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21 settembre 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Questa sera la dedichiamo a Empedocle. A pag. 567. Empedocle, come attesta Ippoboto, era figlio di Metone, a sua volta figlio di Empedocle, di Agrigento. E questa stessa testimonianza fornisce anche Timeo nel quindicesimo libro delle Storie, aggiungendo che l’Empedocle nonno del poeta era stato un uomo ragguardevole. Siamo nel V sec. a.C. ad Agrigento, in Sicilia, nella Magna Grecia. Ci sarà una questione importante, ci arriveremo. A pag. 593. Dottrina. Empedocle pose come principi i quattro elementi, aggiungendo ai tre sopra menzionati (acqua, aria, fuoco), anche un quarto, la terra. Questi, infatti, restano sempre immutati, e non sono soggetti a divenire, se non per aumento o diminuzione di quantità… Come se l’aumento o la diminuzione di quantità non fosse già un divenire. Costui pone quattro elementi corporei, fuoco, aria, acqua e terra, che sono eterni, ma variano quantitativamente, per abbondanza o scarsità, secondo aggregazione e disgregazione, e i principi per eccellenza, da cui questi elementi sono mossi, Amicizia e Contesa. Infatti, gli elementi devono continuare a muoversi alternamente, ora aggregati da Amicizia, ora invece separati da Contesa. Qui c’è già un problema: se queste cose devono essere eterne, immobili, ma mutano; e, allora, sono eterni o mutano? Bisogna che si decida per una forma o per l’altra, perché, come dirà poi Aristotele, tertium non datur. A pag. 597. Empedocle, che visse dopo questi (i Pitagorici), disse molte cose anche a proposito della natura dei demoni, che si aggirano amministrando i casi terreni, e che sono moltissimi. Affermò che il principio del Tutto sono Contesa ed Amicizia e che il fuoco intelligente della monade è Dio e che tutte le cose sono costituite dal fuoco e si risolveranno nel fuoco. E a questa dottrina, in qualche misura, si attengono anche gli Stoici, in quanto attendono la conflagrazione universale. Questo era un frammento da Ippolito. A pag. 611. Frammento di Aristotele. Una seconda opinione è quella di quanti affermano che la luce è una vampa, costituita da particelle sottilissime dello splendore luminoso, proiettata con un impulso fortissimo: questa sembra essere l’opinione di Empedocle. È la teoria corpuscolare della luce, poi c’è quella ondulatoria.

Intervento: Verrebbe da pensare che la fisica moderna è dovuta al fatto che i fisici riescano ad argomentare con la matematica teorie già di duemilacinquecento anni fa.

Qualcosa del genere. Talete per primo affermò che (la luna) è illuminata dal sole. Analogamente Pitagora, Parmenide, Empedocle. Quindi, sapevano già. Non c’era niente di strano in tutto ciò. Abbiamo anche visto in varie circostanze che la credenza che la terra fosse piatta non era poi così diffusa, almeno tra i pensatori, che sapevano benissimo che era sferica. A pag. 651. Qui è Empedocle che parla, in questi frammenti rimasti del suo poema Sulla natura. Perché le forze diffuse nelle loro membra sono anguste / e li colgono molti mali che estenuano i pensieri. / Rapidi a morire nella vita / non scoprono che una piccola parte della vita, e come fumo / innalzandosi dileguano, confidando soltanto / i quello che ciascuno incontra per caso / vagando per ogni dove, e ognuno si vanta / di avere scoperto il tutto. Così difficile per gli umani / è scorgere queste cose, e udirle, e coglierle con la ragione. / Ma tu, poiché hai preso rifugio qui / le saprai, perché mente umana non si è levata più in alto. Cioè: non c’è un sapere al di sopra del mio. O dei, allontanate dalla mia lingua / follia su questi argomenti e fate che da labbra pure / sgorghi una sorgente pura! A Te, / vergine molto desiderata Musa dalle braccia candide / la mia invocazione: reca quanto agli effimeri (gli umani) / è lecito ascoltare, guidando il carro della santità, / docile alle redini! (Qui c’è un richiamo a Parmenide) E non ti dispiaccia / cogliere fiori di gloria tra i mortali / con un parlare colmo di purezza e ardimento; / allora giungerai veloce alle vette della sapienza. / Ma adesso scruta ogni cosa con ogni strumento, / come ciascuna diviene evidente, e non prestare fede / alla vista più che all’udito, né all’orecchio che rimbomba / più che agli indizi evidenti della lingua, e non negare fiducia / a nessuna delle altre membra, dove si apra un varco / di conoscenza immediata, e cogli ogni cosa / come essa si manifesta. A pag. 653. E altro ti dirò: non c’è nascita / per nessuna delle cose mortali, né termine di morte le distrugge / ma soltanto mescolanza e separazione / di elementi mescolati, che origine viene detta dagli umani. Empedocle compie una operazione singolare. Dal suo scritto sembra affiorare questo, che lui ha cercato di cogliere degli aspetti di Parmenide, di Zenone, di Democrito, di Anassagora, ma con l’intento di trovare un qualche cosa di accettabile. Le cose che dicevano Parmenide, Zenone, ecc., non erano cose accettabili, dicendo che non c’è movimento. D’altra parte, anche Democrito, con il caos era poco accettabile; anche Anassagora, tutto sommato, creava qualche problema. Empedocle, invece, vuole mantenere la posizione degli eleati, dove nulla si muove, c’è l’immobile, ma anche la posizione dei materialisti, cioè di coloro che invece affermano il movimento; quindi, trovando una sorta di soluzione che mettesse un po’ tutti d’accordo. Infatti, qual è la questione importante? Il fatto che, sì, dice con Zenone che non c’è movimento, anche se poi dice che comunque c’è, e non si capisce bene come funzioni la cosa, ma soprattutto dice che le cose si uniscono tra loro – e qui è Democrito, per il quale si uniscono a caso, mentre per Empedocle si uniscono per necessità, una necessità che lui presuppone. Non solo ma, parlando di Amicizia e Contesa, pone sì l’aggregazione, che attribuisce, come si usava allora, ad Afrodite, ma la pone come separata dalla Contesa. C’è un frammento nel quale vuole spiegare come le cose si uniscono. …come quando il caglio fissa e lega bianco latte /…/ come il panettiere impastando la farina con l’acqua, così si aggregano le cose. E mentre quelli concorrono insieme, fuori si pone l’astio all’estremo. Fuori si pone l’astio: questo è molto importante, perché lui tiene ben separate l’Amicizia e la Contesa. E questo è il motivo per cui Aristotele è abbastanza generoso nel giudizio su Empedocle, così come è stato incredibilmente astioso e severo nel giudizio su Parmenide; invece, nei confronti di Empedocle, tutto sommato, lo accoglie. Perché questo? Perché Parmenide gli rendeva impossibile la costruzione della scienza, Empedocle no; Empedocle ha tenuto separato l’Amicizia dalla Contesa, l’uno dai molti, il bene dal male. Empedocle è stato il primo a porre la questione in questi termini così precisi, dove si separa Amicizia e Contesa. È chiaro che lui conosceva Parmenide, Zenone, Eraclito, tutti pensatori che invece hanno posto nell’uno i molti. Tutti ammettono che esiste il bene, che esiste il male, anzi, lo stabiliscono, ma queste due cose devono rimanere separate, ed Empedocle è stato forse il primo che l’ha posto in modo così evidente. Dice che è fuori la Contesa, in modo che sia individuabile, cioè, il male deve essere individuato, deve essere ben visto e determinato; solo così posso evitarlo e stare dalla parte del bene. Qui c’è un riferimento a Zenone abbastanza evidente, a pag. 657. …perché non può esserci nascita da ciò che non è, ed è impossibile / che del tutto si distrugga ciò che è, è incredibile: esso sarà sempre / là dove ciascuno, di volta in volta, trovi fondamento. L’immobile, pensate alla freccia di Zenone: ciascuna cosa è lì dove si trova. Questo è un chiaro riferimento a Zenone. Mai un uomo sapiente avrebbe divinato nella sua mente / che fino a quando vivono quella che dicono vita, / fino ad allora essi sono, e accanto a loro stanno miseria e felicità, / mentre prima di essere foggiati come compagine mortale / e dopo essere stati dissolti, non sono nulla. Gli atomi di Democrito che si uniscono e si dissolvono, ma non a caso, secondo necessità. Quale necessità, non è dato sapere. A pag. 659. Come essi erano anche prima, così saranno, / né mai di entrambi, credo, sarà vuota l’eternità infinita. Cioè, saranno sempre. Lui dice che c’è un qualche cosa… come gli atomi di Democrito, che sono l’unica cosa che c’è, tutto il resto si crea e si dissolve continuamente, ma quelli debbono necessariamente esserci, sono il fondamento di tutto. Qui la questione è complessa, perché lui si basa su un sapere, quindi, su una scienza, e pertanto la ritiene possibile; ma per potere costruire una scienza occorre tenere separato l’uno dai molti, cosa che lui fa, mentre non era possibile con Parmenide e neanche con Zenone. Poi, vedremo ancora di più rispetto a Gorgia. Ma se ci si attiene al pensiero degli eleati, non è possibile la costruzione di una scienza, quindi, di una teoria. Da una parte, certo, è vero, ma, dall’altra, per potere affermare questo costruiamo una teoria. Ma con che cosa si costruisce una teoria? Con la necessità logica. Qualunque teoria ha bisogno di una necessità logica. La necessità logica non è altro che esclusione: esclude di volta in volta, “se A allora B” vuol dire che non è “se A allora C”. La necessità logica non è altro che l’applicazione nel discorso dei cosiddetti principi aristotelici (identità, non contraddizione e terzo escluso), sono questi i pilastri della necessità logica. Come dire che qualunque teoria, per potere farsi, per costruirsi, ha bisogno della necessità logica; di conseguenza, qualunque discorso. Quindi, il discorso che fa Zenone è certamente straordinario; quello che è “mancato” a Zenone, ma che era presente in Eraclito, è il rendersi conto che lo spazio misurabile e quello non misurabile sono due momenti dello stesso, non possono essere separati. È la stessa cosa che, curiosamente, riguarda la stessa matematica quando si scontra con l’infinito: non è che l’infinito sia una cosa che sta da un’altra parte; infatti, nel calcolo infinitesimale l’infinito è dentro il calcolabile, è lì, proprio lì dentro mentre si calcola; poi, con vari trucchetti si aggiusta, ma è dentro lì, non è posto in un altrove. Come diceva Empedocle: fuori c’è l’astio, la discordia, che poi la discordia sarebbe l’infinito, ciò che non è matematizzabile. Anche nella matematica il non matematizzabile è dentro il matematizzabile, ne è la condizione stessa. Duplice cosa dirò: sia l’Uno si accresce dai molti / così da essere una cosa sola, / sia si divide, così che dall’Uno vengano ad essere i molti, / e duplice è la nascita degli esseri mortali, duplice la morte;… Questa dualità è stata presa da Eraclito, solo che non l’ha intesa o non ha voluto intenderla, che l’uno e i molti sono lo stesso. Ma se sono lo stesso, allora non può dire, come diceva prima, che Contesa è fuori, no, Contesa è dentro l’Amicizia, fa esistere l’Amicizia. Se per assurdo togliessi la Contesa, toglierei anche l’Amicizia all’istante, scomparirebbero entrambe. …l’una si genera e distrugge dall’unione di tutte le cose, l’altra, / una volta accresciute, quando nuovamente si disfanno, si invola. / E non finiscono mai, queste cose che perpetuamente trasmutano, / ora di riunirsi tutte in uno per azione di Amore, / ora di essere trascinate ognuna per vie opposte dall’ostilità di Contesa. / < E come l’Uno ha appreso a sorgere dai molti >… È una forma poetica, però è significativo perché ha posto l’Uno che ha appreso a sorgere dai molti, quindi, sono già separati. …e quando si disfà a sua vota appaiono più cose, / così gli elementi divengono, e non è immutabile / la loro vita eterna; / ma proprio poiché non cessano mai di mutare, / dimorano sempre immutabili, nel ciclo. / Ascolta le mie parole, conoscenze che nutrono la mente! / Come anche prima ho detto, annunciando / i confini del mio parlare, / duplice cosa dirò: ora l’Uno si accresce dai molti / così da essere una cosa sola, / ora anche si divide, così che dall’Uno vengano a essere i molti, / Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, / e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, / e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. / Guardala con l’occhio della mente, / non restare con sguardo stupito, / Essa che ritengono innata nelle membra mortali e per Lei / nutrono pensieri amorevoli e portano a compimento / opere di concordia, Gioia / dicendola, e Afrodite! Nessuno che fosse uomo mortale / la scorse aggirarsi tra gli elementi. Ma tu ascolta / il seguito non ingannevole del mio discorso! Gli elementi / hanno tutti forma eguale e coevi per nascita,… Come? Ha appena detto che sono eterni! Come fanno a essere coevi per nascita? …ma ognuno ha proprie prerogative e indole propria / e predominano a vicenda nel giro del tempo. A essi / niente si aggiunge, niente viene a mancare: / perché se perissero del tutto / non sarebbero già più. E che cosa / potrebbe accrescere questo tutto, / e provenendo da dove? E come potrebbero scomparire, / se nulla è vuoto di essi? / Ma sono queste le cose che sono, / a trascorrendo gli uni attraverso gli altri / divengono ora queste ora quelle cose, ma sempre / a se stessi eternamente uguali. Qui Aristotele, con la sua finezza e la sua acutezza logica, si sarebbe dovuto sbizzarrire a stroncarlo, e invece no, questa sua abilità di stroncatore ufficiale dell’antica Grecia lui la riserva a Parmenide. Questo perché Parmenide non ha detto che Amicizia e Contesa sono separati; ha detto che il non-essere non è e che l’essere è pensiero e, quindi, non ha posto le basi, le condizioni per potere stabilire con certezza una distanza, una separazione netta e precisa e indubitabile fra l’Uno e i molti; e senza questa non si costruisce nessuna scienza, mentre l’obiettivo di Aristotele era proprio questo, costruire una scienza, una scienza logica e anche una scienza fisica. A pag. 663. Fr.20. questo è ben visibile nella massa delle membra mortali: / ora per azione di Amore noi, in quanto membra / che formano il corpo, / ci riuniamo tutte in uno, al culmine della vita fiorente; / ora, separate da maligni Contrasti, vagano / ognuna divisa dall’altra / fino alla sponda estrema della vita. E così per gli arbusti / e i pesci che dimorano nelle acque e le fiere / che fanno la tana nei monti, gli uccelli alati. A pag. 665. Nell’Odio tutto è difforme e contrastante, ma nell’Amore / tutto si riunisce e ogni cosa è colta da desiderio dell’altra. / E da essi germinano tutte le cose / che erano e sono e saranno, alberi, / umani, fiere, uccelli e pesci che abitano nell’acqua, / e gli dei dalla lunga vita, massimamente onorati. / Sono questi le cose che sono, e trascorrendo / gli uni attraverso gli altri / divengono cose diverse: tanto grande mutamento / produce la mescolanza. In effetti, questo è il suo modo per mettere tutte insieme le cose di tutti quanti i pensatori, Parmenide, Zenone, Eraclito, Democrito. Come dire che prende da ciascuno un pezzo e cerca di combinarlo con gli altri, e ciò su cui insiste continuamente è la permanenza di Amicizia e Contesa e della loro separazione. Così, fatte simili da Afrodite… Secondo lui, le cose sono attratte dalle cose simili, per cui la terra è attratta dalla terra, il fuoco dal fuoco, ecc. …le cose più adatte alla mescolanza si amano tra loro. / Ma sono nemiche le cose che più si differenziano / per origine e mescolanza e immagini impresse, / del tutto inadatte a unirsi, e assai addolorate / per i decreti di Contesa, che diede loro origine. A pag. 667. Fr. 23. Come quando i pittori dipingono tavolette votive, / ben esperti nell’arte grazie al loro ingegno, / attingendo con le mani tinte multicolori / e mescolandole in armonia, un po’ più / dell’una, dell’altra un po’ meno, e con queste preparano / immagini simili a ogni cosa, creando alberi / e uomini e donne e fiere e uccelli e pesci che abitano / nelle acque e gli dei dalla lunga vita, massimamente onorati; / così non prevalga nella tua mente l’errore che altra sia la fonte / degli esseri mortali, quanti in numero immenso / sono divenuti manifesti. Ma sappia chiaramente queste cose / udendo la parola che viene dal dio. Dio è lui. Pare, infatti, che alcuni lo venerassero come un dio. A pag. 669. Fr. 26. Perché sono questi le cose che sono / e trascorrendo gli uni attraverso gli altri / diventano uomini e stirpi di altre fiere, / ora riunendosi in un unico cosmo per azione di Amore, / ora venendo trascinati ognuno per vie opposte / dall’ostilità di Contesa, / fino a quando, congiungendosi gli elementi, ne emerga l’Uno-Tutto. / E come l’Uno ha appreso a sorgere dai molti / E quando si disfa a loro volta appaiono più cose, / così gli elementi divengono, e non è immutabile / la loro vita eterna; / là proprio perché non cessano mai di mutare, / dimorano sempre immutabile, nel ciclo. Questo è il suo modo di combinare l’eterno di Parmenide con il divenire degli altri pensatori. Secondo Empedocle, la necessità sta nel fatto che questi quattro elementi (fuoco, terra, aria e acqua) devono esistere. Poi avviene un salto, che non si capisce bene perché, da una parte, questi elementi dice che mutano, si accrescono, ma, poi, dice che non è possibile che si accrescano… quindi, mutano e cambiano di forma, ma cambiare forma significa accrescere o diminuire. In questo modo ritiene di avere risolto il problema, che ovviamente non si risolve affatto, però pone la condizione per incominciare a pensare, a essere perfettamente convinti che ci siano nell’universo Amore e Contesa, cioè, che ci sia qualcosa unisca e qualcosa divida. Naturalmente, non si sa da dove vengano Amore e Contesa, ci sono. A pag. 671. Così nel fitto mistero di Armonia / sta saldo lo Sfero rotondo / che gioisce di avvolgente solitudine. Qui è ovvio il riferimento a Parmenide: la verità ben rotonda sfera. A pag. 673. …come quando il caglio fissa e lega bianco latte /…/ farina con acqua agglutinando… A pag. 675. Ma io con rinnovato slancio percorrerò la via dei canti / che ho indicato prima, traendo discorso da discorso / così: quando Contesa è giunta nell’abisso / più profondo del vortice / e Amicizia è nel mezzo del turbine, allora / tutte queste cose si riuniscono in esso, / per essere una cosa sola, / non in un istante, ma accorrendo volentieri per unirsi, quale da una parte, / quale dall’altra. Da questa mescolanza dilagano / innumerevoli stirpi di mortali. Ma in alternanza / con quelle che si mescolavano / rimanevano molte cose non miste, quante, in alto, / ne tratteneva Contesa, poiché non si era completamente ritratta da esse / agi estremi confini dell’orbita, ma in alcune membra rimaneva, da altre / era già uscita. Qui permane, in pratica, tutto il suo pensiero, e cioè che da questa unione e disunione delle cose, che sono separate, nasca il tutto. Lui pone il tutto come l’unione di Amicizia e di Contesa, però, queste due cose costituiscono, sì, il tutto, ma sono separate, non costituiscono una sorta di simultaneità, come è in Eraclito. La questione della simultaneità è importante, è proprio ciò che determina il pensiero teoretico. Qui sarebbe interessante cogliere il tipo di argomentazioni, non solo queste di Empedocle. Rivedevo qualche giorno fa, nella Fisica di Aristotele, le argomentazioni che lui utilizza contro i vari personaggi. Le sue confutazioni, per la maggior parte, non risultano affatto confutazioni, ma risultano solo argomentazioni surrettizie, costruite ad hoc. Un emblema per tutte è la sua “confutazione” – tra virgolette, perché in realtà non confuta niente – a Protagora. Ma questa è la cosa più difficile da cogliere. E, infatti, gli antichi, come Eraclito, Zenone, Parmenide, avevano colte non argomentativamente, ma quasi come un’intuizione, soprattutto Eraclito: tutte le cose sono uno e l’uno è in tutte le cose. Prima vi dicevo che questo rende impossibile la costruzione della scienza, ma non è propriamente esatto. Non è che la renda impossibile, ma la rende un gioco possibile tra i tanti: questo diventa la scienza, tenendo conto della simultaneità tra l’uno e i molti, un gioco tra i tanti. Quindi, impedendo la possibilità di credere che la scienza possa dire come stanno le cose, non lo può fare perché è autocontraddittoria, nel senso che per potere affermarsi deve negarsi, che per potere affermare che una certa cosa è quella che è, deve negare il fatto che non può affermarlo con certezza (la teoria dei limiti, tanto per dirne una), non lo può fare. Torno a dirlo: per affermarsi deve negarsi, deve negare ciò che impedisce la certezza della sua affermazione. Ma l’aspetto più complicato non è questo ma un altro, cioè, accogliere tutto ciò rispetto al proprio discorso, al proprio dire. Qui la cosa si fa complicata, perché qualunque discorso si faccia è fatto di volontà di potenza, quindi, della necessità di dominare l’ente, cioè, di calcolarlo. Quindi, qualunque affermazione – perché sia un’affermazione che consenta, a partire da quella affermazione, di inferire altre affermazioni – deve essere presa come se non fosse la sua negazione, come se Contesa venisse tenuta da parte. Solo a questa condizione è possibile pensare che ciò che si sta affermando determini come stanno le cose. Non si può non fare in questo modo, perché ogni volta che si afferma qualche cosa la si pone come si vuole che sia. Il salto qui è il passaggio fra l’intendere che ciò che si sta affermando è il modo in cui le cose stanno e, invece, l’accorgersi che non si sta affermando come stanno le cose ma come si vuole o si crede che stiano. E questa è una cosa estremamente complicata, anche perché ciascuno parlando non fa altro che determinare enti, quindi, dominarli, determinarli nel senso, di chiuderli in sé, come se fossero proprio quella cosa lì. Potrei parlare senza questo? Sì e no. Sì, potrei certo continuare a parlare, ma ciò che a questo punto traggo dal mio discorso non sarebbe più utilizzabile per costruire inferenze a partire da questo. Un esempio classico è quello degli stoici, il sillogismo anapodittico: “se A allora B, ma A, dunque, B”. Così funziona il discorso, generalmente. Però, questo passaggio – ma A, dunque, B – è ciò che determina tutto quanto, cioè, si muove dalla supposizione che A sia quella cosa che io voglio che sia. Allora, se è così, se A è ciò che voglio che sia, allora – dovrei aggiungere “probabilmente” – B. E, invece, no, è B di sicuro. Perché? Non si sa. Ma è il discorso stesso nel suo fluire che in un certo qual modo costringe a fare una cosa del genere, proprio perché fluisce, sennò cesserebbe di fluire. Se io mi accorgessi che da una mia inferenza “se A allora B” non posso inferire nient’altro, perché questa inferenza, “se A allora B”, significa soltanto che se io voglio che se A allora B, come faccio a inferire altre cose da lì? È una cosa che voglio io, sì, certo, ma che non ha nessun valore veritativo, di nessun tipo. Quindi, Eraclito, potremmo dire così, è colui che impedisce al discorso di fluire, proprio lui che diceva πάντα ε, tutte le cose scorrono, fluiscono. Sì, certo, ma come fluiscono? Se teniamo conto di altre cose dette da Eraclito, per esempio che “la natura ama nascondersi”… così viene tradotto un suo frammento, che non si sa nemmeno se sia suo, non si sa niente – il famoso φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, che potremmo intendere in questo modo più interessante come “ciò che sorge, sorgendo, non cessa di dileguare”. E, allora, quando io compio una inferenza, “se A allora B”, questa cosa che sorge nel mio dire dilegua. Cosa vuol dire che dilegua? Vuol dire che non sta in piedi, in nessun modo. Posso farla stare in piedi con la volontà di potenza: perché è così? Perché sì. Ecco, questa è la ragione fondamentale: perché sì, perché io lo voglio, perché questa è la mia volontà di potenza, e se io lo voglio allora è così. Ma supponiamo per un istante che io mi accorga di tutto questo, cosa accade a quel punto? Questo è il modo di pensare teoretico: l’accorgersi di tutto questo. Il pensare teoretico è quello che, in effetti, sì, certo, fluisce anche lui, non può non fluire, ma nel suo fluire incontra continuamente questo κρύπτεσθαι, questo nascondimento, questo dileguare. E, allora, sì, afferma, ma la sua affermazione non significa niente, e sa perfettamente che ciò che afferma è qualche cosa che serve per proseguire a parlare, non c’è altro, non c’è mai altro, ed è questa la questione tragica. A proposito di tragicità, ne parlammo rispetto a Zenone: la tragicità del pensiero che incontra la sua impossibilità a dominare l’ente. Nel paradosso di Achille e la tartaruga, la tragedia è questa: il mio pensiero non può matematizzare ciò che vedo, non può calcolarlo, non può dominarlo, quindi, non posso dominare le mie conclusioni. E, allora, quando concludo, cosa faccio? Faccio sicuramente qualche cosa, cioè, faccio agire il linguaggio. Se non credo più a quello che credeva Empedocle, cioè che Amicizia e Contesa siano separate, ma tengo conto con Eraclito, e Hegel dopo, che sono uno la condizione dell’altro, che non li posso separare, se tengo conto di tutto questo, allora le cose cominciano ad apparire differenti. Se volete dirla proprio con una battuta: cesso di credere a quello che dico, non ci credo più. Ciò che sto costruendo, so che sto utilizzando una necessità logica per giungere a qualunque affermazione, utilizzo una necessità logica, cioè un sistema di esclusioni; ma in base a che cosa escludo? Nella logica formale in base a delle regole prestabilite, certo; nel discorso a ciò che non mi pare che sia: non mi sembra che sia così, quindi, andiamo di là. È così che funziona il pensiero degli umani. Si tratta di passare dal cedere a ciò che Platone chiamava δοξάξειν, il credere di sapere. Però, qui non è neanche più un credere di sapere, ma è un rendersi conto che questo sapere dilegua nel momento stesso in cui lo pongo. È questo il senso da cogliere in modo più interessante nel frammento di Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ: nel sorgere dilegua, quindi, affermando qualche cosa non lo tengo fermo, cioè, non riesco a separarlo dalla sua negazione. Non riesco a compiere quella cosa che, invece, voleva assolutamente Empedocle, il quale era ammirato naturalmente da Aristotele, perché ha servito tutto su un piatto d’argento per Aristotele: tenendo separati Amicizia e Contesa gli ha fornito l’occasione per distinguere il vero dal falso. Tutta la logica formale, è fondata su questa separazione tra Amicizia e Contesa, φιλία e νεῖκος. Utile, niente di più. Per esempio, senza questo i computer non funzionerebbero; la logica booleana è costruita su questo, sull’esclusione: se c’è l’1 passo, se c’è lo 0 mi fermo. Ma non posso pensare che l’1 e lo 0 siano la stessa cosa, sennò non so dove andare, il computer si blocca e non sa più cosa fare. Invece, il discorso non si arresta, anzi. Però, anche il discorso funziona alla stessa maniera. In effetti, il computer è stato costruito da noi. Quindi, anche il discorso ha bisogno dell’1 e dello 0, del vero e del falso, separati; ne ha bisogno per andare avanti, però, può sapere che non lo sono; e, allora, teoricamente dovrebbe bloccarsi, come si bloccherebbe un computer, ma naturalmente non si blocca, e non si blocca perché, tenendo separate le due cose, il discorso continua a costruirsi a partire da inferenze che ritiene magicamente vere. Perché è questo che accade parlando, cioè, si continua ad affermare qualcosa e ritenere questo qualcosa che si è affermato magicamente vero, anche quando è supportato da un calcolo proposizionale, il quale sappiamo bene su che cosa è fondato. Tutto questo ci introduce a ciò di cui ci occuperemo a partire da mercoledì prossimo, e cioè dei sofisti. In particolare, Protagora e Gorgia, che sono tra tutti i sofisti i più importanti. Sono quelli che hanno ripreso in parte l’eleatismo, soprattutto di Parmenide e di Zenone, e in parte l’hanno trasformato in un’arma, un’arma retorica straordinariamente potente, certo, ma non solo questo. Questo è l’utilizzo pratico, ma c’è un aspetto teoretico molto più interessante e importante.