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21 novembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino.

 

Siamo a pag. 269, Paragrafo 9, Aporia: La complessità semantica come contraddizione. Sappiamo che la complessità semantica è la stessa aporia di Parmenide: l’uno e i molti. C’è la complessità semantica, però, c’è l’apparire dell’uno, dell’unità, del concreto; questo concreto è fatto di molti. Aporia antichissima che, come dice Severino, non è mai stata risolta ma semplicemente accantonata. Riprendendo lo spunto qui sopra accennato, è ora da considerare una aporia di importanza notevole. Se un certo tipo di significato complesso è in certo modo gli altri momenti, ogni complessità semantica di questo tipo, i cui momenti siano differenti gli uni dagli altri, sarà una negazione del principio di non contraddizione. Sta dicendo quello che abbiamo detto tante volte, e cioè la complessità semantica è fatta di vari momenti in cui ciascuno di questi momenti è a sua volta un’altra complessità semantica, ecc., ci troviamo di fronte all’impossibilità di fare di questo tutto un uno. I molti ci impediscono di affermare l’uno, quando affermiamo l’uno affermiamo i molti. Ecco la contraddizione. Affermare che questa estensione è rossa, significherà infatti affermare che questa estensione è non questa estensione… Questa estensione è questa estensione, non è rossa. Il fatto che sia rossa è un’altra cosa, ma non è quella; quindi, questa estensione non è questa estensione. Questa è l’aporia. Aporia antichissima, come è noto, che già Platone discuteva (Sofista, 251 sg.), ma che da Platone fu piuttosto evitata che risolta. Ché infatti egli si limita a mostrare le conseguenze inaccettabili che ne derivano, ma non mostra in che modo essa vada risolta. È certamente vero che l’aporia nega ogni κοινωνία (ndr. comunanza) delle idee, e che quindi non si potrà nemmeno predicare l’essere di alcuna determinazione – stante che, se una determinazione si distingue formalmente dall’“essere”, predicare di essa l’“essere” significherà affermare che essa è “altro da sé”… Lo abbiamo già visto. Se io dico che l’essere è essere, uno è il soggetto e l’altro il predicato. Ma questo Severino l’aveva già risolto. …ma ciò che resta sempre da mostrare è il vizio logico per il quale si produce l’aporia. Questa aporia, dice, non è altro che un vizio logico, cioè un malfunzionamento della logica. In generale: se un discorso aporetico mostra la necessità della negazione dell’immediato o d’un aspetto di questo, non è sufficiente togliere l’aporia adducendo come motivo del toglimento il fatto stesso che essa è negazione dell’immediato… Per farla semplice: dico “questo è questo”; qualcuno dice “no, non è questo”; dico io “no, lo vedo, questo è questo”. Ho tolto l’aporia perché questo è questo. Però, dice Severino, non basta una cosa del genere, non basta che lo dica io. …si deve mostrare il vizio logico che la fa apparire come necessaria. È questo che a lui interessa. Aristotele aveva tentato di eliminare la difficoltà introducendo la distinzione di sostanza e accidente: nulla impedisce che qualcosa (sostanza, o accidente in funzione di sostrato di un altro accidente) possa anche essere altro, oltre a ciò che esso è… Così come questa estensione è rossa: questa estensione è ma è anche altro da ciò che essa è. In questo senso Aristotele avrebbe “risolto” il problema, perché questa estensione comunque è, quindi, non la nego, ma non è solo questo, è anche altro. …- ossia non è un’altra determinazione sostanziale – me è l’ambito delle determinazioni accidentali della sostanza. Il fatto che questa estensione sia rossa è un accidente, ma questo non toglie al fatto che sia. Il che può essere accettato, nel senso che allorché si afferma che questa estensione è rossa, non si nega che questa estensione sia un’estensione, ma si afferma che questa estensione – che è come questa estensione – è, appunto, rossa; ossia che l’identico (questa estensione che è questa estensione) è determinato in modo ulteriore rispetto a quello che costituisce la determinatezza dell’identità. Si aggiunge un qualche cosa ma che non mina l’incontraddittorietà della sostanza. Senonché, nonostante il chiarimento fatto, l’aporia permane ugualmente: appunto in quanto l’identità è altro da sé. Ciò che provoca l’aporia è appunto – per usare la terminologia aristotelica – l’inesione (ndr. l’inerire) della determinazione accidentale alla determinazione sostanziale; ossia è il fatto che l’una è in qualche modo l’altra. Ci sta dicendo che comunque rimane il fatto che questa estensione è rossa. Questa determinazione, l’essere rossa, fa un tutt’uno con l’estensione, quindi, è un’identità, ma se c’è un’identità allora, sì, c’è una contraddizione, perché la determinazione accidentale inerisce, appartiene, alla determinazione sostanziale. Se non le appartenesse allora, certo, non ci sarebbe nessuna contraddizione. Ma, dice lui, gli appartiene, e se gli appartiene allora è un problema. Ogni giudizio non tautologico (= non identico) sembra pertanto una contraddizione. E quindi si dovrà dire che ogni complessità semantica avente valore apofantico (ndr. giudizio) è una contraddizione… Ogni volta che voi esprimete un giudizio costruite una contraddizione, qualunque giudizio voi facciate, di qualunque tipo e per qualunque motivo. …nella misura in cui sembra che la complessità in questione non possa equivalere in quanto tale a un giudizio tautologico. O è una tautologia… ma anche qui, se è una tautologia, si può sempre ricondurre a quel problema, A è A, dove uno è il soggetto e l’altro il predicato. Ma è un problema che aveva già risolto, perché ce lo ripropone? Aveva risolto anche quell’altro, quello della infinitizzazione delle parentesi. Vi ricordate, lui scrive (A=B)=(B=A). In questo modo lui indica una stessità, cioè A e B non sono più l’uno il soggetto e l’altro il predicato ma dicono la stessa cosa. Ora, il problema è che noi potremmo mettere tutto questo tra parentesi quadre, [(A=B)=(B=A)] = Identico, e dire che tutto questo è l’identico. Ora, però, ci troviamo di fronte al problema di prima, perché a questo punto potremmo mettere tutto quanto tra parentesi graffe, {[(A=B)=(B=A)] = Identico}, e dire di nuovo che tutto questo è uguale all’identico, e così via all’infinito. Come risolve lui il problema? Lo risolve in modo, potremmo dire, elegante, e cioè dicendo che essendo tutte queste cose la stessa cosa ogni rinvio, ogni uguale e poi l’identico, è sempre esattamente la stessa cosa. Possiamo, quindi, andare avanti all’infinito ma dicendo sempre ed esattamente la stessa cosa. Pertanto, non è un rinvio all’infinito ma è un ribadire all’infinito sempre la stessa cosa. È questo il modo in cui risolve il suo problema, quello dell’infinitizzazione. È chiaro che l’aporia sussiste come tale, in quanto il tipo di complessità semantica che provoca l’aporia appartiene allo stesso contenuto immediato. Perché ci sia aporia, potremmo dire, occorre che ciascuno degli elementi sia preso isolatamente. È poi questa la questione che sta dicendo. Pertanto l’aporia può essere così formulata: da un la to il F-immediato (l’esperienza) si realizza come connessione (di connessioni) di determinazioni diverse – la connessione o sintesi del diverso è immediatamente presente;… La sintesi di tutti questi elementi di questa complessità semantica è immediatamente presente, cioè c’è, perché questo F-immediato, l’esperienza, non è altro che una serie di connessioni, quindi ci sono. …dall’altro lato la connessione del diverso sembra una contraddizione, perché la connessione importa, come si è detto, che qualcosa sia l’altro con cui è connesso. L’esperienza contraddice così il principio di non contradizione (il logo). Ci sta dicendo che ogni elemento di questa connessione occorre che sia altro rispetto al precedente o al contiguo connesso, e non che sia lo stesso. Come dicevamo prima, se è lo stesso non c’è nessuna contraddizione. Quindi, perché ci sia la contraddizione, perché possa negarsi il principio di non contraddizione, è necessario che ciascuno di questi elementi sia altro rispetto a ciascun altro cui è connesso, con cui è in relazione. Tale aporia è da considerare come il ripresentarsi, in forma anche più radicale, dell’aporetica, di tipo eleatico, per la quale la molteplicità attestata dall’esperienza è negazione del principio di non contraddizione. Io lo vedo che le cose sono molte e che cambiano continuamente. Qui c’entra anche il divenire, naturalmente: basta che io muova un dito e già non sono più quello che ero prima. Apparirà, nel corso del presente saggio, come le due grandi aporie – la negazione del molteplice e la negazione del divenire, operate in nome del principio di non contraddizione – che Parmenide affida al pensiero filosofico, abbiano una forza aporetica che si prolunga oltre la stessa soluzione che di tali aporie è stata data dalla metafisica platonica e aristotelica; sì che lo stesso pensiero attuale ne resta impegnato. Come dire che il problema non è risolto. Certo, è posto, è stato posto da tutti, in modo più o meno corretto, ma la soluzione non c’è: o è uno o è molti. In questo Aristotele l’aveva pensata giusta: tertium non datur, o è o non è. Siamo a pag. 271, paragrafo 10, Soluzione dell’aporia: ogni giudizio non contraddittorio è un giudizio identico. Ogni giudizio che non è contraddittorio lo è perché identico, perché sta dicendo la stessa cosa, perché in A=B la A e la B non sono più due distinti, due separati, ma sono la stessa cosa. Quando lui dice che l’essere è uguale al non non essere, questo non non essere è la stessa cosa di essere, non è un’altra cosa. C’è, invece, aporia quando è un’altra cosa, o si riesce a dimostrare che è un’altra cosa. a) Appunto lo Hegel affermava che ogni giudizio non tautologico è una contraddizione. Il che è esatto, ma solo qualora il giudizio sia considerato astrattamente. Come si considera astrattamente un giudizio? Separando gli elementi del giudizio concreto. “Questa lampada che è sul tavolo” è il concreto; l’astratto è la lampada, il tavolo, ecc. Se cioè si afferma che il giudizio è un porre qualcosa (soggetto) come altro da sé (predicato) – se soggetto e predicato sono visti semplicemente come dei diversi - … Distingue tra diversi e distinti. Quando scrive questa sua formula A e B non sono diversi ma sono, sì, distinti, pur essendo la stessa cosa sono distinti, perché A non è B. Per Severino distinti vuol dire che c’è una distinzione ma che non implica l’essere diverso, non implica l’essere un’altra cosa, anche se è distinto. Lui precisa sempre tra distinto e diverso: diverso vuol dire che è altro; distinto vuol dire che non sono propriamente la stessa cosa, perché uno è scritto in un certo modo e l’altro in un altro, ma dicono la stessa cosa; se sono diversi, invece, dicono cose diverse. …significa che questi due termini sono presupposti al giudizio, e cioè alla loro sintesi. Cioè, esistono in quanto tali e sono presupposti al loro giudizio, alla loro concretezza. Il giudizio viene allora inteso come l’instaurazione della convenienza tra questi due termini in quanto così presupposti. Io voglio che il mio giudizio, a questo punto, dica che A è B; ma sono diversi, non distinti, però, il giudizio vuole questo. È chiaro che se vuole questo vuole una contraddizione, perché A non è B, A dice una cosa e B ne dice un’altra. …sì che ciò che non conviene al soggetto vien fatto convenire al soggetto. Ciò che non conviene ad A, cioè il fatto di essere B, perché se A è A non è B, vien invece fatto convenire. A è B, quindi, ad A conviene essere B, ma non gli conviene, perché A è A e B è B. È il problema iniziale, da cui è cominciato tutto. Ma, appunto, il giudizio è una contraddizione solo in quanto soggetto e predicato siano così presupposti. (E tale contraddizione sussiste non solo se soggetto e predicato hanno determinatezza differente, ma anche qualora abbiano la stessa determinatezza – onde il giudizio assume la forma: “L’essere è essere”). Se io pongo l’uno come soggetto e l’altro come predicato, è ovvio che a questo puto c’è una contraddizione: dire che “l’essere è essere” è autocontraddittorio. A meno che non li ponga più come distinti, ad es. la lampada, il tavolo, ecc., ma come “questa lampada che è sul tavolo”. Solo in quanto soggetto e predicato siano presupposti al giudizio essa hanno una determinatezza, e pertanto il giudizio è una contraddizione: perché s quella presupposizione non sussiste, il predicato non viene affermato di ciò cui, in quanto presupposto alla predicazione, non conviene tale predicato, ma di ciò cui, appunto, tale predicazione conviene:… Se io non distinguo questi due elementi allora non è più che dico una certa cosa conviene a un’altra. Questo posso dirlo soltanto se presuppongo queste due cose al concreto, cioè, se presuppongo l’esistenza della lampada e del tavolo alla proposizione concreta che afferma “questa lampada che è sul tavolo”. In atri termini: il significato dy può essere predicato del significato dx, solo in quanto dx sia posto come ciò cui conviene dy, e quindi quando il campo semantico costituito dal soggetto della predicazione non valga semplicemente come dx, ma come la stessa sintesi tra dx e dy. È esattamente lo stesso schema. Non prendo dx a sé stante ma dx in quanto relato con dy, perché non posso distinguerli. A pag. 272. b) Appare da quanto si è detto che il giudizio “non identico” non è una contraddizione solo in quanto soggetto e predicato del giudizio hanno essi stessi valore apofantico… E cioè io do un giudizio separato su uno e sull’altro. Ciò significa che tutti i giudizi non contraddittori sono giudizi identici, stante appunto che, anche nel caso di giudizi “non identici”, sia il soggetto, sia il predicato del giudizio hanno lo stesso valore apofantico. Questo è importante. È chiaro che nel giudizio identico risulta immediatamente evidente che l’uno è l’altro, ma anche nei giudizi non identici, come anche in (A=B)=(B=A), anche in questo caso non sono identici, dicono lo stesso ma non sono identici. Dice tutti i giudizi non contraddittori sono giudizi identici, stante appunto che, anche nel caso di giudizi “non identici”, sia il soggetto, sia il predicato del giudizio hanno lo stesso valore apofantico, cioè sono pensati come concreto. Poi, precisa L’aporia sopra formulata, relativa ai giudizi non identici, non si risolve dunque mostrando in che modo i giudizi non identici non siano contraddittori, ma mostrando che anche i cosiddetti “giudizi sintetici”… Il giudizio sintetico è il giudizio che riflette, che elabora la questione; il giudizio analitico invece è il giudizio immediato. …sono identici, sì che è appunto in quanto sono identici che non sono contraddittori. Pertanto il logo (ndr. affermazione), lungi dall’essere in opposizione con questa essendo il logo inautentico: quello che concependo astrattamente il giudizio, lo trova poi come una contraddizione. Devo porre questi giudizi come astratti. Soltanto ponendoli come astratti rispetto a un concreto trovo la contraddizione. Come vedete, lo schema è sempre lo stesso e si ripete all’infinito. Sarebbe sufficiente trovare un qualche cosa che renda questo schema autocontraddittorio perché tutto questo libro crolli come un castello di carte. A pag. 275. c) D’altra parte, negare la separazione astratta del soggetto e del predicato dell’identità e negare che il soggetto e il predicato dell’identità siano dei semplici distinti che non intrecciano i loro campi posizionale, non significa negare la distinzione concreta tra dx=dy (dy=dx) e (dx=dy)=(dy=dx); così come dx e dy, pur non dovendo essere astrattamente separati dall’identità concreta, si distinguono non solo da questa, ma anche dalla concretezza relativa costituita da dx=dy. Sta dicendo che negare questa separazione astratta del soggetto e del predicato di una qualunque identità non significa negare la distinzione concreta tra dx=dy – questo nella sua formula – perché avrebbe potuto costituire un problema, nel senso che nel concreto io nego la distinzione in quanto astratti. Quindi, posso anche negare questa distinzione che c’è nella sua formula generale. Perché questo non comporta un problema? Perché dice d) La condizione dell’assunzione astratta dei distinti è dunque, da un lato, la presupposizione dei distinti alla loro sintesi… Cioè, esistono prima della loro sintesi. …e dall’altro lato (ma poi è il medesimo) è il considerare la successione discorsiva come successione logica. Qui torniamo alla questione antica, quella delle prime pagine. Il discorso pone infatti in un primo tempo il soggetto e in un secondo tempo il predicato. Se a questa successione si conferisce valore logico, il soggetto si presenterà come ciò cui non conviene il predicato, sì che questo verrà fatto convenire a ciò cui non conviene. Se io prendo queste due cose come momenti separati tra loro perché il primo viene prima e l’aro, il predicato, viene dopo, se prendo questo come un indizio logico, per cui uno è il soggetto e l’altro il predicato, perché prima viene il soggetto e poi il predicato, allora, sì, che mi trovo preso nella contraddizione. Ma dice è chiaro che la relazione predicazionale tra i distinti, quale si realizza nella formulazione verbalistica del giudizio, è una contraddizione solo qualora i distinti vengano astrattamente concepiti come irrelati. Il fatto che utilizzi sempre lo stesso sistema per eliminare le aporie, conferma quanto dicevo, e cioè che se dovessimo riuscire a mostrare l’autocontraddittorietà di questa formula, crollerebbe tutto. Certo, reta in piedi tutto il discorso che fa, la sua capacità argomentativa e anche le indicazioni che fornisce, però, la base su cui poggia tutto quanto crollerebbe. E conclude Spetta alla comprensione concreta tutela l’incontaminatezza del linguaggio, e non lasciare che l’ingenuità di questo divenga, nelle mani della considerazione astratta, un errore. Qui, senza volere, suggerisce qual è il punto su cui fare leva, perché dice Spetta alla comprensione concreta tutela l’incontaminatezza del linguaggio. Ma incontaminatezza da che cosa? Cos’è che può contaminare il linguaggio? L’unica cosa che può contaminarlo è se stesso, solo lui stesso può contaminarsi. Poi, ci parla di ingenuità del linguaggio, perché dice nelle mani della considerazione astratta, che non coglie più il concreto, diventa un errore. In effetti, tutto quanto si gioca su questo: gli astratti non devono precedere il concreto, perché se gli astratti precedono il concreto c’è autocontraddizione. Ma se questo concreto noi lo ponessimo, e possiamo farlo, come l’astratto di un altro concreto - nulla ce lo impedisce; dopotutto il concreto è l’esperienza, l’esperire immediato di un qualche cosa – c’è qualcosa che impedisce, qui nel testo di Severino di porre una questione del genere? D’acchito, direi di no. Tuttavia, l’obiezione di Severino potrebbe essere questa, e cioè che il concreto è l’originario apparire di ciò che appare così come appare e, quindi, può esserci qualcosa di più originario dell’originario? No, perché in questo caso l’originario non sarebbe più originario. Vero, su questo non ha torto, ma può esserci qualche altra cosa che è cooriginaria, cioè originaria insieme a un altro originario, e questo lui lo dice: tutto ciò che appartiene all’essere è cooriginario, sennò, se non fisse originario, avrebbe un’altra origine e, quindi, ci sarebbe un’origine dell’origine. Ponendolo, però, come cooriginario lo porremmo come l’identico, e di nuovo ci troveremmo nella situazione che indicavo all’inizio, che lui risolve dicendo che si tratta di elementi, sì, distinti ma non diversi; sono identici, che possiamo ripetere all’infinito ma ripetiamo sempre la stessa cosa. Porre il concreto come l’astratto di un altro concreto – immagino la possibile obiezione di Severino – significherebbe porre un qualche cosa che è originario rispetto all’originario, cosa che non può essere. Beh, è qualcosa su cui potete divertirvi. Originario, per Severino, è l’incontraddittorio. È chiaro che avrebbe anche potuto dire che l’originario è un piatto di lenticchie, ma in questo caso, si, in effetti, si sarebbero potute muovere delle obiezioni. Ponendolo, invece, e qui è abile, come l’incontraddittorio, pone un qualche cosa che non può avere alle spalle nulla di più originario, perché oltre l’incontraddittorio non può esserci niente, e se c’è qualcosa allora è contraddittorio, e se è contraddittorio non è utilizzabile.

Intervento: Qual è la condizione dell’apparire? Occorre che ci sia una condizione…

Questa è l’obiezione che, tuttavia, non possiamo fare all’argomentazione logica di Severino, in quanto non muove dalle stesse argomentazioni di Severino ma muove da un’altra cosa. Muove dal fatto che, perché qualcosa possa darsi, occorre che sia all’interno di un sistema linguistico, cioè, perché io possa anche solo pensare il contraddittorio, l’incontraddittorio, l’essere o qualunque altra cosa, occorre un linguaggio che me lo consenta. Severino non mette mai a tema il linguaggio, però si rende conto, più o meno consapevolmente, che il linguaggio è la sua spina nel fianco, ed è per questo che deve trovare un qualche cosa che sia “oltre il linguaggio”.

Intervento: che qualcosa è, occorre dirlo, occorre che sia nel linguaggio.

Severino potrebbe farle un’obiezione, e cioè il fatto che io possa dire che qualcosa è, è perché quello che io dico è incontraddittorio, ciò che sto dicendo è qualcosa di incontraddittorio, ponendo, quindi, l’incontraddittorietà come condizione del linguaggio. È questa la via che lui tenta di seguire arrivando, lo vedremo poi alla fine, alla contraddizione C, però, fallendo perché, in qualunque modo io voglia porre la cosa – e va benissimo che il principio di non contraddizione sia una delle condizioni perché il linguaggio funzioni – tuttavia, tutto questo può essere pensato perché non è immediato. Se fosse immediato, come dice lui, allora non sarebbe più in relazione con niente. A questo si opporrebbe Peirce: anche questo posacenere lo possiamo considerare un segno, ma se non è segno per qualche altro segno e se non procede lui stesso da altri segni, questo posacenere non può esistere in nessun modo. Da dove trae il fatto che io identifico la A come A, che li identifico con un uguale (A=A), ecc.? Da dove arriva? Come faccio a dire che A=B? E, soprattutto, che cosa voglio dire dicendo questo? Potrei non volere dire niente, questi segnetti sulla carta potrebbero non significare nulla, basterebbe che li scrivessi in cirillico e già… Quindi, l’uscita dal linguaggio o il trovare un qualche cosa che sia prioritario o addirittura precedente al linguaggio, è un votarsi al fallimento, inevitabilmente. Questo Peirce lo aveva visto benissimo: non c’è modo, perché anche pensare di uscire prevede già una serie infinita di cose che devo già sapere, qualunque pensiero io abbia è già mediato prima ancora di essere pensato. In questo senso aveva ragione Heidegger: siamo già nel linguaggio, prima di esserci già ci siamo, siamo già lì, e questo non lo possiamo evitare in nessun modo. Severino ci prova, ci prova bene, nel senso che prova a mettere le cose in modo che funzionino e funzionano fino a un certo punto. Non funzionano più nel momento in cui è costretto a dire che Spetta alla comprensione concreta tutelare l’incontaminatezza del linguaggio. Vuol dire che spetta alla comprensione corretta tutelare l’incontaminatezza del linguaggio, come se qui gli ricadessero addosso tutte quelle cose che cercava di evitare quando voleva fermare la struttura originaria dell’essere come semplice, e cioè fermare tutta la deriva di significati. Certo, per usare un significato, questo significato deve essere finito sennò non potrei utilizzarlo.

Intervento: A quel punto, però, non è più segno, non rinvia più a niente.

Sì e no. Sì, nel senso che questi elementi devono essere inseriti all’interno di un sistema linguistico, e se sono inseriti all’interno di un sistema linguistico rinviano ad altri segni linguistici; no, perché comunque io mi fermo a un certo punto, decido di fermarmi, decido che questa cosa significa questo. È chiaro che è un artificio, ma se non lo facessi mi troverei nella condizione, cui accennavamo la volta scorsa, in cui non sono capace di dire che cos’è una casa.

Intervento: Sembrerebbe che per Severino non sia un artificio…

Lui lo pone non come un artificio, però, dice che non si prosegue con l’analisi del significato, ma si potrebbe. Questo lo ammette, ovviamente; quando parlava del sincategorematico e del categorematico, dell’infinito potenziale e dell’infinito attuale: certo che c’è, però, non lo metto in atto, perché se lo facessi ogni volta che apro bocca mi perderei in una deriva infinita senza riuscire mai a dire niente, per cui devo fermarlo. È ciò che avevamo intuito già molto tempo fa: per potere parlare occorre che qualcosa sia quello che è ma al tempo stesso, sapendo e non potendo non sapere che perché sia quello che è occorre che non sia quello che è, e cioè che rinvii indefinitamente ad altre cose. Però, occorre che sia quello che è, e perché sia quello che è occorre che, e qui interviene Severino, sia incontraddittorio, che non si autocontraddica. Se si autocontraddice allora una cosa è ma anche non è e, quindi, non è più utilizzabile; deve essere quella che è. Mi rendo conto che non è una questione semplice. D’altra parte, se non è stata risolta in tremila anni, anche dalle menti più robuste, ci sarà un motivo.