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21-8-2013

 

La proposizione “gli umani non sono parlanti” è l’unica affermazione che, se provata essere vera, confuterebbe tutto ciò che abbiamo fatto in questi ultimi vent’anni. La questione è questa: chi pronuncia questa affermazione? Se è un parlante allora questa affermazione è auto contraddittoria, se io umano affermo che gli umani non parlano, sto dicendo che io parlante non parlo, ma per affermare questo sto parlando, cioè dico di non fare ciò che sto facendo, e quindi compio una affermazione auto contraddittoria. Consideriamo invece l’eventualità che sia qualche cos’altro a pronunciare questa affermazione quindi non un umano, allora di fronte a questa proposizione che dice che gli umani non parlano occorre che questa proposizione risulti vera, ma per risultare vera occorre che questo vero sia stato stabilito e fornito in qualche modo, qualunque cosa sia che afferma questa cosa, cioè che la proposizione che dice che gli umani non parlano è vera, si attiene a una nozione di vero che è stata costruita dal linguaggio, quindi dagli umani, e cioè utilizza, per provare che una certa proposizione è vera, un concetto di vero che appartiene agli umani; gli umani hanno potuto costruire questo concetto di “vero” che quella cosa sta utilizzando perché sono parlanti, se fosse un altro concetto di “vero” allora verrebbe da domandarsi che cosa significa a questo punto “vero”, e perché utilizza questo termine “vero”, sarebbe un vero che è tale fuori dal linguaggio. A questo punto quindi anche se qualche cosa dovesse affermare che gli umani non parlano, e affermare che questa affermazione è vera, perché se no non significa niente, dovrebbe utilizzare appunto un concetto di vero che è quello che è stato costruito dagli umani ed è stato costruito perché sono esseri parlanti, quindi, se può dire che una certa proposizione è vera oppure no, è perché è stata costruita dagli umani in quanto parlanti, se no non avrebbero potuto costruire la nozione di vero o di falso. L’utilizzo dei concetti di vero o di falso costituiscono a questo punto un problema perché procedono da ciò che gli umani hanno stabilito essere vero o falso. Il linguaggio può fare delle cose strane, si è inventato la religione, si è inventato dio, la filosofia, la scienza, l’arte, l’amore, si è inventato tutte queste belle cose a che scopo, verrebbe da chiedersi? C’è la possibilità che per la struttura stessa del linguaggio in effetti gli umani non potessero fare altrimenti, come se nel modo in cui funziona il linguaggio fosse implicita, direi di più, strutturale la necessità di stabilire delle concatenazioni che procedono per affermazioni e procedendo di affermazione in affermazione fa quella cosa che chiamiamo comunemente “costruire un discorso”, quindi costruire delle possibilità, costruire delle argomentazioni, quindi costruire la scienza, l’arte, dio e tutto quanto. Sto dicendo che non è possibile non farlo, a questo punto il passo successivo apparirebbe di considerare che ciò che chiamiamo fantasia di potere, cioè l’esigenza di affermare qualcosa e di imporlo o proporlo o comunque diffonderlo ad altri, sia il linguaggio stesso, cioè questa esigenza è lo stesso linguaggio e cioè il linguaggio procede per affermazioni e procedendo per affermazioni costruisce discorsi, storie, argomentazioni, teorie, tutta una serie di cose che noi chiamiamo discorsi, storie, teorie a seconda del tipo di sequenza che individuiamo, e questo modo di procedere, dicevo, per affermazioni è, o appare per il momento, la stessa fantasia di potere che è fantasia di potere al momento in cui non si accorge, ovviamente, che è linguaggio. In modo più ampio potremmo dire dell’esigenza di procedere per affermazioni, e ogni affermazione dice come stanno le cose in quel momento, in base a quell’affermazione. Pare molto difficile non procedere argomentativamente in un modo che sia differente da questo, cioè in un modo in cui non si afferma niente, riuscite a immaginare un’argomentazione che proceda senza che affermi assolutamente niente?

Intervento: no, ma poi deve essere vera…

Sì, l’affermazione per essere accolta dal sistema deve essere riconosciuta come vera dal discorso in cui è inserita, e cioè dalle regole di quel discorso particolare, se no, viene rifiutata come falsa. Per attenersi alle regole è ovvio che la prima cosa che deve evitare di fare è di contraddire la premessa dalla quale procede. L’esigenza di affermare una verità procede dall’essere costretti a procedere per affermazioni, ogni affermazione stabilisce una verità, stabilisce uno stato di cose. Ma possiamo anche considerare uno stato di cose relativo a un certo gioco, e quindi non come uno stato di cose che riguarda l’assetto del mondo ma soltanto uno stato di cose all’interno di quel gioco, sapendo perfettamente che si tratta di uno stato di cose all’interno di un gioco, come sto facendo io in questo istante: sto affermando delle cose ma so perfettamente che queste affermazioni dicono come stanno le cose dentro a questo gioco che sto facendo. Però generalmente l’idea è che ogni affermazione stabilisca uno stato di cose che riflette la struttura del mondo, la realtà, ora torniamo a una domanda che ci siamo già posti e cioè perché queste affermazioni devono essere imposte su altri? Abbiamo detto della necessità che una verità sia universale e va bene, però forse non è tutto qui, forse c’è dell’altro. Una affermazione afferma qualche cosa che generalmente è altro da quella affermazione, per esempio dice come sta il mondo, e il mondo è considerato essere altro dall’affermazione che dice come sta il mondo, quindi un’affermazione è sempre qualche cosa che dice “del mondo” dice “come stanno le cose” dice della “realtà”. Se le cose che io dico descrivono la realtà allora io sto mostrando in quello stesso dire la realtà, la sto esibendo, perché ho questa esigenza di mostrare ad altri come stanno le cose? Anziché tenermelo per me, per esempio? Potrei anche farlo, nessuno me lo proibisce e invece no, per gli umani sembra che tenerselo per sé non abbia valore finché invece non è diffuso fra altri, e cioè le mie affermazioni devono costituire la descrizione della realtà alla quale ciascuno deve attenersi: ciò che io affermo è la realtà cioè lo stato di cose e alla realtà ciascuno deve attenersi. Questo procede dall’addestramento a cui ciascuno è stato assoggettato, si insegna, si impone l’adattamento alla realtà, perché la realtà è l’unico modo per imporre l’obbedienza, per imporre la propria volontà, il richiamo alla realtà “la realtà è questa e quindi devi riconoscere la verità, se io dico come stanno le cose, le cose stanno così”. Come direbbe Tarski,  se dico ‘la neve è bianca’ e la neve è bianca allora non ci sono santi, è come una trasmissione che avviene nel momento in cui si trasmette il linguaggio, e cosa che è assente nelle macchine, alle macchine non viene fornita questa informazione e cioè che una proposizione, una sequenza è vera se corrisponde a qualche cosa, che è fuori, non avendo questa informazione la verità della proposizione è valutata unicamente in base alle istruzioni che sono state fornite per fare quel gioco, e non si riferisce a nient’altro, per la macchina soltanto questo è il riferimento: le regole del gioco non c’è altro. Per gli umani invece è invalsa la necessità di imporre un qualche cosa che potesse essere riconosciuto da tutti, o almeno da buona parte, per potere avere la gestione di questi altri, di questi tutti per ottenere il potere, e qui torniamo alla questione di prima, sembra un circolo vizioso, quindi occorre reperire un qualche cosa che consenta di uscire dal circolo vizioso che come sempre è la struttura del linguaggio, il suo funzionamento. Torniamo alle affermazioni, il procedere per affermazioni indica uno stato di cose che propriamente è lo stato di cose deciso dalle regole che il discorso sta facendo in quel momento, come sto facendo io in questo istante, però se questa informazione è assente per una serie di motivi che adesso non ci interessano, allora è come se il discorso avesse la necessità di agganciare queste affermazioni a un qualche cosa, perché o come fa la macchina, o come faccio io, aggancio queste affermazioni unicamente alle regole del gioco che sto facendo, oppure per potere essere un’affermazione, cioè fermare qualcosa per potere proseguire da lì, deve agganciare queste affermazioni a qualche altra cosa, a che cosa? È stato abbastanza facile io credo agganciare queste affermazioni a ciò che i sensi degli umani possono percepire, e cioè agganciare una affermazione a qualcosa che per esempio vedo, ed essendo assente quella informazione ho necessità di agganciarla a qualcosa e come sappiamo non è una necessità agganciarla all’esperienza, chiamiamola così, e cioè a ciò che vedo, sento, tocco eccetera perché le macchine per esempio non lo fanno, e non lo fanno perché nessuno ha detto loro una cosa del genere, senza avere questa necessità, come me d’altronde, che pur non essendo una macchina posso pensare come e meglio di una macchina, però in assenza di questa informazione ci si è avvalsi di quest’altra informazione che giunge dai sensi, la “percezione”, e quindi si è strutturato qualche cosa in base al linguaggio: il linguaggio ha consentito di stabilire che esiste qualche cosa, perché ho incominciato ad affermare che “questo è questo”, però prendiamo questa affermazione che dice “questo è questo”, o si aggancia a delle regole interne al gioco stesso, regole di identità per esempio, stabilite dal gioco, oppure è “costretta” tra virgolette, o almeno appare essere accaduto agli umani, è costretta a immaginare che il “questo” si riferisca a qualcosa che è fuori dal linguaggio. Dal momento in cui ho l’opportunità di accorgermi, grazie al linguaggio cioè a delle affermazioni che mi vengono trasmesse, che originariamente non partono da me, dunque grazie a queste affermazioni posso incominciare a stabilire che esiste qualche cosa, allora questo qualche cosa è diventato la garanzia di verità delle affermazioni. Torniamo ancora al “questo è questo”: o questa proposizione deve il suo valore di verità alle regole del gioco in cui è inserita oppure deve il suo valore di verità a ciò che la proposizione stessa ha costruito, è questo l’inganno, io affermo che “questo è questo” guardando qualcosa e da quel momento immagino, perché guardo quella cosa, che il “questo” si riferisca a quella cosa, cioè che quella cosa sia quello che è, e non posso in nessun modo accorgermi che io sto dicendo che “questa penna è questa penna” unicamente perché delle affermazioni hanno consentito: primo, di stabilire che è qualcosa, e dopo di stabilire che cosa. La necessità di stabilire un valore di verità di una affermazione è dato dal funzionamento, dalla struttura stessa del linguaggio che richiede che un elemento per potere essere utilizzato come premessa sia riconosciuto come vero dal sistema. I primi elementi vengono trasmessi, quindi non c’è la necessità all’interno del sistema di un procedimento vero funzionale “è così” è il primo “questo” si mostra che “questo è questo” e viene accolto perché non c’è nessuna possibilità da parte del sistema, perché non ha gli strumenti, di mettere in dubbio una cosa del genere, quindi viene accolta semplicemente, viene accolta come una cosa che è così e cioè come una premessa universale, che poi costituirà sempre la premessa per tutte le affermazioni a venire. Dicevamo la volta scorsa che il linguaggio, parafrasando la frase di Poincaré, è un’immensa tautologia, cioè ciascuno, parlando, per tutta la sua esistenza non fa nient’altro che continuare a dire “questo è questo” perché ogni affermazione afferma “questo è questo” cioè “è così”…

Intervento: il bambinetto deve avere una infinità di informazioni per dire che è una penna…

Non necessariamente, bastano poche informazioni, come l’esperienza suggerisce d’altra parte, dicevamo qualche tempo fa forse, che è possibile costruire un senso anche senza avere il significato, cioè il riferimento di molte parole. Supponiamo che io introduca all’interno di un discorso la parola “sincategorematico”, quanti conoscono il significato di questa parola? Però ne colgono il senso, in accezione fregeana del termine, e cioè sanno che questa cosa ha un rinvio, non sanno a che cosa ma se io la ho utilizzata sicuramente ha un rinvio, e quindi si accoglie, e può accadere anche di sapere utilizzare più o meno appropriatamente delle parole di cui si ignora il significato, cosa che avviene per lo più. Lei provi quando parla con qualcuno anche di cose banali a chiedere di definire tutte le parole che hanno utilizzate, vedrà cosa succede…

Intervento: però il bambinetto deve avere delle nozioni anche per vedere la penna stessa…

Intanto quando ha acquisito la possibilità che gli è stata trasmessa di cogliere che ci sono delle cose, anche se non sa distinguere, deve sapere che c’è un qualche cosa da vedere, finché non gli si insegna che ci sono delle cose da vedere non le vede. Quando ha acquisto questo, che forse è la prima cosa che si acquisisce, dopo può anche sapere che questa è una penna senza avere nessuna cognizione di cosa sia un cilindro, forse neanche di sapere a che cosa serve esattamente, perché il modo in cui si produce della significazione non ha necessità di tanti significati, alcuni sì certo, ma non tanti, basta mostrare questo oggetto, dire questa è una penna, lui immagazzina delle informazioni, in questo caso visive, tattili, dopo di che saprà riconoscere, ogni volta che vede qualcosa di simile, che quella è una penna, cosa che avviene per altro in moltissimi casi non a proposito di una penna, che è un oggetto piuttosto conosciuto, ma rispetto a cose meno conosciute per esempio uno può mostrare a una signora uno spinterogeno, lei vede più o meno come è fatto, e se ne rivede un altro potrebbe anche dire correttamente: “quello è uno spinterogeno”, senza sapere tuttavia che cosa sia, a che cosa serve, però sa riconoscerlo. Quindi non c’è la necessità di avere tutti i significati, contrariamente a ciò che pensa molta filosofia analitica, per esempio, tutta la teoria composizionale che dice che il significato di una proposizione è composto dai significati delle varie parole, quindi per comprendere il significato di una proposizione devo conoscere il significato di tutti i componenti di quella proposizione, non è sempre così automatico. In alcuni casi questa teoria della composizionalità non è verificabile, perché appunto ci sono situazioni in cui uno riconosce e capisce il senso di una proposizione, senza conoscere dei significati di parole all’interno di quella proposizione, semplicemente queste parole intanto sa che hanno un rinvio e che rinviano per esempio nel caso di “sincategorematico” rinviano a qualcosa che ha a che fare con le parole, con il linguaggio, perché? Da cosa lo trae? Se uso un termine come questo, chi ascolta sa riferirlo a un qualche cosa, sa che ha a che fare con il linguaggio perché sto parlando di linguaggio per esempio, e quindi compie un procedimento che fra i linguisti è noto come encatalisi, altro termine che difficilmente una persona comune saprebbe identificare, cioè recupera il senso di una proposizione da dei frammenti noti. È l’operazione che fanno gli archeologi quando trovano frammenti di parole, per esempio dei coccetti, ci sono solo delle parole spezzate perché mancano dei pezzi però da quello che c’è è possibile encatalizzare, cioè recuperare le parti mancanti. Se per esempio in mezzo a parole latine c’è scritto “nos habem” allora manca “us”, e non può che essere quello perché la prima persona plurale dell’indicativo presente latino fa “habemus” e quindi se c’è scritto “nos habem” quello che manca è “us”. Questo è un processo di encatalisi, in questo caso molto semplice ovviamente, non è sempre così facile, però la persona che ascolta questo significante di cui vi dicevo compie questa operazione, e cioè trae dal senso del discorso il fatto che quella parola che ha utilizzato di cui non conosce il significato, però significa qualche cosa che ha a che fare con il linguaggio, quindi può utilizzare quella parola che ha sentito in ambito linguistico in modo più o meno appropriato, senza sapere che cosa significhi. Quante volte capita di sentire persone che utilizzano un termine inglese per esempio o latino che hanno sentito ma di cui non conoscono il significato, però lo mettono nel discorso perché fa bello, fa elegante, fa persona colta, magari facendo degli strafalcioni, eppure non conosce il significato di quella parola che sta utilizzando. Per utilizzare il linguaggio, per fare girare questo sistema, non occorrono molti significati, alcuni si deducono, si traggono, altri si ignorano e non per questo non si usano le parole. Dopo tutto anche un significato che fornisce il dizionario non è sempre così attendibile, per esempio si suppone che per un termine di fisica che si ignora un bravo fisico sappia dirne di più e meglio, ma non sempre, non necessariamente, anche lui può avere delle dimenticanze, e poi uno stesso significante visto in quattro o cinque, sei o sette, otto dizionari può essere differente e allora qual è il significato esatto? Questo è uno dei problemi che si incontrano nelle teorie semantiche, nelle teorie del significato, quale significato dovremo utilizzare, di quale dovremo fidarci? Del dizionario? Non sono tutti allo stesso tempo attendibili, anche i migliori, fidarci dell’esperto? Anche l’esperto può avere delle dimenticanze, può sbagliare e quindi a chi ci si riferisce per conoscere il significato di un termine? A questo punto qual è esattamente il significato di quel termine? Se non abbiamo modo di saperlo con certezza? Wittgenstein aveva data una buona soluzione “l’uso che se ne fa”, che a tutt’oggi è quanto di meglio sia stato proposto “il significato come uso”, se sai utilizzare quella parola ne conosci il significato, anche se sappiamo che non è sempre necessariamente così. Questo per dire di alcune difficoltà presenti a tutt’oggi nelle teorie semantiche, non sono problemi che siano stati risolti e non sono neanche risolvibili, con buona pace di tutta la filosofia analitica e delle teorie del significato, perché sono teorie che cercano di stabilire che cos’è il significato, senza rendersi conto che ogni volta affermano qualche cosa, cioè si attestano su qualche cosa che dice sì come stanno le cose quando va bene, ma come stanno le cose all’interno del gioco che stanno facendo; se invece immaginano che ciò che hanno trovato, ciò su cui si sono attestati, sia qualcosa che è quello che è al di fuori del gioco che stanno facendo ecco che incontrano immediatamente contraddizioni, contro argomentazioni di ogni sorta, sta qui l’inghippo, sapere che ciò che si sta affermando dice come stanno le cose all’interno di quel gioco, è un po’ come il teorema di una dimostrazione come diceva Wittgenstein “se ci si è attenuti correttamente alle regole di quel gioco si giunge a quella conclusione” ma quella conclusione ci dice appunto soltanto che ci siamo attenuti scrupolosamente alle regole di quel gioco, nient’altro che questo, non dice come stanno le cose, dice come stanno le cose in quel gioco e con quelle regole, allora sì, se io mi attengo alle regole del gioco che fa l’aritmetica allora so che due + due farà quattro, ma non è un’affermazione universale e metafisica come molti pensano che sia, affermare che la somma di questi due termini è quattro ci dimostra soltanto che ci siamo attenuti alle regole del calcolo. Questo è importante, possiamo tornare da dove siamo partiti, e cioè alla questione del potere, a questo punto possiamo anche dire che l’esigenza di affermare qualcosa e di farlo accogliere anche ad altri è il linguaggio stesso, è il linguaggio che è questo, che è fatto di affermazioni, e queste affermazioni non potendo, e qui sta la differenza, non potendo essere riconosciute come affermazioni procedenti da un gioco linguistico, queste affermazioni devono essere fatte garantire dalla realtà e la realtà, così come si è stati addestrati a fare, è pensata come qualcosa che è riconosciuta da tutti e quindi se la mia affermazione è vera è la realtà, e se è la realtà non può non essere riconosciuta da tutti.