nel rilevamento dei suoi oggetti, vale a dire, la corporeità dell’uomo ha parte nell’obiettività della conoscenza fisicalistica. Sta dicendo che anche nella fisica l’intervento del corpo, in quanto fenomeno, ha un’incidenza in tutte le analisi che fa la fisica. Nel ’65 erano già noti gli esperimenti fatti dalla meccanica quantistica, di Bohr e di Heisenberg, e avevano rilevato non solo l’incidenza da parte dell’osservatore negli esperimenti ma che l’osservatore, la sua stessa presenza, modificava l’esperimento stesso. Heidegger avrebbe dovuto saperlo, forse lo sapeva, chi lo sa? Ciò vale solo per la ricerca scientifica, o questo vale per essa perché in generale l’esser-corpo del corpo condetermina ogni essere-nel-mendo dell’uomo? Dice, questo vale solo per la scienza, cioè questa incidenza del corpo, oppure qualunque cosa si faccia, in ogni caso, il fatto che questo corpo è nel mondo determina il mondo circostante. È un po’ quello che vi dicevo prima: io sono qui ma sono qui in relazione a tutte queste cose che costituiscono in questo momento il mio mondo. Se la cosa sta così, il fenomeno del corpo si lascia portare allo sguardo soltanto se e solo se, nell’oltrepassamento critico della relazione soggetto-oggetto finora normativa… quindi, occorre andare oltre la questione del soggetto-oggetto … l’essere-nel-mondo venga esperito espressamente ed espressamente venga assunto e mantenuto in quanto tratto fondamentale dell’esserci umano. L’essere-nel-mondo, non il soggetto e l’oggetto, io qui e questa cosa là, ma l’essere-nel-mondo, cioè, l’esserci come quel progetto che include. È una posizione sulla quale Heidegger insiste continuamente in questi scritti, cioè, l’obiezione alla nozione cartesiana di soggetto e oggetto. È una delle sue questioni fondamentali, il dire che non c’è il soggetto, lo dirà poi da qualche parte, in Essere e tempo credo, che il soggetto è la chimera della metafisica, un’invenzione della metafisica, è una chimera il fatto che io possa pensare di essere quello che sono indipendentemente dal mondo che mi circonda e che, invece, mi fa essere, secondo Heidegger, essere quello che sono in questo momento. Si tratta di vedere che la scienza in quanto tale, che la conoscenza teoretica-scientifica in quanto tale, è un modo fondato dell’essere-nel-mondo, fondato nell’avere-essente-corporeo il mondo. Questo è quello che dice lui, la scienza in quanto tale, come qualunque altra cosa, se ha un fondamento ce l’ha nel fatto che è fondata sul fatto che io sono nel mondo, in questo momento, qui e adesso. Poco dopo a pag. 147. Quanto più oggi l’effetto e l’utilità della scienza si espandono, tanto più svanisce la capacità e la prontezza alla riflessione su ciò che accade nella scienza, nella misura in cui essa fa valere la sua pretesa di offrire e amministrare la verità sul veracemente effettuale. Qui addirittura sembra che più che della scienza stia parlando della tecnica. Dice che oggi la scienza, ma potremmo dire anche la tecnica, ha preso talmente piede da renderci ciechi nei confronti di ciò che sta facendo, nei confronti delle questioni che sta elaborando, la scienza si occupa unicamente degli enti, non ha altro per la testa. E, quindi, che cosa rende quell’ente quello che è, è una questione che alla scienza non importa minimamente, cionondimeno, continuerebbe a dire Heidegger, l’ente è quello che è per via dell’essere, cioè, per via del progetto all’interno del quale quell’ente esiste e per il quale esiste. Cosa accade con il corso siffatto e abbandonato a se stesso della scienza? Nulla di meno che l’autodistruzione dell’uomo. Questo è uno dei motivi per Heidegger si è accostato al nazismo negli anni ’20, quando gli era parso che l’ideologia nazista, opponendosi alla tecnocrazia vigente in America, nell’Europa occidentale, e anche nell’Europa orientale, cioè nella Russia, potesse rilanciare qualcosa di più autentico, che lui vedeva nella cultura tedesca, che si rifaceva a quella greca antica; quindi, secondo lui, il nazismo sarebbe stato quel movimento che avrebbe posto un ostacolo alla tecnologizzazione dilagante riproponendo il pensiero antico. Che cosa gli abbia fatto pensare una cosa del genere non si sa. Certo, tutti i discorsi che faceva Hitler sulla razza tedesca, sulla necessità di riportare i valori della Germania, solo che avevano in mente cose totalmente differenti Hitler e Heidegger su che cosa fossero i valori della Germania: per l’uno, Hitler, i valori erano quelli della forza, della potenza da imporre sul mondo, quindi la volontà di potenza portata all’esasperazione; per l’altro, invece, era il ritorno all’autentico del pensiero greco antico. Sono due cose molto differenti, però lui ci è cascato, perché Hitler predicava il ritorno alla purezza della Germania e Heidegger pensava al mondo greco antico. Questo processo è già predelineato all’inizio della scienza moderna. Giacché la scienza moderna si fonda anche in ciò, che l’uomo pone se stesso in quanto soggetto normativo, per il quale ogni ente indagabile diventa oggetto. Questo è fondamentale, per la scienza moderna il soggetto non è soltanto quell’elemento isolato che giudica l’oggetto ma diventa normativo, diventa quell’elemento che legifera su qualunque cosa, legifera attraverso il calcolo, legifera nel senso che prima dice che cosa è… Le cose che sono sono vere solo se sono calcolabili: questa è solo una decisione, di per sé non ha nessun fondamento, come Heidegger non smette mai di dire. Dopodiché, il soggetto prende questi oggetti e pensa di poterli manipolare, e cioè di trattare questi enti in modo tale da poterne avere il controllo, quindi il dominio. Questa è l’obiezione che Heidegger fa continuamente alla scienza. A questo, d’altro lato, sta a fondamento un decisivo mutamento dell’essenza della verità in certezza, in conseguenza di cui il veracemente essente assume il carattere dell’obiettività. Passaggio dalla verità alla certezza, cioè il passaggio dal manifestarsi di ciò che appare, così come appare al parlante, alla certezza, che presuppone e prevede la misurabilità, il calcolo. L’λήθεια non prevede nessun calcolo, l’λήθεια è ciò che si manifesta uscendo dal nascondimento e appare così com’è, nella sua essenza-presenza, senza la necessità di essere obiettivato, quindi misurato, misurato anche nel senso di trovare un parametro per poterlo dominare, per poterlo controllare. L’λήθεια non prevede di essere dominata, non prevede e non chiede alcun dominio, la certezza sì, la certezza deve essere estesa a tutto ciò che è conosciuto e che è conoscibile, in modo tale da poterlo dominare. Per l’antico greco il soggetto non era distinto dall’oggetto. Certo, esisteva la parola ποκείμενον ma non era sicuramente il soggetto così come era stato pensato da Cartesio in poi, per cui è nata la scienza: l’oggetto è indipendente da me e, soprattutto, io sono indipendente da questa cosa, il soggetto è puro, libero da ogni relazione con il mondo. Per Heidegger è esattamente il contrario: l’uomo in quanto parlante è quello che è in quanto preso nella relazione con tutto il mondo che lo circonda. Prosegue a pag. 148. Si è soliti spacciare per ostilità verso la scienza il rinvio alla minacciante autodistruzione dell’esser uomo entro la scienza posta assolutamente. Era già stata inventata la bomba atomica e parlava quindi con cognizione di causa. Ma non si tratta di un’ostilità verso la scienza in quanto tale, bensì della critica della mancanza di riflessione, in essa dominante, riguardo a se stessa. Non ce l’ho con la scienza in quanto tale ma con il fatto che la scienza non pensa, non pensa se stessa, non si pone criticamente nei propri confronti, cioè non si pone delle domande intorno ai propri assunti ma li prende come assunti e basta. Alla riflessione appartiene, però, sopra ogni altra cosa, la consapevolezza di che cosa sia il metodo, che determina il carattere della scienza moderna. Tenteremo ora di chiarire il carattere peculiare del metodo, e precisamente riferendoci a questioni che spingono nella direzione del metodo. In ciò ci imbatteremo necessariamente in certi aspetti del fenomeno del corpo e ci vedremo infine posti dinanzi alle questioni circa l’essenza della verità. Sempre lì si va a parare. Più avanti dice che c’è l’occhio per vedere ma io non vedo con l’occhio propriamente, vedo in quanto qualche cosa si manifesta e io sono disposto ad accogliere ciò che si manifesta, questa è l’apertura dell’essere. Dice a pag. 149: L’ascoltare è riferito al divenire sonoramente-manifesto del tema nel colloquio. Cioè, io posso ascoltare solo se qualcuno parla. Per questo in un’analisi si sollecita sempre a parlare perché se una persona non parla non posso inventarmi ciò che sta pensando. Parliamo perciò anche di una comunicazione fonetica. Che qualcosa trapeli significa: viene detto. Ascoltare e parlare appartengono interamente al linguaggio. Ascoltare e parlare e perciò in generale il linguaggio sono sempre anche un fenomeno del corpo. (pagg. 149-150) Qui potremmo aggiungere: non necessariamente ma per l’uomo sì. Anche una macchina può ascoltare e parlare, senza avere un corpo propriamente. L’ascoltare è un essendo-corpo-essere-presso-il-tema. Che cos’è dunque l’ascoltare? Lo ripeto: un essendo-corpo-essere-presso-il-tema, presso il tema di cui si sta parlando. Quindi, non è lo stare a sentire ma è un essere presso ciò che si sta dicendo, essere presso, cioè disporsi a essere presso ciò che si sta dicendo, presso il tema. È un essere corpo presso il tema, presso ciò che si sta dicendo, però ci vuole un corpo altrimenti non ascolto nulla. L’ascoltare qualcosa dandovi retta è in sé il rapporto dell’esser-corpo all’ascoltato. È il mettersi in rapporto con ciò che si ascolta. L’esser-corpo appartiene sempre insieme all’essere-nel-mondo. Questa è una questione importante. Quando lui parla di esser-corpo non significa essere questa roba qua, con tutti gli ossi e le frattaglie che ci sono dentro, ma essere nel mondo, è questo che Heidegger intende con esser-corpo. Esser-corpo significa essere qui presente, essere presso tutte queste cose qua, e ascoltare è trovarsi in un rapporto e nella disposizione di essere presso un tema, cioè a qualcosa che qualcuno sta dicendo. Quindi, è come se io, il mio esser-corpo, diventa non soltanto ciò che io sono nel mio mondo ma anche, in quel momento, in relazione a ciò che io sto ascoltando. Anche quando, tacendo, penso qualcosa meramente soltanto fra me e me e non pronuncio nulla tra me, un tale pensare è costantemente un dire. Perciò Platone può chiamare il pensiero un soliloquio dell’anima con se stessa. In tale dire tacente-pensante entra costantemente in gioco anche ciò che sul tema è stato ascoltato e scritto. Uno sta zitto però non può evitare di essere preso da ciò che ha ascoltato, che ha letto, o ciò che ha pensato. Anche questo diventa parte del suo mondo in quel momento, cioè lui è anche queste cose qua. Siamo sempre più lontani dalla nozione di soggetto puro, intonso da ciò che lo circonda. Nel pensiero tacito di qualcosa accade un presentificare non tematico dei suoni e dei segni scritti. Non si può, per esempio, neanche volgersi tra sé in sogno a un paesaggio senza che necessariamente ci si dica qualcosa, laddove dire significa originariamente sempre un lasciare che si mostri il concernente. Come dire che, qualunque cosa facciamo o non facciamo, diciamo o non diciamo, non possiamo smettere di dire e di essere continuamente presi da questo dire rispetto a ciò che ci concerne in quel momento, rispetto a ciò che ci interroga in quel momento, che ci si mostra in quel momento, che ci appare in quel momento, qualunque cosa sia è irrilevante. Noi siamo sempre questa cosa qua, che è fatta di me, di un parlante che è tutte le cose con cui ha a che fare nel mondo, tutte le cose che intervengono e ciascuna cosa che interviene, interviene perché gli dice qualcosa. Infatti qua è preciso: senza che necessariamente ci si dica qualcosa. Se non ci si dicesse qualche cosa, di una qualunque cosa, questa cosa sarebbe niente, è per questo che questa cosa è un ente, e il fatto che ci sia un qualcuno, per cui questo ente sta dicendo qualche cosa, è il ciò che dice di quella cosa “questo è l’essere”. Intervento: … E’ un mostrarsi in quanto questa cosa dice qualche cosa, cioè mi sta dicendo qualche cosa, non che parli ma per me mi sta dicendo qualche cosa. E qui interviene il logos, oltre l’λήθεια, l’λήθεια è il mostrare, il non nascondersi di qualcosa che appare, ma questo apparire appare nel logos, senza questo qualcosa che lo lega, logos, λεγειν, qualcosa che tiene insieme. Qui è la portata di ciò che sta dicendo, cioè il fatto che qualunque cosa sia questa cosa è quella che è perché dice qualche cosa, nel senso che è presa nel mio logos, ed è in questo senso che esiste e che può manifestarsi e che si manifesta, si manifesta dicendosi. Tale lasciar-mostrarsi attraversa sempre completamente il linguaggio. Più chiaro di così. Questo lasciar-mostrarsi è ciò di cui è fatto il linguaggio. Si deve, dunque, sempre rigorosamente distinguere il parlare, nel senso di una comunicazione fonetica, dal dire, che può accadere anche senza comunicazione fonetica. Uno che sia muto e non possa parlare, ha, tuttavia, eventualmente, molto da dire. Essere “anima e corpo” presso qualcosa, significa che il mio corpo resta qui, ma l’esser qui del corpo, il mio stare seduto sulla sedia qui, è, secondo la sua essenza, sempre già un esser lì presso qualcosa. Il mio esser qui, ad esempio, significa: vedere e ascoltare Loro lì. Io sono qui non tanto come qualche cosa a sé stante, io sono qui in quanto sono qui che parlo a voi e il fatto che io stia parlando con voi in questo momento è ciò che io sono. Ecco la questione del progetto, del Dasein: io sono questo, sono questa cosa che in questo momento sta parlando con voi, per dei motivi, per tutto quello che volete, e io non posso estraniarmi da voi e da tutto il mondo che mi circonda, perché se fosse così io cesserei di esistere, semplicemente. Quando dico “io sono” si può intendere come io sono una certa cosa e voi siete tutt’altro, che non c’entrate niente oppure io sono perché sono qui, in questo istante, con voi e sto dicendo queste cose, e voi siete io, perché io sono queste cose qua, sono io che parlo con voi e io sono, come Heidegger dice giustamente, il mio essere qui significa vedere e ascoltare loro lì, vedervi e ascoltarvi: questo è il mio esser qui, non sono qui isolato. Intervento: Ciascuno è in relazione al suo progetto… Esattamente, altrimenti non è, semplicemente. Infatti, il progetto è l’essere gettato, quindi l’essere, se il progetto è l’essere, se non sono nel progetto non sono. Questa portata del testo di Heidegger è notevole perché mostra, in effetti, ed è questo il motivo perché questo signore, Boss che era uno psichiatra, si è accostato alla teoria di Heidegger, come altri più famosi, come Ludwig Biswanger, che lavorava in una clinica a Zurigo, anche lui psichiatra. È facile intendere come abbia potuto affascinare anche Boss, che era uno psicanalista che si era formato con Freud, perché in effetti c’è, ma non solo qui, molto di ciò che dice anche Freud. Freud diceva che l’uomo è fatto delle sue fantasie, ogni volta che parla sono in gioco le sue fantasie. Le sue fantasie, che cosa sono se non il modo in cui vede le cose? È il suo mondo, le cose che lo circondano, le cose di cui vive continuamente, il suo progetto. Qualunque parlare è un dire, perché si parla per un motivo. Che cosa vuol dire questo dire? Vuole farsi valere, ecco la questione. E poi torniamo da dove siamo partiti: ciascun dire è un volere far valere il proprio dire. Questo è il motivo per cui si dice, perché anche tacendo c’è comunque qualcosa che spinge in quella direzione, come direbbe Nietzsche, una volontà di potenza, per dirla in un modo diverso, se taccio è per un motivo, qualunque sia non ha rilevanza, ma c’è un motivo se taccio. Lo stesso c’è un motivo se parlo. E il motivo è quello che Nietzsche ci ha proposto in La volontà di potenza.