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21-10-2015

 

Per Heidegger la verità consiste nel disvelamento dell’essere, dell’essere in quanto esserci, in quanto Dasein, quindi per Heidegger la verità si pone come ¡λήθεια, disvelamento appunto. Per Severino invece la verità riguarda l’incontrovertibile, riguarda la βεβαιτατε ἀρχή, e in questo caso la verità si pone come ἐπιστήμη. Tuttavia quando Heidegger afferma che la verità è il disvelamento dell’essere sta dicendo qualche cosa che ritiene vero, cioè ritiene che questa espressione “la verità è il disvelamento dell’essere” abbia una corrispondenza a una qualche cosa che è quella che è, e che lui ha enunciata, e cioè che questa proposizione sia adeguata al modo in cui stanno le cose. Lo stesso vale per Severino ovviamente, quindi per potere affermare che la verità è, consiste, nel disvelarsi dell’essere occorre un adeguamento. Ora chi si è occupato di questo, mi sono domandato? Chi è che si è occupato della verità come adeguamento della parola alla cosa? C’è qualcuno che si è occupato esattamente di questo, si tratta di Alfred Tarski. Tarski è noto per avere risolto un problema che assillava la logica, ma questo adesso non ci interessa. Tarski ha posto che tra la parola e la cosa c’è un adeguamento, che lui chiama “soddisfazione”, vi riporto il suo esempio classico: scrive tra virgolette “la neve è bianca”, con il “tra virgolette” si indica comunemente in logica il nome della proposizione, a questo enunciato fa seguire a destra, se è soltanto se la neve è bianca, senza virgolette cioè - {“la neve è bianca” se e soltanto se la neve è bianca}, che sembra una sciocchezza, però ci sono virgolette, le virgolette indicano che questo enunciato “la neve è bianca” è vero se e soltanto se effettivamente la neve è bianca. Ciò che l’ha reso celebre è l’avere utilizzato due registri, il linguaggio oggetto e metalinguaggio. Mettere tra virgolette “la neve è bianca” indica il metalinguaggio, mentre la neve è bianca, senza virgolette, sarebbe il linguaggio oggetto, sarebbe la realtà, però qual è il problema? Perché lui ci dice che questo enunciato è vero se la parte di destra soddisfa quella di sinistra, soddisfa quella virgolettata. Il problema è che non fornisce una spiegazione sufficiente o comunque soddisfacente del concetto di “soddisfazione”, cioè di adeguamento, cosa fa sì che la prima parte, la parte di sinistra sia adeguata a quella di destra? Cioè la parte virgolettata sia adeguata a quella non virgolettata? È un problema che è stato rilevato fra l’altro, ma poi c’è un altro problema: perché questo adeguamento fa da tramite tra la proposizione e ciò di cui la proposizione parla, ora si ripropone il problema del “terzo uomo” di Aristotele, e cioè se  fra il primo elemento, quello di sinistra, e quello di destra, in mezzo ci mettiamo l’adeguamento poi si porrà un altro problema “che cosa fa sì che l’adeguamento sia connesso con il primo elemento?” ci sarà un terzo elemento e così via all’infinito. Questo comporta che la soluzione che fornisce Tarski anziché essere adeguata risulta inadeguata, cioè non ci dice esattamente che cosa accade quando si afferma qualche cosa e questo qualche cosa lo si intende riferito al qualche cosa di cui ciò che si sta dicendo sta parlando. La verità per Tarski è l’adeguamento tra ciò che si dice e ciò di cui si dice, però ci sono questi problemi che vi ho accennati. Per alcuni, data la difficoltà di definire la verità, la verità è stata posta come un dato naturale, senza tenere conto del fatto che se fosse una cosa naturale, un concetto naturale sarebbe lo stesso per tutti, cosa che non è, come abbiamo visto per Heidegger è una cosa per Severino un’altra, per Aristotele un’altra cosa ancora, per Platone un’altra cosa ancora. Per esempio per il pragmatismo la verità è l’utile, se una cosa è utile allora diciamo che è vera, per il coerentismo la verità è ciò che è coerente, se quello che affermo è coerente con le cose che so essere vere, se è coerente allora sarà vera anche questa, ora tutto ciò dove ci conduce? Al punto da cui siamo partiti, quando affermo qualche cosa, questa affermazione comporta almeno due aspetti: la proposizione e ciò di cui la proposizione parla, che cosa garantisce che ci sia un adeguamento? Nulla naturalmente, ma questo adeguamento viene prodotto per via del fatto che se parlo, parlo necessariamente di qualcosa quindi se sto dicendo qualcosa c’è qualche cosa di cui sto dicendo, e poi affermando qualche cosa, nel momento in cui la affermo, la coerenza tra ciò che dico e ciò di cui dico. In effetti non c’è propriamente un criterio che possa garantire della coerenza fra ciò che dico e ciò di cui dico, questa coerenza è costruita, letteralmente, è costruita nel senso che mentre affermo qualcosa, affermandolo intanto lo faccio esistere, e poi lo stabilisco, stabilisco che è così. La connessione che Tarski chiamava “soddisfazione” cioè l’elemento di destra che soddisfa quello di sinistra, questa soddisfazione in effetti è imposta, non posso affermare qualche cosa se non penso, credo, suppongo, immagino, decido che ciò che sto dicendo corrisponda a qualcosa. Questa corrispondenza è in un certo senso necessaria, anche se, parafrasando Nietzsche, potremmo dire che è una illusione, però senza questa corrispondenza si creerebbe un problema grossissimo, e cioè mentre dico affermo qualcosa, se non affermo qualcosa non sto affermando niente, se non ci fosse una corrispondenza tra ciò che dico e ciò di cui dico il mio dire sarebbe niente, cioè non affermerei niente. Per questo vi dicevo è necessaria questa corrispondenza fra ciò che dico e ciò di cui dico, ma che cos’è il ciò di cui dico? Per Tarski, nel suo esempio era la realtà, le cose stanno così, l’enunciato “la neve è bianca” dice che la neve è bianca è vero perché effettivamente se guardo la neve dico che è bianca, e allora quell’enunciato è vero. Le cose sono un po’ più complicate naturalmente di come la fa Tarski, ma che cos’è il ciò di cui dico? Perché sta qui la questione, se sono costretto a pensare che affermando qualcosa ci sia un qualche cosa che sto affermando oltre alle parole che dico, se sono costretto a fare questo è perché il linguaggio impone che ciascuna cosa, ciascun elemento che interviene sia quello che è per via di un’altra cosa, che è la nozione stessa di significato, in effetti quando uno non capisce quello che l’altro gli sta dicendo magari chiede che cosa significa, cioè “qual è il rinvio di quello che dici?”, a che cosa rinvia? Il significato è questo, è un rinvio da una cosa a un’altra, e quell’altra è quella necessaria perché la prima sia quella che è. Lasciamo stare per un momento la realtà e riprendiamo l’enunciato di Tarski, cioè la proposizione “la neve è bianca” è vera se questa proposizione rinvia a un qualche cosa in modo tale che questo rinvio possa costituire il significato, cioè il secondo elemento deve costituire il significato del primo, indipendentemente dal fatto che la neve sia bianca oppure no, anche perché affermare che la neve è bianca di per sé non significa un granché, occorrerebbe fare una serie infinita di precisazioni che condurrebbero a un rinvio infinito per cui non sapremmo mai di fatto se effettivamente la neve è bianca. Quindi un enunciato per essere quello che è, e quindi qualche cosa che enuncia qualche cosa, deve rinviare a un altro elemento, quest’altro elemento a cui rinvia è quello che costituisce il significato del primo, cioè lo fa essere quello che è. Questo movimento l’abbiamo visto in Severino, che parla di questo movimento tra essere e nulla, non si tratta qui naturalmente di adattare quello che sto dicendo a Severino ma questa oscillazione, il movimento tra l’essere e il nulla, la parola greca è ἐπαμφοτερίζειν, questo movimento tra qualche cosa che per essere ciò che dice di essere ha bisogno di qualche cos’altro che lo faccia essere quello che dice di essere, è questo movimento continuo che costituisce un grosso problema nel linguaggio, è un problema per il fatto che è esattamente questo che impedisce di potere affermare una qualche cosa con certezza a proposito del linguaggio, perché qualunque cosa si affermi e lo si voglia fermare, questa cosa posso fermarla a condizione di rinviarla a un’altra, la quale altra mi consentirà di fermare la prima, questo movimento è l’ἐπαμφοτερίζειν. Questo ha delle implicazioni: ogni volta che si afferma qualche cosa, questo qualcosa che si sta affermando non può essere quello che è se non in vista di altro. Questo lo ha intravisto Heidegger, come l’essere sempre “in vista di …” ora potremmo dire a questo punto che la volontà di potenza di cui parla Nietzsche potrebbe anche consistere in questo, nel volere fermare ciò che non è fermabile, per questo è sempre una rincorsa, perché se voglio fermare, determinare qualche cosa, necessito di un’altra cosa, quindi sono spostato su un’altra cosa che mi consente di fermare la prima, ma mi consente di fermarla in un modo molto particolare, perché nel momento in cui la fermo questa cosa è dipendente da quell’altra quindi ci si trova davvero in una bizzarra situazione parlando. È di questo che vi sto parlando, dell’affermare qualcosa, ciò che accade quando si sta affermando qualcosa, quando si afferma qualcosa, accade, se si pensa la cosa, che non c’è nulla che sia affermabile, nulla cioè che non dipenda sempre da altro, che rinvia immediatamente a un’altra domanda, e cioè che cosa faccio esattamente quando affermo qualcosa? Dico una cosa che rinvia a ciò di cui quella cosa sta parlando, e quella cosa dà alla prima il suo statuto per così dire, ma di che cosa sono fatte queste cose? Tanto il dire qualche cosa quanto il qualche cosa di cui si sta dicendo, sono sequenze linguistiche ovviamente, che danno però il modo di avvertire forse in modo più preciso che ciò che sto facendo quando affermo qualcosa, cioè quando parlo, parlando affermo ininterrottamente cose, ciò che sto facendo è mettere in atto un gioco, un gioco che procede nel modo che stavo indicando prima, questo ἐπαμφοτερίζειν; c’è qualche cosa di cui dico che rende ciò che dico quello che è e da lì proseguo, perché se non ci fosse questo movimento, se il secondo elemento non stabilisse il primo, il primo rimarrebbe niente e ci sarebbe un dire senza un qualche cosa di cui sta dicendo, un dire nullo, totalmente inesistente. Tutto questo mostra il funzionamento del linguaggio, e ciò che accade mentre si parla, questo movimento di andata e ritorno in cui qualche cosa si ferma, ma il fermarsi di qualche cosa non è propriamente l’essere il qualche cosa, è il poterlo fermare attraverso l’altro elemento per poterlo utilizzare, non c’è nessun altro motivo, solo in questo modo posso utilizzare qualcosa. Se io dico qualche cosa, questo qualche cosa lo utilizzo se c’è un qualche cosa di cui sto dicendo, se no che cosa utilizzo? È niente, non utilizzo niente. Questo rende conto del modo in cui il linguaggio funziona: per potere procedere ha bisogno di questo movimento che poi per altro è stato reperito anche da molti attraverso la nozione di segno, di significato, di rinvio, non c’è una cosa che non rinvia a un’altra “significante/significato” “espressione/contenuto” “enunciazione/enunciato” eccetera, un modo per avvertire come un elemento non possa darsi senza un altro. Questo già Hjelmslev lo sapeva, che cioè non c’è un’espressione senza un contenuto, è nulla, non c’è ciò che dico senza un ciò di cui dico. Quindi se affermando qualche cosa, fossi in condizioni di tener conto di questo allora cosa accadrebbe? Ma occorre fare un piccolo passo indietro per dire di questa cosa. Ciò di cui sto dicendo ha la sola funzione di stabilire il fatto che sto dicendo, cioè il “dicendo”, non ha un’altra funzione, ogni elemento trova in ciò di cui sto dicendo il suo significato allo scopo di potere procedere e cioè per potere essere utilizzato e quindi per potere procedere, quindi a questo punto ciò che interviene è che ciò di cui sto dicendo ha l’unica funzione di potere fermare ciò che dico e quindi poterlo utilizzare, e quindi consentirmi di proseguire, ma a questo punto con cosa mi trovo ad avere a che fare? Se perdo la supposizione che dicendo, affermando eccetera io fermo delle cose, le faccio essere quelle che sono, e la perdo perché di fatto sto facendo soltanto un gioco linguistico che mi consente di utilizzare cose per potere proseguire, se perdo questo perdo la necessità di continuare a parlare perché non c’è più nessun motivo per farlo. Pensateci bene, a questo punto ciò che si costruisce man mano ha il solo scopo di consentire agli elementi di essere utilizzabili, cioè di consentire queste sequenze, non c’è nessun altro motivo, ma ciò che fa sì che gli umani continuino a parlare è questa illusione di cui parlava Nietzsche, illusione di potere appunto, di potere acquisire altro potere affermando, quindi fermando, quindi stabilendo altre cose, vere naturalmente, da mettere lì e poi per, come diceva lui, superpotenziarle, aumentare il potenziamento all’infinito, all’infinito perché non c’è una fine ovviamente. Se si perde l’idea che parlando ci sia la possibilità di affermare delle sequenze di verità, allora si perde la necessità di parlare, non c’è più nessun motivo per farlo, anche se come sappiamo risulta improbabile che il linguaggio si arresti. Rimane il fatto che sapendo questa cosa e non potendo non saperla ci si trova in questa condizione davvero singolare, non c’è più il motivo per parlare, perché? Visto che si parla unicamente, e questo Nietzsche lo aveva visto benissimo, unicamente per potere aumentare il proprio potere, non c’è nessun altro motivo, se si perde questo cosa rimane? Niente. Che poi non è proprio così perché comunque il linguaggio funziona in questa maniera e cioè di rinvio in rinvio, ma diciamo che la voglia, il desiderio, quello che vi pare, di continuare a parlare risulta fortemente compromesso, mettiamola così per trovare un modo più grazioso. Ma tutto ciò è una costruzione ovviamente, una costruzione che mostra il modo in cui il linguaggio si svolge e funziona, potremmo anche dire che potrebbe apparire incontrovertibile nel senso che un elemento, torniamo a Tarski, se questo enunciato tra virgolette “la neve è bianca” non avesse sulla destra lo stesso enunciato non virgolettato, il primo sarebbe nullo, rimarrebbe sospeso nell’etere come un fiocco di neve che non cade mai. A questo punto il concetto di verità appare obsoleto, cioè non ha propriamente un utilizzo. Il concetto di verità, in tutti i modi in cui è stato definito, stabilito eccetera, come ¡λήθεια, come ἐπιστήμη comporta sempre quell’adeguamento, cioè l’ὀρθότης, che voleva essere espunto tanto da Heidegger quanto da Severino ritorna, ritorna necessariamente come un adeguamento tra il dire e ciò di cui il dire è un dire, tra ciò che dico e ciò di cui dico. Abbiamo visto che non si tratta propriamente di un adeguamento perché non c’è nulla che mi consenta di potere stabilire con assoluta certezza che questa cosa è adeguata a quell’altra, semplicemente è necessario questo altro elemento perché il primo sia un qualche cosa, cioè sia utilizzabile, quindi il concetto stesso di verità a questo punto potrebbe anche non essere più utile o necessario, anche se possiamo dire che il fatto che sia utilizzabile è la sua verità, ma non ci porta molto avanti rispetto a tutto ciò. Forse ciò che è ancora da pensare è il concetto di utilizzabilità, che potrebbe offrire ancora delle nuove argomentazioni, però l’utilizzabilità di un elemento è nient’altro che la possibilità che questo elemento si connetta con un altro, quindi è utilizzabile, se è un elemento linguistico, cioè se è all’interno di una combinatoria, perché sia all’interno di una combinatoria occorre che questo elemento abbia un altro elemento che lo faccia esistere per quello che è, che un significante abbia un significato, l’enunciato una enunciazione eccetera. È un sistema di funzionamento molto semplice in effetti, che è stato rilevato da filosofi, linguisti, semiotici, logici, ma senza coglierne la portata più radicale, è questo in fondo l’insegnamento di Heidegger: domandare, pensare le cose anziché porle, darle per acquisite. Radicalizzando la cosa, ciò a cui conduce è che queste sequenze che procedono in questo modo attraverso questo nuovo significato che ho proposto dell’ἐπαμφοτερίζειν, che va al di là di quello che intendeva Platone e poi Severino, e cioè l’oscillazione tra l’essere e il niente, ma tra un elemento e l’altro che lo fa esistere, questa oscillazione continua che avviene nel linguaggio è ciò che impedisce di fermare una qualunque cosa, di affermare una qualunque verità, di affermare nel senso di potere stabilire con certezza qualche cosa, perché questa certezza è data da un altro elemento e così via all’infinito …

Intervento: l’ὀρθότης funziona strutturalmente mentre stiamo parlando …

Difficile a dirsi, perché questo adeguamento in realtà potrebbe anche non sussistere in quanto tale, perché l’adeguamento così come è pensato da Platone e da tutta la filosofia non solo è comunque quell’elemento, il terzo elemento, quello che soddisfa l’equazione, che soddisfa la parte sinistra dell’enunciato di Tarski, lo soddisfa quindi è adeguato, però già i logici hanno considerato che questa nozione di adeguamento o la si dà come primitiva, oppure non si riesce a definirla in modo soddisfacente …

Intervento: dio sarebbe quel terzo elemento …

Più che adeguamento dio, almeno nella tradizione, è pensato come il significato ultimo delle cose e quindi ciò che rende le cose quelle che sono, poi c’è l’adeguamento fra il mortale e dio, ciò che consente al mortale di adeguarsi alla volontà di dio sono la carità e le altre virtù …

Intervento: dio come quel qualcosa che garantisce che una certa cosa sia quest’altra …

La teologia non sarebbe tanto contenta di mettere dio come un intermediario, un mezzano. Dicevo della verità, che a questo punto diventa obsoleta anche per un altro motivo, la verità nella tradizione è posta, come diceva giustamente Nietzsche, come quell’illusione che consente di pensare di avere potere, questo gioco, questo ἐπαμφοτερίζειν tra un elemento e ciò quell’altro che lo fa esistere non ha bisogno della verità per muoversi, non gliene importa assolutamente niente, mentre la verità, così come è comunemente intesa, è quell’elemento che costituisce il modo di pensare che le cose stiano proprio così, la verità è l’enunciato di Tarski, è la neve che è veramente bianca, quella è la verità che mi da quindi la possibilità di pensare e di incrementare il mio potere aumentando la verità, perché è ciò che mi consente di stabilire come stanno le cose, per questo dicevo all’inizio, quando Heidegger afferma che la verità è il disvelamento dell’essere in quanto “esserci”, questo per lui è la verità, è il modo in cui stanno le cose, cioè questa proposizione che afferma che la verità è il disvelamento eccetera rappresenta uno stato di cose, se no non l’avrebbe affermata, lo stesso è per chiunque evidentemente.

Intervento: per questo parlavo di struttura dell’ὀρθότης che funziona ininterrottamente e che ci consente in questo momento di fare una descrizione del funzionamento del linguaggio, è come se non si potesse non compiere questa operazione …

Ciò che c’è fra il primo elemento e il secondo, è adeguamento? Se sì, allora devo provare che c’è adeguamento, che è il problema su cui si sono scontrati i logici, questo adeguamento non si riesce a stabilire con certezza. Oppure non c’è, ma se non c’è allora occorre trovare un’altra direzione, e questa sera l’ho un po’ tratteggiata nel considerare che tra il primo elemento, quello di sinistra e il secondo, quello di destra, non c’è adeguamento ma c’è la necessità che uno “corrisponda” mettiamolo tra virgolette, “corrisponda” all’altro, nel senso che dice del primo che cosa il primo è, non parlo di adeguamento perché questo termine è appunto un po’ problematico per i motivi di cui dicevo, non si trova il modo di stabilire esattamente in che cosa consiste esattamente questo “adeguamento” tra una cosa e l’altra, però se diciamo che ciò che dico necessita che ci sia il ciò di cui dico, ecco che allora abbiamo stabilito un qualche cosa che è necessario che sia perché se non ci fosse il ciò di cui dico, ciò che dico sarebbe nullo, quindi sì, c’è ovviamente una connessione fra i due elementi.

Intervento: questa connessione la decido io però …

Sì e no, non può decidere che ciò che dico abbia un qualche cosa di cui dico, perché altrimenti ciò che dico sarebbe nulla, non potrei neanche dirlo, poi naturalmente intervengono a questo punto, visto che il linguaggio è straordinariamente complesso, interviene esattamente ciò che diceva De Saussure “che ci sia un significato rispetto al significante non è una decisione del parlante, se vuole parlare, ciò che dice è composto di significante e significato” diceva lui, poi quale sia il significato questo è arbitrario, però se tengo conto che qualunque significato ci metta questo significato non ha altra funzione che fare funzionare il primo perché sia utilizzabile, e quindi non è ciò che il primo vuole dire necessariamente, ecco che allora si perde la questione della verità. Il significato sarebbe in un certo qual modo la verità del significante, se si perde la verità perché non ha più nessuna funzione allora parafrasando Nietzsche “perché si parla?” non c’è più nessun motivo, perché si parla per continuare ad affermare delle verità una dietro l’altra, inanellate all’infinito per potere avere sempre più potere, per potere dire come stanno le cose, se questo non c’è più viene a scemare il motivo stesso per cui si parla, e si cessa di parlare.