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21 ottobre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo XVI, La realtà come autoconcetto, il male e la natura. Siamo alle ultime pagine della Teoria generale dello spirito come atto puro, prima di iniziare il Sistema di logica. Paragrafo 1. Il principio e la conclusione della dottrina. La nostra dottrina dunque è la teoria dello spirito come atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto. Teoria, che sottrae lo spirito a ogni limite di spazio e di tempo e da ogni condizione esteriore; rende pure impensabile ogni sua reale moltiplicazione interna,… Infatti, l’Io è uno, non si moltiplica in tanti Io. …per cui un momento suo possa dirsi condizionato da momenti anteriori …Come dicevamo, non c’è l’anteriore, perché il tempo non c’è prima. …e fa quindi della storia, non il presupposto, ma la realtà e concretezza dell’attualità spirituale, fondando così la sua assoluta libertà.

Intervento: È interessante questo: l’Io è l’unica cosa che non si moltiplica; quindi, è l’unica cosa che non si divide.

Gentile, ponendo il pensiero come atto puro, lo pone come eterno. Eterno, come abbiamo detto tante volte, non come un presente infinito, ma come ciò che è la condizione del tempo, ché non c’è prima dell’atto. Questa è una delle questioni più importanti e anche più difficili da intendere rispetto all’atto puro, cioè, al pensiero. Il pensiero, che poi non è altro che l’atto di parola… ogni volta che penso a qualche cosa, sono io che la penso in quel preciso momento. Questa è l’unità, che non è divisibile. Dividendola, come dicevi giustamente, è un altro atto, che ha le stesse caratteristiche del precedente. Quando la realtà ci apparisce molteplice, egli è che non se ne vede la radice, in cui è la sua concretezza, e in cui tutta quanta, pur molteplice è una. Sarebbe quello che Gentile chiama l’Io, in definitiva. Sicché il vero concetto della realtà molteplice deve consistere non in una molteplicità di concetti, bensì in un concetto unico, che sia intrinsecamente determinato, mediato, svolto in tutta la molteplicità dei suoi momenti positivi. In conseguenza, poiché l’unità è del soggetto che concepisce il concetto, la molteplicità dei concetti, ossia delle cose, non può essere se non la scorza superficiale di un nocciolo che è un concetto solo: il concetto del soggetto centro di tutte le cose. Il vero concetto, che propriamente ci sia, è perciò autoconcetto (conceptus sui). E poiché di realtà, in universale, noi possiamo parlare soltanto mediante concetti, in guisa che la sfera del reale combacia con la sfera del concetto, la necessità di concepire il concetto come conceptus sui ci porta pure a concepire la realtà come conceptus sui. Il soggetto, che concepisce sé concependo tutto, è la realtà stessa. Questo è veramente il nocciolo del pensiero di Gentile. La quale non è, come pensò Schelling traendo le conseguenze di tutta la speculazione neoplatonica, prima realtà e poi concetto di sé (prima Natura e poi Io), ma soltanto autocoscienza o autoconcetto, appunto perché il concetto non può intendersi se non come conceptus sui: e il concetto della realtà naturale, non ancora Io, sarebbe concetto non di sé, ma d’altro. Vedete qui la questione centrale per quanto riguarda il pensiero come atto puro, come conceptus sui, concetto di sé, dove non c’è altro che questa unità, che è il tutto, l’intero, il linguaggio. Ci sta dicendo che è come se volessimo moltiplicare il linguaggio; lo moltiplichiamo, ma ogni volta che compiamo questa operazione siamo sempre nel linguaggio, che è un intero, e non c’è modo di porre la questione altrimenti. Adesso parla della forma e della materia. Paragrafo 5. La forma come attività. Due concetti, anche questi, che sono un concetto solo: giacché essi sono come l’alfa e l’omega di un alfabeto che non è una linea retta, ma un circolo, in cui la fine è lo stesso principio. La forma infatti può e deve intendersi come assoluta, non avente contro a sé una materia, in quanto il concetto non solo va inteso come attività (come già, prima di Kant, badava ad avvertire Spinoza), ma come attività che non produce nulla che espella da sé e abbandoni fuori di sé, inerte e bruto. Niente quindi che si ponga innanzi al pensiero senza essere radicalmente identico al pensiero stesso. Sicché concepire il pensiero come forma assoluta, è lo stesso che concepire la realtà come conceptus sui. Non posso anteporre niente al pensiero che non sia un altro pensiero; che cosa gli antepongo? Adesso, ecco la questione del male, dell’errore, ecc. È chiaro che anche il male, così come l’errore, è qualcosa che è creato dal pensiero, non esiste di per sé, ovviamente. Paragrafo 8. Il male. Così il concetto è certamente vero, perché la verità non è altro che l’attributo proprio del pensare come concetto; e se il concetto non avesse in se medesimo differenza di sorta, e insomma fosse immediatamente concetto, come la pietra è pietra, e il due è due, né più né meno di quell’astratta quantità determinata che si pensa, è chiaro che l’errore non sarebbe concepibile. Perché non ci sarebbe nessuna possibilità di confronto. Ma per l’errore è da ripetere quel che è stato detto del dolore. Il concetto non è già posto, ma è il positivo che si pone; è un processo di autoctisi che ha per suo momento essenziale la propria negazione, l’errore di contro al vero. L’errore non è altro che la negazione, ciò che per Hegel era l’opponente. Sicché errore c’è nel sistema del reale in quanto lo sviluppo di cotesto processo pone l’errore stesso come suo momento ideale, una posizione, cioè, già superata, e quindi svalutata. Si prenda qualunque errore, e si dimostri bene che è tale; e si vedrà che non ci sarà mai nessuno che voglia assumerne la paternità e sostenerlo. L’errore, cioè, è errore in quanto è superato: in quanto, in altri termini, sta di rimpetto al concetto nostro, come suo non-essere. Esso è pertanto, come il dolore, non una realtà che si opponga a quella che è spirito (conceptus sui), ma la stessa realtà di qua della sua realizzazione: in un suo momento ideale. È interessante, perché è come se dicesse che il vero, ciò che idealmente è considerato il vero, è come un momento che non ha ancora preso in considerazione il suo aspetto dialettico; è come se lo volessi astrarre dalla dialettica. E, quindi, è un vero sempre manchevole. Da qui tutta la rincorsa per millenni alla verità, ecc., perché togliendo l’errore dalla verità e ponendola idealmente come separata, mi trovo nella condizione di immaginare la verità non più come momento, che insieme al falso costituisce l’intero, ma come una figura presa per sé. E qui subentra sempre lo stesso problema: se io prendo un momento del processo dialettico e lo pongo come figura, quindi, separato, poi mi tocca dimostrarne la verità; paradossalmente, la verità è richiesta di dimostrare la sua verità, in un rinvio infinito. Paragrafo 9. L’errore come colpa. Concepite il mondo come altro da voi: e la necessità del vostro concetto è una pura (perché astratta) necessità logica; ma concepite (come lo dovete concepire, e in fondo perciò lo concepite sempre) lo stesso mondo, senz’altro, come la vostra realtà in possesso di sé; e allora voi non potete parvi fuori della necessità del vostro concetto, come se la legge non vi riguardasse: ma la razionalità del vostro concetto vi apparirà la vostra legge stessa, il vostro dovere. Paragrafo 10. L’errore nella verità e il dolore nel piacere. Non dunque errore e verità, ma errore nella verità, come suo contenuto che si risolve nella forma; né male e bene; ma male onde il bene si nutre, nel suo assoluto formalismo. Se ci pensate bene, è la questione, detta in un altro modo, posta da Mendelson: l’errore nella verità; la verità intesa come procedimento deduttivo preciso, ma questo procedere deduttivo ha in sé l’errore, nel senso che la deduzione non riesce a porsi autonomamente se non attraverso qualche cosa che è altro da sé; in questo caso specifico, l’induzione. Cosa che già Hegel aveva inteso rispetto ai sillogismi. Paragrafo 12. Immanenza della natura dell’Io. L’autoconcetto, in cui soltanto lo spirito cioè tutto, è acquistar coscienza di sé; e questo Sé non è pensabile anteriormente e separatamente dalla coscienza di cui è oggetto nell’autoconcetto. Cioè: io sono questo pensiero che sta pensando, io sono quella cosa lì. Il quale si realizza dunque realizzando il proprio oggetto, o, dicendo altrimenti, si realizza come posizione di sé soggetto e di sé oggetto. È come se mi “vedessi” io che penso in quanto oggetto, ma questo oggetto sono sempre io che penso. Questo è l’Io: identità di sé con sé; non identità immediatamente posta, sibbene identità che si pone. Questo è un altro aspetto fondamentale del pensiero di Gentile: non c’è mai qualcosa che è posto, ma qualcosa che si sta ponendo. È riflessione: sdoppiarsi come sé ed altro, e ritrovarsi nell’altro. Il Sé che fosse sé senza essere altro, evidentemente non sarebbe né pur sé, perché questo esso è in quanto è l’altro. questo Hegel lo aveva inteso perfettamente: soltanto se mi pongo a fronte di ciò che non sono posso dire che sono. Né l’altro, poi, sarebbe l’altro, se non fosse lo stesso sé, poiché l’altro non è pensabile se non come identico al soggetto, e cioè come lo stesso soggetto quale questo ritrovasi innanzi a sé, ponendosi realmente. Paragrafo 14. Necessità dell’oggetto. Se non ci fosse il soggetto, chi penserebbe? E se non ci fosse l’oggetto, che cosa penserebbe il pensante? Non è possibile concepire il pensiero senza personalità, perché il pensiero (qualunque concetto, che si voglia porre, dommatico o scettico) è conceptus sui, cioè Io; e quindi non solo pensiero come attività, bensì attività che si ripiega su se stessa, e si pone pertanto come persona. Ma non è possibile nemmeno concepire il pensiero che non abbia il suo termine o punto di appoggio, perché il concetto di sé realizza infatti il Sé, come oggetto del conoscere. Vedete come questo continuo movimento è quello di Hegel, né più né meno. Dunque, il pensiero è concepibile a patto che non si concepisca tanto il soggetto quanto l’oggetto: reale il primo e reale il secondo, poiché reale è il pensiero, anzi niente è reale fuori del pensiero. Paragrafo 15. Spiritualità dell’oggetto. Di guisa che la tesi e l’antitesi, concorrenti nella realtà dell’autocoscienza (essere e non essere soggetto), hanno la loro profonda realtà nella sintesi. La quale non è soggetto e oggetto, ma soltanto soggetto, come reale soggetto che si realizza nel processo onde si supera la idealità del puro soggetto astratto e la concomitante idealità del puro astratto oggetto. Di nuovo Hegel: tra coscienza e autocoscienza è la coscienza che alla fine rimane, è la coscienza ciò con cui ho a che fare, ma ha bisogno dell’autocoscienza, perché senza l’autocoscienza io non so di avere coscienza. Capitolo XVII. Epilogo e corollari. Paragrafo 1. Caratteristica dell’idealismo. Un assoluto idealismo non può concepire l’idea se non come pensiero in atto, e quasi coscienza dell’idea… È questa la definizione di idealismo che dà. Una concezione idealistica mira a concepire lo stesso assoluto, il tutto come idea: ed è perciò intrinsecamente idealismo assoluto. Ma assoluto idealismo non può essere, se l’idea non coincide con lo stesso atto del conoscerla; perché – è questa la più profonda origine delle difficoltà in cui si dibatte il platonismo, – se l’idea non fosse lo stesso atto per cui l’idea si conosce, l’idea lascerebbe fuori di sé qualche cosa, e l’idealismo pertanto non sarebbe più assoluto. Naturalmente qui è da intendere l’idea, il pensiero, come l’atto di parola. Qui c’è tutta la questione che Gentile manca, e cioè la questione del linguaggio, perché nessuna idea, nessun concetto può darsi fuori del linguaggio, ma è costruito dal linguaggio: il pensiero non è altro che un prodotto del linguaggio. Mentre, così come lo pone Gentile, pur accorgendosi in qualche modo che sta parlando del linguaggio, di fatto pone il pensiero come se si producesse da sé, certo, come autoctisi ma si produce da sé perché è linguaggio, cioè, si produce nell’atto di parola. Paragrafo 3. Principio dell’idealismo attuale. Il pensare è attività, e il pensato è prodotto della attività, cioè cosa. L’attività come tale è causa sui, e perciò libertà; la cosa è semplice effetto, che ha fuori di sé il principio del proprio essere, e perciò è meccanismo. L’attività diviene; la cosa è. La cosa è come altro, termine della relazione ad altro. In ciò è la sua meccanicità. Quindi è uno tra molti; cioè, il suo concetto implica già la molteplicità, il numero. L’attività invece nell’altro realizza sé; ossia si realizza in se stessa come altro; quindi è relazione con se stessa: unità assoluta, infinita, senza molteplicità. Qui c’è una questione importante, e cioè la questione del pensiero pensante e del pensiero pensato. Lui ci sta dicendo che il pensiero pensante ha già in sé la sua alterità, cioè, non avrebbe bisogno del pensiero pensato per porsi come unità, perché il suo altro, dice, La cosa è come altro… è uno tra molti; cioè, il suo concetto implica già la molteplicità, il numero. Quindi, l’atto è già uno e molteplice; però, stando a ciò che lui ci dice questo atto puro posso pensarlo? È questa la questione. E come faccio a pensarlo se non lo pongo come un oggetto, come una cosa tra le cose? Non posso pensarlo, lo dirà tra poco, perché è l’impensabile, perché non posso pensare il pensato. Se lo penso, questo pensato lo sto pensando; ma questo “sto pensando” quando io lo pongo come pensiero è pensato, non lo sto più pensando; certo, lo sto pensando di nuovo, e poi ancora di nuovo. Ma ogni volta che lo penserò, lo penserò come un pensato, pur pensandolo come pensiero pensante, ma è un pensiero pensante che pensa il pensato. È una questione complessa perché è come se stessimo dicendo che l’atto puro, l’atto di pensiero, non posso realmente pensarlo perché pensandolo lo pongo come se fosse qualcosa che è fuori dal pensante e, quindi, lo pongo come cosa, come pensato. È la stessa cosa rispetto al significante e al significato di de Saussure: non posso dire il significato se non dicendo un significante; ma questo significante non posso dirlo se non è significato.

Intervento: È come se Gentile si contraddicesse da solo. Da una parte, parla dell’eterno; dall’altra, introduce questa distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato.

In teoria non potrebbe ma non può nemmeno non farlo, perché non può appoggiarsi al solo pensante, in quanto nel momento in cui lo penso svanisce, si dissolve. Come lo penso questo pensante se non come pensato? Non posso farlo.

Intervento: È come se spiegasse la necessità del tempo lineare?

In un certo senso, sì.

Intervento: Del nesso causale, del sillogismo.

Sì, come stesse dicendo, hegelianamente, che non possiamo pensare se non con sillogismi formali. Paragrafo 6. Doppio aspetto del pensato. Il pensato ha in se stesso come una doppia natura; e la sua intrinseca contraddizione è una forma dell’attività irrequieta del pensiero. Il pensiero infatti è impensabile perché pensato, e pensato perché impensabile. Il pensato non lo posso pensare, perché se lo penso lo sto pensando adesso come atto pensante. Il pensato è cosa, natura, materia, tutto ciò che si può considerare limite del pensiero; e ciò che limita il pensiero, è impensabile. Sarebbe fuori del pensiero. Il pensato è l’altro dal pensiero, quel termine innanzi al quale sentiamo che il pensiero si arresta, e la cui essenza è destinata a sottrarsi sempre mai al nostro sguardo. È vero, ma è vero per entrambi, sia per il pensante che per il pensato. Conosceremo le proprietà o qualità; ma dietro ad esse rimarrà la cosa, inattingibile. E ogni pensato è così, e solo a questo patto, pensato: perché ogni pensato è cosa, e, in quanto tale, incommensurabile con lo spirito. Cioè: con il pensiero pensante. E pure, perché impensabile, la cosa è pensata: la sua stessa impensabilità è pensiero. Non essa è in se medesima impensabile di là dalla sfera del nostro pensare; ma noi la pensiamo come impensabile… Che è quello che stiamo facendo in questo istante. …nella sua impensabilità, cioè, essa è posta dal pensiero; o meglio in essa come impensabile si pone il pensiero. Il quale ha questa natura di porsi, ed esiste soltanto ponendosi. Soltanto ponendosi: il che vuol dire, che se si guarda come semplicemente posto, come risultato del porsi, esso non è più un porsi, non è più pensiero; e il pensiero, non potendo non essere pensiero, si pone senza fissarsi come posto: si pone cioè come atto che non è mai fatto, ed è quindi atto puro, atto eterno. La natura, nell’atto stesso che vien affermata, è negata, spiritualizzata. E solo a questo modo essa vien posta. Questo è il tentativo di Gentile di cavarsi d’impaccio da questa posizione. Dice che il pensiero è soltanto pensiero autoponentesi, mai posto. Ma posso dire, è questo lo direbbe anche Hegel, che è autoponentesi se non è mai posto? Se è ponentesi vuole dire che si sta ponendo; è participio presente, nel senso prende letteralmente parte a ciò che sta accadendo. Quindi, non è autoponentesi se non può porsi in nessun modo; pertanto, ha bisogno di porsi. Ponendosi, diventa pensato. Questa è l’obiezione che viene da fare a Gentile, e cioè che pensiero pensante e pensiero pensato non sono due figure da tenere separate, per cui solo una è quella buona: il pensiero pensante avrebbe già in sé, come dice lui, l’uno e i molti integrati. Sì, va bene, ma non basta, perché se è autoponentesi in qualche modo deve porsi; se non si pone mai, allora non è autoponentesi e se è autoponentesi si pone, e si pone come pensiero pensato. Paragrafo 7. La natura dell’Io. Ma per potere concepire questa natura come realtà assoluta, dovrei poter pensare l’oggetto in sé, laddove questo oggetto che penso, non è se non aspetto del soggetto attuale. Né tale oggetto, si badi, ha soltanto un valore gnoseologico. Esso è realtà intrinsecamente metafisica. L’Io, dalla cui dialettica nasce questo oggetto, che poi non è altro che la stessa vita di esso Io, è l’Io assoluto: la realtà stessa che noi, volendo e non potendo non mantenere valore alla conoscenza con cui poniamo ogni realtà, non possiamo concepire se non come Io. L’Io che è, sì, l’individuo, ma l’individuo come soggetto, il quale non ha nulla da contrapporre a se stesso, e che trova tutto in sé; e perciò è il concetto attuale universale. Orbene, questo Io, che è lo stesso assoluto, è in quanto si pone: è causa sui. E qui c’è scritta la contraddizione: l’Io in quanto si pone. Come fa? È impossibile. L’Io, che è lo stesso assoluto, in quanto si pone è causa sui. Ma proprio in quanto si pone, perché finché è autoponentesi, ma non si pone mai, non è mai neanche causa sui, ma è qualcosa di indeterminato – i greci antichi avrebbero parlato di πειρον, l’indeterminato. Privato della sua interiore causalità, esso è annullato. Causando se stesso, è il creatore di sé e, in sé, del mondo: del mondo più saldo che si possa pensare: del mondo assoluto. Questo mondo è l’oggetto di cui parla la nostra dottrina, che perciò è gnoseologica in quanto metafisica. Si è dato del metafisico, va bene, non c’è nulla in contrario, però, sta parlando del linguaggio. È il linguaggio che è causa sui, che si autoproduce continuamente, e sappiamo anche come fa ad autoprodursi, perché dicendo qualche cosa io autoproduco ciò che quella cosa non è: dicendo A autoproduco non-A, che mi dà l’esatta determinazione di A; quindi, posso dire A solo a condizione che ci sia non-A. È in questo senso che si autoproduce, produce se stessa, cioè si produce in quanto dialettica; se non ci fosse dialettica non ci sarebbe neanche produzione. Paragrafo 12. Contro l’astratto soggettivismo. Il che non vuol dire già, come corre a immaginare spaventato chi s’affidi al pensiero volgare, che la realtà sia illusione soggettiva; ché la realtà è vera realtà, e realtà saldissima, ripeto, in quanto è lo stesso soggetto, l’Io. Questa è la realtà saldissima: l’Io, cioè, l’intero, il tutto, il linguaggio. Il quale non è autocoscienza, se non come coscienza (di sé determinato come qualche cosa). La realtà dell’autocoscienza è nella coscienza, è la realtà di questa in quella. Cioè: parlo e so che sto parlando. La scienza d’una autocoscienza è bensì la sua realtà, non chiusa in sé come risultato, ma quale momento dialettico. Cioè quello che sappiamo, è incremento della nostra intelligenza; la quale non ha tale incremento come una qualità acquisita e quindi conservata senza ulteriore bisogno di attività; ma con questo incremento si realizza in un nuovo sapere. Così sempre, senza che si possa distinguere tra un sapere e l’altro, se non per analisi e astrazione: poiché l’autocoscienza è una; e la coscienza è coscienza dell’autocoscienza. È l’autocoscienza che mi dice che sono cosciente. Lo sviluppo perciò dell’autocoscienza o, senza pleonasmo, l’autocoscienza è lo stesso processo del mondo (natura e storia) in quanto autocoscienza realizzata nella coscienza; e se diciamo questo sviluppo dello spirito, la storia che è coscienza, è la stessa storia dell’autocoscienza. Quello che diciamo il passato, non è se non l’attuale presente nella sua concretezza. Questo è il passato: l’attuale presente nella sua concretezza, cioè, l’essere presente del tutto. Capitolo XVIII. Idealismo o misticismo? Paragrafo 2. Differenza. Ma se l’idealismo attuale partecipa del pregio, esso si sottrae nelle sue stesse tesi fondamentali al difetto del misticismo. L’idealismo risolve tutte le distinzioni ma non le cancella come il misticismo, e afferma il finito non meno risolutamente che l’infinito… Questo lo faceva già Hegel, naturalmente. …la differenza non meno che l’identità. Questo il punto sostanziale in cui le due concezioni divergono, per modo che l’una, la mistica, si può considerare come una dottrina essenzialmente intellettualistica (malgrado le apparenze) e idealmente anteriore perciò al Cristianesimo; laddove l’altra, l’idealistica, è dottrina essenzialmente antintellettualistica, e fors’anche la forma più matura della moderna filosofia cristiana. Paragrafo 8. Come si supera l’intellettualismo. L’intellettualismo può esser vinto soltanto se non gli si volti le spalle, ma gli si va incontro, e si concepisce il conoscere nel solo modo in cui è possibile formarsene un’idea adeguata: che è quello, adottato da noi, di non supporgli come logico antecedente il reale che ne è oggetto; di concepire cioè esso stesso l’intelletto come volontà, libertà, moralità: e cancellare dal mondo quella natura, che par base allo spirito, e non è se non un suo momento astratto. Il vero antintellettualismo insomma è il vero intellettualismo, o meglio, l’intellettualismo vero, che non ha fuori di sé il volontarismo: non è più un solo dei due vecchi termini antagonistici, ma l’unità di entrambi. Paragrafo 9. Antitesi tra idealismo e misticismo. Quell’Io assoluto è appunto l’io che ciascuno di noi realizza in ogni ritmo della propria esistenza spirituale: quello appunto, che pensa e sente, teme e spera, vuole ed opera ed ha una responsabilità, e diritti e doveri, e costituisce a ciascuno di noi il cardine del suo mondo. Questa è un’altra obiezione che era stata fatta all’intellettualismo di essere fuori della realtà. Gentile continua a dire che questa è l’unica vera realtà: il fatto che io parli. Lui parla del pensiero, certo, ma se lo poniamo in termini più precisi, l’unica realtà vera è questa, e cioè che parlo. Paragrafo 10. Idealismo e le distinzioni. Non c’è la natura, né la storia; ma, sempre, questa natura, questa storia, in questo atto spirituale. Potremmo dire: in questo atto di parola. E cioè: c’è la storia in ciò che sto dicendo, c’è la natura in ciò che sto dicendo, non c’è niente fuori. Paragrafo 13. Distinzioni e numero. Le distinzioni sono un infinito dell’immaginazione, o potenziale, se si considerano come pura storia astratta dalla filosofia, forme della coscienza scisse dall’autocoscienza. In questa invece le distinzioni sono sempre un infinito attuale, l’immanenza dell’universale nel particolare: tutto in tutto. Questa potrebbe essere la sintesi del pensiero di Gentile: tutto in tutto. Paragrafo 14. La conclusione dell’idealista. Io non sono mai io, senza essere tutto in quello che penso; e quello che penso è sempre uno, in quanto vi sono io. La mèra molteplicità appartiene sempre al contenuto della coscienza astrattamente considerato; e in realtà è sempre risoluta nell’unità dell’Io. Se sono io che la penso è sempre uno. La vera storia non è quella che si spiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno dell’atto del pensare, in cui infatti si realizza. Potremmo dire: l’atto di parola in cui si realizza. In questo si raccoglie l’eterno: l’eterno dell’atto di parola, che non ha un prima e un dopo, cioè non ha condizioni, non è condizionato. Questo non vuol dire che non ci sia la storia, lo ha detto continuamente, la storia c’è, ma è sempre qui nel concreto. Rileggo: La vera storia … è quella che si raccoglie nell’eterno, potremmo dire, dell’atto di parola. Questa è la vera storia: quella che è qui in questo momento mentre sto parlando, e che mi fa parlare nel modo in cui parlo. Non ce n’è un’altra da qualche parte, se non con l’astrazione, però l’astrazione ci toglie il concreto, immagina che qualche cosa possa darsi fuori dell’atto di parola; solo a questa condizione posso pensare che qualcosa rimanga esattamente lo stesso, cioè, rimanga fuori dell’atto di parola. Forse lo abbiamo già detto, ma è il caso di ripeterlo: ogni volta che io astraggo, e sappiamo che non posso non astrarre, è come se ponessi in qualche modo ciò che sto astraendo come fuori dal linguaggio, come se lo stessi astraendo dal linguaggio. Chiaramente, faccio questa operazione nel linguaggio. Gentile direbbe: sì, penso qualche cosa che è fuori del pensiero, ma intanto lo sto pensando; il che è un altro modo per dire che non c’è uscita dal linguaggio.

Intervento: Non riesco ancora a capire come abbia potuto introdurre questa distinzione tra pensante e pensato, nonostante egli stesso affermi dell’eterno.

Nonostante che lui stesso a un certo punto dica che l’Io che si autoproduce è posto. Che è esattamente il contrario di ciò che diceva, e cioè che non è mai posto ma è sempre in fieri, è sempre ponentesi.

Intervento: Mi sembra lo stesso problema di Hegel quando parla dell’infinito, arrivando poi, alla fine, al cattivo infinito, perché non vogliono pensare al punto di inizio, e allora cercano di confondere le acque…

Per trovare una scappatoia per reinserirlo in qualche modo. Sì, è possibile, certo. Se non si arriva a intendere che tutta la questione non è altro che il linguaggio si autoproduce dicendosi, è come se ti mancasse sempre un pezzo, il pezzo fondamentale, quello che dà l’avvio a tutto. E, allora, ecco, come dicevi giustamente, la ricerca di dov’è il cominciamento, dov’è che si principia; comincio da lì, ma se comincio da lì, questo non più il cominciamento, è già un’altra cosa, è già qualcosa che sto pensando, è già un’idea… È come il famoso Big Bang di cui dicevamo la volta scorsa: mi avvicino, sì, ma se lo prendo in considerazione già non è più il punto d’inizio. E così il punto dove incomincia il linguaggio.

Intervento: …

Si comincia sempre dall’ente, mai dalla relazione. È la relazione che fa l’ente. Bisogna arrivare a Peirce per porre una questione del genere, e cioè è la relazione che fa i due enti, A e B, quello che sono. Prima della relazione non ci sono né A né B. Lì è detta in modo semplice e inequivocabile. È la relazione che li fa esistere, fuori della relazione A e B non sono niente. Lo diceva già Hegel: se A non ha a fianco un qualche cosa che non è A, come la B, A non è niente. Lo diceva ma senza arrivare alla questione. Hegel ha mancato la questione fondamentale della relazione, quindi del linguaggio, perché è il linguaggio che è relazione, non è altro che relazione.

Intervento: …

Anche de Saussure la pone, anche se non arriva alla determinatezza di Peirce: che la A e la B non ci sono. Che esattamente ciò che diceva Hegel, senza avvedersene: la A, senza non-A, non c’è, e dall’altra parte la B, senza la A, non c’è. È la relazione che c’è.

Intervento: È come se entrambi non ponessero la questione al loro stesso pensiero.

Sì. Questo è stato l’innesco per incominciare a pensare in un altro modo, cioè, applicare le conclusioni di un’argomentazione all’argomentazione stessa. Queste conclusioni cui giungo sono fatte delle stesse argomentazioni; quindi, queste conclusioni erano già implicite in qualche modo, c’erano già nell’argomentazione. Che è la stessa cosa che dire, come ho già detto altre volte, che è già tutto nel linguaggio; ciò che è stato fatto duemila anni fa, ciò che si farà tra diecimila anni, è già nel linguaggio, non può non esserci; sennò sarebbe fuori del linguaggio e, quindi, totalmente inaccessibile, non potrebbe accadere mai. La questione della relazione è ciò che manca, e cioè, appunto, la questione del linguaggio.

Intervento: Non ha mai pensato il suo pensante.

In un certo senso, sì. Avrebbe dovuto pensare al pensante come al pensato e pensarlo. Vedremo se nelle pagine della Logica affronterà il problema. Lo spero, perché non è un problema da niente, cioè, ne va di tutto il suo pensiero, della affermabilità del suo pensiero.