21-12-2011
La psicanalisi ha avuto un notevole successo negli anni 60/80 perché erano gli anni della contestazione e ha avuto un successo “popolare” tra virgolette proprio perché dava un supporto anche teorico alla contestazione, cessata la contestazione, è rientrata nei canoni perdendo ciò che la fa esistere, ciò per cui esiste, per cui, o si rilancia la psicanalisi nei termini della sovversione del pensiero, se no non ha nessuna portata, né alcuna possibilità di riuscire a esistere. La sua particolarità è di essere sovversiva, cioè di scardinare alcuni concetti e preconcetti su cui si regge il discorso comune, il discorso dominante, il discorso religioso in definitiva. Rilanciare la questione sovversiva della psicanalisi non è facile, non che non sia facile in termini teorici, non lo è in termini politici, in questo momento dove appare che ogni cosa debba normalizzarsi, debba rientrare nei canoni, debba essere statalizzata, e una volta che è statalizzata chiaramente non ha più nulla di sovversivo, sarebbe una contraddizione in termini. Certo la questione teorica rimane fondamentale, ci sono questioni che non sono semplici, eppure sono fondamentali. Una fra queste riguarda il principio di non contraddizione di cui abbiamo detto in varie occasioni, ma di cui c’è ancora da dire, perché il modo in cui poniamo il principio di non contraddizione da qualche tempo è qualche cosa di un po’ differente da ciò che proponeva Aristotele nel IV famosissimo libro della Metafisica e da lui poi fino ad arrivare a Lukasiewicz, perché il principio di non contraddizione quello che la scolastica chiamava principium omnium firmissimum, il principio più saldo di tutti, è qualcosa di molto più radicale: riguarda il funzionamento stesso del linguaggio. Il principio di non contraddizione dice che non posso sostituire al due il tre, se facessi questo, se ogni volta che compare un due lo potessi sostituire tranquillamente con un tre tutta la matematica scomparirebbe, non posso sostituire un “non” cioè una negazione con un “se … allora” cioè con un’implicazione, perché in questo caso scomparirebbe tutta la logica, però in questo caso sarebbe più grave della dissoluzione della matematica, perché in questo caso non sarebbe più possibile parlare. Se ogni volta che uso il “non” cioè nego qualcosa, fosse la stessa cosa che dire che “se questo allora quest’altro”, parrebbe arduo riuscire anche solo a formulare delle proposizioni, per cui accadrebbe che all’affermazione che “nulla è fuori dalla parola”, da questa affermazione sarebbe derivabile che “qualcosa è fuori dalla parola”, perché se togliamo il principio di non contraddizione allora effettivamente è derivabile da ciascun enunciato la sua contraria, e cioè dall’enunciato che afferma che nulla è fuori dalla parola sarebbe derivabile che qualcosa è fuori dalla parola, che sarebbe la sua contraddittoria, la negazione sarebbe che “ogni cosa è fuori dalla parola”. Da dove arriva questo principio? Aristotele lo ha descritto certo, ma lo ha descritto perché si è accorto della potenza di tale principio, della ineludibilità, della incontrovertibilità di tale principio, è incontrovertibile perché per poterlo negare, per dire che elimino il principio di non contraddizione devo già utilizzare il principio di non contraddizione. Dicendo: “elimino il principio di non contraddizione”, devo escludere e cioè non deve essere derivabile la proposizione che dice che “non escludo il principio di non contraddizione”, e cioè per poterlo negare devo utilizzarlo. Dicevamo esattamente la stessa cosa riguardo alla parola, non può una parola negare se stessa se non dicendo delle parole, cioè se non confermando la sua esistenza, questo ci induce a pensare che la parola sia essa stessa il principio di non contraddizione o comunque lo veicoli, e cioè ancora una parola non può cancellarsi, questo già lo dicevamo molto tempo fa: dal momento in cui un elemento linguistico si da all’interno del linguaggio, cioè della combinatoria, all’interno del discorso potremmo dire forse meglio, dal momento in cui si dà la parola all’interno del discorso questa parola non è negabile dal discorso entro il quale si dà questa parola e, dentro il quale discorso, questa parola trae la sua esistenza, come sappiamo, perché la sua esistenza è data dalla relazione con le altre parole presenti e dunque sarebbe come dire che un elemento linguistico non è un elemento linguistico, se è un elemento linguistico è all’interno di un sistema, una struttura, dicendo che è fuori da questa struttura, nel momento in cui lo dico, ciò che me lo fa dire è già questa struttura e quindi dicendo che è fuori di fatto sto dicendo che è dentro la struttura. Come dicevano gli antichi: in actu signato negato, cioè nego che sto facendo ciò che di fatto sto facendo. Questo si intende ancora meglio se riportiamo tutto ciò al funzionamento del linguaggio, come per altro sempre accade, quando si riconduce qualcosa al funzionamento del linguaggio, lì si trova la soluzione, inesorabilmente. Nel momento in cui un elemento viene indicato nel suo uso, da quel momento, per potere usare quell’elemento devo conoscerne l’uso cioè devo metterlo in atto, se io negassi che è quello l’uso di quel termine, di quella parola, di quel lessema, allora costituirebbe sicuramente un problema perché quel termine non potrebbe più essere usato in quel modo, allora dovrei dire che è usato in un altro modo e non più in questo, ma allora si ripropone da capo la stessa questione, perché allora in quel caso viene usato in quel modo. Ogni volta che interviene si sa che ha un certo uso. Sto dicendo che la condizione per potere usare un termine, cioè per poterlo connettere con altri, con “usarlo” intendo infatti connetterlo con altri elementi, poiché può essere connesso con altri elementi se ha un utilizzo, se so cosa vuole dire, se no non posso connetterlo a niente. Allora il principio di non contraddizione ci sta dicendo esattamente questo: dal momento in cui un elemento viene indicato nel suo uso, questo uso non può essere negato se voglio continuare a usare quel termine, ma non posso non potere non continuare a usare quel termine, perché quel termine è connesso con tutti gli altri, fa parte di una struttura, se io modifico quel termine si riassetta tutto quanto e si modifica la lingua completamente. La lingua si modifica nel corso degli anni, dei secoli, dei millenni certamente, ma se io modificassi un termine e quindi anche gli altri a mio uso e consumo cesserei di potere parlare con chiunque altro, perché avrei la mia lingua, che parlo solo io, e questo creerebbe qualche problema, a meno che io non viva da solo isolato in un isoletta sperduta nell’oceano pacifico, però anche in questo caso una volta che ho riassettato tutto il sistema devo attenermi a questo per potere pensare, non posso riassettarlo ogni dieci secondi, sarebbe il marasma totale, sarebbe impossibile a questo punto costruire qualunque pensiero, qualunque discorso, qualunque argomentazione, qualunque cosa. Dunque il principio di non contraddizione dice non soltanto che per esempio la parola non può negarsi se non confermandosi, ma che qualunque elemento che abbia un utilizzo e cioè sia un elemento linguistico, perché se ha un utilizzo è un elemento linguistico, non può essere altro da sé per potere essere utilizzato, cioè per potere essere in relazione, connesso con tutti gli altri elementi …
Intervento: altro da sé non significa nient’altro che deve essere riconosciuto dalla lingua stessa che si parla …
Prendete quel verso famoso del Leopardi “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, questo verso così scritto produce del senso, per ciascuno differente, perché “mare” ha un certo uso, che consente di connetterlo con “naufragare”, ma questo per il momento non ci interessa,
Tutto questo ci indica nel principio di non contraddizione il funzionamento stesso del linguaggio, che nel momento in cui si dà non può più essere tolto in nessun modo, potremmo anche intenderlo così certo, né Aristotele né tutta la scolastica né tutta la logica fino a Łukasiewicz si è mai posto il principio di non contraddizione in questi termini, perché nessuno di loro sapeva come funzionava il linguaggio, però è il funzionamento stesso del linguaggio, lo mostra, dice che il linguaggio funziona così, e cioè una volta che c’è non può togliersi o, se volete proprio dirla tutta, il principio di non contraddizione dice questo: non c’è uscita dal linguaggio, questo dice, alla base di tutto dice esattamente questo, che non si può uscire dal linguaggio, cioè un elemento non può essere altro da sé per quanto riguarda il suo uso, se lo si vuole usare deve avere un utilizzo, se si vuole cioè farlo partecipare di una struttura linguistica, cioè se in definitiva si vuole parlare. Se un elemento non è utilizzabile non produce senso, non è niente, è questo che intendo dire che un elemento è se stesso, è se stesso perché ha un uso, non che sia se stesso in base a qualche cosa di trascendente rispetto a questo elemento, cioè qualche cosa che va aldi là di questo elemento e da quella posizione lo garantisce, cioè l’Essere appunto, non in questo senso, ma identico a sé perché le regole che fanno funzionare il linguaggio hanno deciso così, quando stabiliamo che un re di cuori ha un valore superiore a un dieci di picche, questo valore superiore non lo commisuriamo in base a qualche cosa che è trascendente rispetto al re di cuori, né a qualche cosa che è trascendente al dieci di picche, sono regole del gioco, sono regole che servono a giocare quel gioco, che in questo caso è il poker e dire che un elemento è “identico a sé” è enunciare una regola per giocare il gioco che è il linguaggio, nient’altro che questo …
Intervento: dire “esiste qualche cosa che è fuori dal linguaggio” io la posso dire questa proposizione però è una contraddizione perché io sto utilizzando il linguaggio per formulare questa proposizione …
Certo, può pronunciarla, l’ha fatto, ma non può provarla, è una di quelle cose che possono essere credute insieme con infinite altre a condizione di non essere interrogata, mai per nessun motivo, questo lo dicevamo già forse in una conferenza, e tutte le cose che gli umani dicono, affermano, ripetono eccetera, alle quali cose credono, le possono credere a condizione di non interrogarle mai per nessun motivo, fino ad arrivare al dogma, il “credo quia absurdum”, questo è il modello di ogni costruzione, di ogni certezza, di ogni asserto che gli umani fanno in linea di massima e cioè qualcosa che può essere creduta a condizione di non essere interrogata, nel caso del “credo quia absurdum” non solo viene creduto a condizione di non essere interrogato ma è proibito farlo, il dogma non si deve interrogare, c’è un divieto.
Nessuno di coloro, e sono stati in molti, che negano il principio di non contraddizione, si è mai posta la questione che per poterlo negare deve utilizzarlo, tutti i negatori del principio di non contraddizione cadono in questa contraddizione inesorabilmente, perché se lo nego, allora da questo posso derivare che lo affermo, e questo nessun negatore del principio di non contraddizione lo ammetterebbe, e non ammettendolo conferma il principio di non contraddizione.
Uno dei negatori del principio di non contraddizione è Verdiglione per esempio, lui ammette la contraddizione e quindi il paradosso, senza rendersi conto che a questo punto, negando il principio di non contraddizione si troverebbe a dovere ammettere che è derivabile, dall’asserto che dice che nulla è fuori dalla parola che invece qualcosa è fuori dalla parola, necessariamente, perché non la esclude a questo punto, e quindi “qualcosa è fuori dalla parola” e quindi crolla tutta la sua teoria.