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21 agosto 2024

 

Plotino Enneadi

 

Una questione importante: Plotino mostra come si costruisce un discorso e perché. Lui ce lo mostra proprio in atto: si muove da una premessa inesistente, che non c’è, però si dice che c’è, si fa credere che ci sia, anzi, non c’è neanche bisogno di dirlo. Dopodiché, a partire da questa premessa inesistente si elaborano, si articolano una serie di deduzioni logiche, molto precise, anche molto complesse, un marchingegno logico che procede da nulla; però, essendo un marchingegno ben congegnato e strutturato, fa pensare che alle spalle ci sia qualcosa di importante, che deve esserci per forza qualche cosa di importante, viste tutte le conseguenze che se ne traggono. Quindi, Plotino ci dice come si costruisce un discorso perché questo discorso sia importante, sia vero e sia credibile. D’altra parte, lui ci ha fatto un esempio di un discorso creato da lui in questo modo e che a tutt’oggi, dopo quasi venti secoli, continua a funzionare benissimo. Questo potrebbe indurci ad azzardare l’ipotesi che funzioni. Dopo venti secoli, più o meno, diciamo che è ben collaudato, ben oliato, funziona tutto alla perfezione. Dunque, è così che si costruisce qualunque discorso: si pone una premessa inesistente, dopodiché si deducono una serie di cose, molto precise, molto attente, molto rigorose, che procedono però da nulla. Che cosa fa il discorso? Qui entriamo nella seconda parte, e cioè perché si costruisce un discorso. Che ce ne facciamo? Cosa fa il discorso? Il discorso esibisce uno stato di cose, dice come stanno le cose, come fa qualunque discorso, vale a dire, qualunque discorso è una esibizione di come stanno le cose. Dunque, si costruisce un discorso per esibire un sapere su come stanno le cose: io so come stanno le cose, quindi io le domino, quindi io sono dominante. Se sono dominante, allora ho il rispetto, l’attenzione, la considerazione da parte di tutti, che mi penseranno come persona importante, e ciascuno, in cuor suo, vuole che tutti quanti pensino di lui che è importante, che è persona degna di fede. Quindi, qualunque discorso è costruito per questo, ciascun discorso è questo. Non solo è costruito per questo, ma è questo, è l’esibizione di uno stato di cose: le cose stanno così. Se stanno così significa che io le domino, cioè ho ricondotto i molti, che sono il male, sono il problema, ho ricondotti i molti all’uno, alla conoscenza. Se io conosco è perché ho ridotto e ricondotto i molti all’uno, operando quella eliminazione di ciò che Aristotele chiamava entelechia, e cioè la simultaneità dell’uno e dei molti. Ricondurre all’uno significa togliere i molti a vantaggio dell’uno, che è esattamente l’operazione che fa Plotino, che continua incessantemente a fare e a ricordarci che, sì, c’è il molteplice, ma questo molteplice procede dall’uno e torna all’uno, perché è l’uno che precede ogni cosa. Nell’entelechia no, l’uno e il due non si precedono l’un l’altro, ma si coappartengono. Ecco la differenza fondamentale tra Aristotele e Plotino. Essendo per Aristotele una coappartenenza e avendo già avvertito che non esiste nessuna verità epistemica, non ci resta che la δόξα, mentre per Plotino la δόξα è praticamente inesistente, la δόξα non significa nulla per lui, perché la δόξα non tiene nel giusto conto l’uno. Ridurre tutto quanto all’uno è ciò che per Aristotele costituisce l’ήδονή, il piacere, la soddisfazione. Perché dice nel De anima che l’entelechia è l’origine di ogni cosa, perché nell’entelechia c’è questa divisione, διαίρεσις, che è irriducibile, ed essendo irriducibile continua a dare da pensare, comporta quantomeno un’inquietudine intellettuale. Mentre l’eliminazione, lo dice chiaramente Plotino, dell’entelechia comporta invece la soddisfazione totale, l’idea, l’illusione di una soddisfazione totale, che segue all’avere unificato tutti i molti. Potremmo dire rispetto al linguaggio, così come lo abbiamo posto: ricondurre al dire tutto ciò che il dire dice, come se tutto ciò che il dire dice fosse riconducibile semplicemente e soltanto al mio dire, che diventa a questo punto il tutto, l’intero. Questo è il motivo per cui si costruiscono discorsi, quindi, la teoria, tutte le teorie. Ogni teoria è un discorso che mira allo stabilire come stanno le cose: le cose stanno così. Ovviamente, per potere stabilire questo è necessario credere che ci sia un principio di ragione universale, come diceva Guglielmo di Ockham: dobbiamo ricorrere a Dio, sennò chi ci garantisce che quella cosa sia proprio quella cosa? Lassù si dice che è così, quindi, è così. Dunque, dicevo, si costruisce un discorso per esibirsi, perché ciascuno non è che quel discorso che sta facendo; quindi, se il discorso esibisce un sapere, è lui stesso, in quanto discorso, che si esibisce in quanto sapere, si mostra, si palesa. In tutto ciò si pone ovviamente una questione di enormi proporzioni riguardo a tutto ciò che è stato negli ultimi venti secoli, a tutto ciò ha prodotto; noi, in definitiva, siamo il prodotto di questi venti secoli di cristianesimo, cioè, di neoplatonismo. La credenza assoluta e incrollabile che qualcosa ci sia, questo lo ha insegnato Plotino, e c’è perché lo sento, e se lo sento è vero, perché nessuno può negarmi di sentire qualche cosa; se lo sento lo sento, quindi, è assolutamente vero e mi solleva dalla necessità di doverlo dimostrare a qualcuno, perché è immediatamente vero. Come diceva Wittgenstein, il mal di denti io lo sento, ma non posso spiegarlo a qualcuno, non posso dimostrare che lo sento. Questo è importante: non posso spiegare ciò che sento. Qui c’è un’altra questione che si sta aprendo a perdita d’occhio. Wittgenstein, appunto, dice: il mio mal di denti io lo sento, Cesare no. Ma da dove arriva questa idea che io senta questa cosa? Perché non è tanto il mal di denti in quanto tale, ma è il fatto che il sentire è qualcosa di assolutamente proprio, di privato, che non può essere messo in discussione; e questo sentire, che è assolutamente vero, è ciò su cui si fonda il sapere: si fonda sul sentire. Qui ci sarebbe da vedere se ogni discorso è fondato sul sentire: per Aristotele sì, era il πάθος, è dal πάθος che incomincia tutto, da ciò che io sento, dalle mie emozioni, dalle mie sensazioni, è da lì che parte ogni cosa, perché questo sentire è strettissimamente legato all’ήδονή, al piacere, piacere che è connesso naturalmente con l’entelechia, o meglio, con la eliminazione dell’entelechia, con l’idea di potere ridurre all’unità i molti, cioè i cattivi, che farebbe ricondurre i cattivi alla ragione. Bisogna sempre condurre qualcuno alla ragione: va un po’ di qua, un po’ di là, per cui dobbiamo mostrargli la diritta via, che talvolta è smarrita. Ecco, dunque, la questione del sentire, del sentire che non prevede obiezioni: io sento questa cosa: se la sento è vera. Questo sentire è una invenzione di Plotino, perché Aristotele non parla di sentire, parla di πάθος, ma lui lo connette con l’emozione e, quindi, con l’ήδονή. Questa connessione in Aristotele è molto stretta, tra la soddisfazione e l’ήδονή, il piacere, sono praticamente la stessa cosa. È con Plotino che, invece, siccome la premessa da cui lui muove è totalmente, assolutamente e irrimediabilmente inesistente, allora necessita di essere sentita. E con l’aggiunta importante che, se qualcuno non sente questa cosa, è colpa sua, è colpa sua perché non si è aperto all’Uno. Per Aristotele, invece, la soddisfazione segue al fatto di avere unificato i molti. Questa è la soddisfazione: il compimento, quando dalla δύναμις si passa all’ἐνέργεια. Ecco, l’atto compiuto sarebbe la soddisfazione della δύναμις. Poi, lui aggiunge l’entelechia. Cosa che Plotino dice esplicitamente non esserci assolutamente, che non si deve neanche parlare di entelechia; perché l’entelechia è la simultaneità, sì, certo di δύναμις ed ἐνέργεια, ma di ήδονή e di λύπη: non c’è soddisfazione senza insoddisfazione, non c’è l’uno senza i molti. È la stessa cosa, perché se io pongo l’uno necessariamente, ponendolo, lo pongo in quanto è quello che è e non è ciò che non è. Quindi, devo dire che è l’uno in quanto non è i molti; quindi è e non è. È il problema di Parmenide dell’uno e dei molti. Quindi, l’illusione che pone in atto Plotino è quella di fare credere che sia possibile l’ήδονή senza la λύπη; che è la stessa cosa che dire l’uno senza i molti. La λύπη sono i molti, sono il male per Platone, ricordate: l’uno è il bene, i molti sono il male. Quindi, tutta questa operazione volge a fare credere che il bene assoluto, cioè l’Uno, cioè Dio, sia ciò che, intanto domina tutto, ovviamente, ma, poi, che ci sia anche la ragione, il principio di ragione necessario, perché è ciò che rende conto di ogni altra cosa; ché altrimenti non è possibile stabilirne l’άρχή, l’origine, e l’αἳτια la causa. Invece, ci vuole un qualche cosa, ma questo qualche cosa non deve assolutamente essere esposto, perché esporlo significa esporlo all’argomentazione, ed esporlo all’argomentazione significa esporlo alla contro argomentazione e, quindi, al suo annullamento. Per questo motivo ogni discorso deve fondarsi sul nulla, sull’indimostrabile; è l’unico fondamento accettabile, l’unico fondamento che consente di costruire un discorso affidabile, credibile, diffondibile, e che può fare proseliti. Questa è una cosa importante, perché il fatto che ci siano proseliti significa che io dico il vero. Dunque, è così che si costruisce il discorso, che è quello che Plotino non ci sta dicendo esplicitamente, ma mostrando in atto: premessa inesistente, c’è ma nessuno sa cosa sia, non si vede, è ineffabile, indicibile, intoccabile, ingestibile, inarrivabile, tutto quello che ci possiamo aggiungere. Quindi, ecco come si costruisce un discorso e perché si costruisce: perché il discorso, più che consentire di esibirsi, è lui stesso l’esibizione. Teniamo conto che ciascuno non è altro che il suo discorso, il discorso che fa è la sua esibizione. Il discorso è l’esibizione, il mostrarsi, il mostrare e quindi il mostrarsi, che è la stessa cosa. Esibire un sapere, questo è ciò che fa il discorso; l’esibire, il mostrare i problemi connessi con il discorso, questo è ciò che fa il pensiero teoretico. Un pensiero teoretico esibisce, certo, non può non farlo, se fa un discorso esibisce, ma cosa esibisce? Esibisce problemi, cose da pensare, cose che interrogano. In fondo, è ciò che faceva in buona parte Aristotele; anche l’insegnamento di Heidegger invita a fare questo, a mettere a tema e problematizzare, cioè, interrogare, trovare nuove cose da pensare, nuove vie da percorrere e percorrerle, per trovare altri problemi. Problema, letteralmente, è ciò che è gettato innanzi, προβλήματα, ciò che si getta innanzi ogni volta che si apre bocca, ogni volta, cioè, che il mio dire incontra, ma lo ha già incontrato se si dice, ciò che il mio dire dice. C’è questa apertura immediata, questa distanza immediata, che costituisce il problema, che è il problema del linguaggio. Come abbiamo detto tante volte, il problema del linguaggio è questo, che il mio dire non può esimersi da ciò che il mio dire dice, che è altro dal dire. Tutto il pensiero. almeno dal neoplatonismo in poi, prima con i presocratici sì e no, alcuni sì, altri meno, ha avuto questo obiettivo: fare in modo che il mio dire esaurisca ciò che il mio dire dice, cioè, che non ci sia altro, che non rimanga altro, che i molti scompaiano. A questo punto, possiamo dire di avere quantomeno una traccia per incominciare a pensare alla questione importante del discorso: perché si fa un discorso, perché lo si costruisce e come lo si costruisce, sono due aspetti della stessa questione. Il discorso come esibizione di un sapere su come stanno le cose, oppure l’esibizione di problemi relativi al sapere. Il discorso tendenzialmente preferisce evitare i problemi perché, se vuole porsi come ipostasi, deve evitare i problemi, cioè i molti. Mentre il discorso che solleva, che muove, che incontra, che sottolinea, che pone in essere i problemi, continua a dire che, sì, c’è l’uno, certo che c’è, ma insieme con i molti. Cosa che non va senza implicazioni, ovviamente. La prima è che non può esserci ipostasi, cioè non c’è un principio di ragione universale: le cose non accadono per una ragione sconosciuta, remota. E qui sarà contento Democrito. Non c’è una ragione universale; qualunque ragione troviamo, questa ragione è tale in quanto non è quella. Quindi, come troviamo la ragione universale? Eppure, è ciò su cui si fonda tutto il discorso di Plotino e tutto il discorso occidentale. Un principio di ragione imposto come ipostasi, che nessuno sa quale sia, dove sia, perché ci sia, che non deve neanche essere mostrato. E dice bene la retorica: quando si argomenta con qualcuno è preferibile evitare il più possibile di giustificare ciò che si afferma, perché ogni giustificazione è un’argomentazione, e più argomentazioni si forniscono all’avversario più gli si forniscono armi per contro argomentare. Questa è una delle basi della retorica. Quindi, in teoria, parlare per ipostasi sarebbe l’optimum: è così, devi crederci, anzi, devi sentirlo dentro, e se non lo senti è colpa tua. Ora, Plotino continua a dire sempre, grossomodo, la stessa cosa. A pag. 867. Questi (l’Uno) troneggia e siede al di sopra dell’Intelligenza come sopra un bel piedistallo che a Lui è sospeso. Ma diceva prima, all’inizio della pagina 867. Ma poiché è necessario ammettere una conoscenza e una verità e mantenere saldi gli enti… Perché è necessario? Per la conoscenza? La conoscenza non ha bisogno di tenere saldi gli enti, li pone mentre li dice; ma, come diceva bene Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, mentre si pone dilegua: io lo pongo ma, ponendolo, dilegua nel suo contrario. Dice poiché è necessario ammettere. Chi l’ha detto? È un esempio questo, il dire che è necessario ammettere una conoscenza, una verità; allude a un’ipostasi che non significa niente, che non c’è, ma secondo la quale questo principio di ragione universale è necessario che ci sia una conoscenza o una verità. Della conoscenza… dipende poi che cosa si intende con conoscenza. …cioè la possibilità di conoscere cos’è ciascun ente, e non quali siano le sue qualità, e poiché noi possediamo di esso soltanto un’immagine e una traccia e non possediamo le cose stesse né ci uniamo né ci fondiamo con esse, si deve attribuire ogni cosa alla vera Intelligenza. Il problema qui sono le categorie aristoteliche. Noi dobbiamo conoscere cos’è ciascun ente, non solo ciò che ne diciamo, mentre per Aristotele l’ente, cioè, l’ούσία, la sostanza è esattamente ciò che ne diciamo; se togliamo ciò che ne diciamo scompare anche l’ούσία, cioè, scompare l’ipostasi. Soltanto così l’Intelligenza… Che è la seconda ipostasi, c’è l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima. …potrebbe sapere e saprebbe veramente non dimenticherebbe mai e mai andrebbe qua e là a cercare. Ma la verità è in Lei e Lei è il fondamento degli esseri ed è vita e pensiero. A questo Essere di perfetta beatitudine tutto deve appartenere, altrimenti, dove sarebbero il suo onore e il suo valore? Che cosa c’entrano l’onore e il valore? Eppure, li chiama in causa. E inoltre, l’Intelligenza non ha bisogno di dimostrazioni né di prova, poiché è così ed è evidente a se stessa; e se c’è qualche cosa prima di Lei, deriva da esso; e se dopo di Quello c’è qualcosa, l’Intelligenza è questo “qualcosa”; e nessuno più di Lei testimonia su di Lui quanto il fatto che lassù c’è tutto questo e c’è realmente. Perciò la realissima verità non s’accorda con altri che con se stessa… La verità è. Per Aristotele non c’è quella epistemica, la verità assoluta di cui sta parlando Plotino. …e null’altro rivela ed è che se stessa, ed è insieme ciò che rivela. Chi potrebbe confutarla? E donde ricaverebbe la confutazione? Chiunque confuti un precedente argomento, anche se lo presenti come diverso, arriva allo stesso punto: ritorna cioè ad affermare le cose già dette e a far tutt’uno con esse, perché non potresti trovare altra cosa più vera della verità. Ascoltate bene, perché è importante come costruisce il suo discorso. Cioè, come confuto il fatto che esista l’Uno? Con che cosa lo confuto? Devo confutarlo con una verità, ma questa verità da chi è garantita? Dall’Uno, e quindi non posso confutare niente. Questo è il discorso di Plotino, vedete com’è strutturato in modo tale da che non c’è possibilità di confutare, la stessa cosa potrebbe applicarsi a ciò che uno sente dentro: il mio sentire, il mio percepire le cose è il fondamento di ogni verità; noi costruiamo la verità in base a ciò che percepiamo. A pag. 869. Che cosa sia l’Uno nella sua purezza e realtà e non il rapporto con altra cosa… Ricordate bene, l’Uno è irrelato. Se è irrelato, ovviamente, non ha relazione nemmeno con se stesso; se non ha relazione nemmeno con se stesso, non esiste. …noi desideriamo ora contemplarlo, qualora sia possibile. Perché l’uno si può solo contemplare, non si può comprendere, non si può capire, non si può vedere, si può solo contemplare. Che verrebbe da domandarsi: contemplo che cosa? Ma qui, intanto, è necessario uno slancio verso l’Uno e non raggiungervi più nulla, ma arrestarsi del tutto per non allontanarsi da Lui nemmeno un poco e non cadere nella dualità. Qui l’entelechia è stata eliminata totalmente. Che poi l’entelechia non è neanche la dualità ma è la coappartenenza dei due elementi, perché la dualità prevede che questi due elementi siano individuati. È il discorso che facevamo rispetto al tre: se c’è il tre ci sono l’uno e il due; se c’è coappartenenza l’uno non c’è perché è già il due e il due non c’è perché è già l’uno: ecco la differenza sostanziale. Altrimenti (se cadi nella dualità) tu hai due e non hai l’uno in essi, perché il due viene dopo l’uno. Ovviamente, c’è l’uno e poi a seguire tutto quanto. L’Uno, infatti, non vuole essere contato con un altro, sia esso uno o un qualsiasi altro numero, anzi, non vuole essere contato affatto, poiché Egli è misura e non misurato; e non è uguale agli altri così da unirsi a loro, altrimenti ci sarebbe qualcosa di comune sopra di Lui e dei numeri contati insieme, e questo qualcosa sarebbe prima di Lui, mentre nulla dev’esserci prima di Lui. Nulla deve esserci, perché se c’è, è finita. Nemmeno il “numero essenziale” può essere predicato di Lui, tantomeno il numero che viene dopo di quello, cioè il “numero del quanto”. È “essenziale” il numero he fornisce l’essere ali altri numeri; è “numero del quanto” quello che, unito agli altri e anche senza essere unito agli altri, fornisce il “quanto”. Il “quanto” indica un’entità numerica: per esempio, quanti anni hai? D’altronde, anche l’essenza nei “numeri del quanto” è in rapporto col vero uno, che è il loro principio, in quanto imita l’essenza dei numeri primordiali nel loro rapporto con l’Uno supremo, poiché essa non distrugge né frantuma l’uno;, e infatti quando nasce il due… E il due come nasce? Lo ha detto: è l’Uno che trabocca e fa rampollare altre entità. …l’unità che è prima del due continua ad esistere; e sia le due unità che sono nel due, sia una sola, non sono quella prima unità. Infatti, la prima unità è l’uno, e il due sono i molti, sono i cattivi, sono ciò che è da eliminare nella unificazione. A pag. 871. Quaggiù la partecipazione all’unità fa nascere il quanto (il numero); lassù invece la traccia dell’Uno porta ad esistenza l’Essere… L’Uno fa essere l’Essere. E qui è l’idea di una garanzia assoluta, quella garanzia che è necessaria. Perché qualcosa sia occorre che qualcosa la faccia essere. Che cosa la fa essere? Dio, naturalmente, o l’Uno in questo caso. …sicché l’Essere è la traccia dell’Uno. E se del termine einai (essere in greco) – con cui si designa l’essenza – si dicesse che esso deriva da hen, forse diremmo il vero. Infatti ciò che vien detto on (l’ente) è questo primo essere che, procedendo di lì, per così dire, per un po’, non volle più andare avanti, ma, voltosi indietro prese dimora in se stesso e diventò essenza e focolare di tutte le cose. Non volle. Se parlando, uno sta attento al suono, accade che il termine to hen gli mostra che anche il termine to on deriva da to hen, richiamandosi, come può, al suono stesso della parola. Bisognerebbe sentire il greco antico come pronunciavano questi termini, ma non abbiamo questa opportunità. Ma è un altro modo per Plotino per ribadire ancora di più che tutto viene dall’Uno. Qui ha cercato di fare una sorta di etimologia: to on viene da to hen, che è l’Uno, ma poi anche einai, l’essere, l’essenza, che viene anche lui da hen. A pag. 873. Ma come colui che voglia contemplare l’essenza intelligibile non deve avere in sé alcuna percezione del sensibile... Per contemplarlo non devi percepire. …e solo così potrà contemplare ciò che al di là del sensibile… Perché la contemplazione punta all’Uno, che è al di là del sensibile, ovviamente. …così colui che voglia contemplare ciò che è al di là dell’Intelligibile, potrà vedere solo dopo aver eliminato tutto ciò che è intellegibile. E quindi cosa vede? Non si sa. Che Egli esista può impararlo per mezzo dell’Intelligenza; ma come Egli sia lo imparerà eliminando ogni Intellegibile. Cioè, eliminando ogni pensiero. Il “come” non può significare il “non come”, poiché il “come” non c’è in colui che non ha nemmeno il “che”. Non possiamo dire come è perché non è neanche qualcosa, ovviamente. Ma noi siamo travagliosamente incerti sulle parole che dobbiamo adoperare e parliamo dell’Ineffabile ed escogitiamo dei nomi con il desiderio di denominarlo, come ci è possibile, a noi stessi. Facciamo quello che possiamo. Forse, anche il nome “Uno” non è altro che la negazione del molteplice. Perciò, anche i pitagorici, fra loro, lo chiamarono simbolicamente Apollo per significare la negazione della molteplicità, “a-pollon”... In greco a-pollon, alfa privativa e pollon, i molti, quindi, non-molti. Apollo, dunque, significa i non-molti. …infatti, se l’Uno, sia come nome che come cosa significata, avesse un senso positivo, esso sarebbe meno chiaro che se non gli si desse alcun nome. Forse il nome “Uno” gli fu dato affinché l’indagatore, cominciando da ciò che significa la massima semplicità, finisse poi col negargli anche questo, pensando che esso, benché scelto felicemente dal suo inventore, non era degno di rivelare quella natura, poiché Colui non può essere compreso né con l’udito né da chi ascolta, ma, se mai, da una visione. Ma nemmeno la visione, se volesse contemplare una forma, potrebbe conoscerlo. Non ci resta che il sentire, è l’unica cosa. A pag. 889. Altro è pensare un oggetto diverso da sé, altro è pensare a se stesso; e questo sfugge maggiormente alla dualità. Anche il primo lo vorrebbe, ma ci riesce meno, perché possiede sì in se stesso ciò che vede, ma come una cosa diversa da lui. Il pensiero di se stesso, invece, non è separato nel suo essere dal pensato, ma unito a se stesso vede se stesso, diventa così ambedue e pur rimane uno. Qui deve giustificare il fatto che le due ipostasi che seguono l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima, non siano l’uno ma, al tempo stesso, lo siano; perché, dice, il pensiero pensa a se stesso, quindi, l’Intelligenza è altro, perché pensa se stessa, quindi, pone se stessa come un oggetto; ma non è altro rispetto all’Uno che l’ha generata. Quindi, l’Uno rimane sempre presente ovunque, come ingenerato, naturalmente. Esso pensa, dunque, perché possiede il pensato, e pensa nel primo grado, perché il pensante deve essere uno e due. Parla dell’Uno: esso pensa, dunque. Ma ha detto che non pensava un’altra cosa? Esso pensa, dunque, perché possiede il pensato. E, infatti, non può non possedere il pensato se è tutto, se deve possedere tutto possiede anche il pensato. …e pensa nel primo grado, perché il pensante deve essere uno e due. Difatti, se da un lato non fosse uno, il pensante e il pensato sarebbero diversi fra loro… E, infatti, lo sono. …e allora non potrebbe essere più il pensante di primo grado, poiché trarrebbe da un altro il proprio pensiero e perciò non sarebbe pensante di primo grado, poiché ciò che egli pensa non l’avrebbe come veramente suo, e perciò nemmeno penserebbe se stesso. Questa è una questione estremamente importante. Qui ci sarebbe un’obiezione, che si oppone a ciò che dice Aristotele negli Analitici Secondi. Perché, dice, se fosse uno, allora il pensante e il pensato non si distinguerebbero; quindi il pensante che cosa pensa? Pensa a un pensato, quindi pensa a un’altra cosa, quindi devono esserci i molti, ci devono essere necessariamente. Però, per mantenere l’idea di Uno, che cosa fa Plotino? Questo pensato da dove lo traggo? Non da altro ma da se stesso, è lui stesso che si pensa, quindi rimane lui. Sì, si pone come due – infatti, l’intelletto è molteplice, questo lo dice Plotino – ma rimanendo uno perché, pensando a se stesso, pensa l’uno. Dunque, …poiché trarrebbe da un altro il proprio pensiero e perciò non sarebbe pensante di primo grado, poiché ciò che egli pensa non l’avrebbe come veramente suo, e perciò nemmeno penserebbe se stesso. Uno può pensare se stesso, certo, ma questo pensare se stesso, per Plotino diventa l’intelletto stesso, è lui che pensa se stesso. Non si divide, in un certo senso, cioè, si divide ma non si divide, è due ma rimane uno. D’altro lato, se il pensiero fosse uno solo e non fosse nello stesso tempo due, non avrebbe nulla da pensare, a tal punto non essere affatto un pensante. È perciò necessario che egli sia semplice e non-semplice. Cosa che potrebbe creare qualche problema, al di là del fatto che questa cosa riguarda l’intelletto e non l’Uno: nell’Uno non c’è molteplicità, non c’è niente. Che, poi, se deve contenere tutto, contiene anche la molteplicità. Che cosa ha fatto Kurt Gödel? Ha fatto la stessa cosa, cioè, ha detto che c’è l’uno, il sistema della matematica. All’interno di questo uno, perché sia completo, ci deve essere il molteplice, ci devono essere i molti, cioè, in questo caso, una proposizione che afferma che c’è qualche cosa che non è contenuto. Questa proposizione è vera all’interno del sistema? Sì, possiamo descriverla come vera usando il suo sistema dei numeri. Quindi, all’interno dell’uno c’è sì questa cosa che è uno, ma all’interno c’è anche il molteplice che non si può eliminare a meno che il sistema diventi incompleto, perché se tolgo quella proposizione che dice che non appartiene al sistema, il sistema è incompleto, manca una proposizione. Cioè, la mettiamo dentro e allora c’è la proposizione dimostrata che afferma che è fuori del sistema. Ma tutto questo ha un’eco neoplatonico perché anche in Plotino c’è questo problema, che lui aveva già colto: l’uno deve essere tutto, come il sistema della matematica che deve contenere tutte le proposizioni dimostrabili, ma all’interno di questo uno c’è una proposizione che crea problemi e, quindi, dobbiamo eliminarla. Gödel non la elimina, dice semplicemente che il sistema è completo o indecidibile. Ma Plotino non poteva cavarsela così, per lui il sistema è completo ed è decidibile, perché l’Uno è al di sopra anche di questo problema. Essendo al di sopra di questo problema contiene in sé anche questo problema, ma lo contiene in quanto Uno. Non ha un altro modo per risolvere il problema se non porre l’Uno sempre e comunque al di sopra di tutto. A pag. 889. Così noi, con questo paragone, abbiamo fatto di due uno; ma, inversamente, da uno deriva due: poiché chi pensa, pensando si fa due, o, più esattamente, è due in quanto pensa, è uno in quanto pensa se stesso. Quindi è uno e due. Se c’è, il pensante di primo grado e il pensante di grado diverso, ciò che è al di là del pensante di primo grado non pensa affatto:… Ecco, l’Uno non pensa. Ma prima aveva detto che pensa. …difatti, se vuole pensare, deve diventare Intelligenza; ma se è Intelligenza, deve possedere in se stesso un suo oggetto di pensiero… Cioè, deve moltiplicarsi, diventare molteplice. …e essendo così pensante di primo grado, deve possedere in se stesso il proprio oggetto pensato. Ma se l’Uno è concepito come oggetto di pensiero, non è necessario che Egli abbia in sé il pensante e che pensi, poiché allora non sarebbe soltanto pensato ma anche pensante, e perciò, diventando dualità, non sarebbe più il Primo. E poi, l’Intelligenza che possiede il pensato, non sussisterebbe se non esistesse già l’essenza del puro pensato, la quale, rispetto all’Intelligenza, sarà sì un pensato, ma non sarà, in senso rigoroso, né pensante, né pensato. Il pensato, infatti, è un pensato solo per un altro, e l’Intelligenza, col suo pensare cadrebbe nel vuoto se non afferrasse e comprendesse ciò che pensa… Se pensa qualcosa, qualunque cosa sia, è perché lo pensa lei, quindi è suo. Ma allora l’Uno sarebbe perfetto soltanto se possedessi il suo pensato? Certamente no. Prima che ci fosse il pensare, Egli doveva essere perfetto per sua stessa essenza. Colui, cui è propria la perfezione, deve essere perfetto prima del pensare... Come sappia di essere perfetto non è dato sapere. …poiché a Lui non è per nulla necessario pensare, in quanto Egli è sufficiente a se stesso prima di questo pensare.