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21 luglio 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Siamo arrivati a Socrate che, come ciascuno sa, è una delle figure più importanti nella storia del pensiero. Richiamiamoci brevemente alla memoria il ciclo finora percorso. Gli antichi Ioni hanno certo pensato ma senza riflettere sul pensiero, cioè senza determinare il loro prodotto come pensiero. Erano giunti a quella che Hegel chiama la coscienza, la consapevolezza che c’è il pensiero, però, ancora il pensiero non pensa se stesso (l’autocoscienza per Hegel). Gli atomisti avevano ridotto l’essere oggettivo a pensieri, che però erano soltanto astrazioni, pure essenze. Invece, Anassagora innalzò a principio il pensiero come pensiero, il quale in tal modo si palesò come il concetto onnipotente, come la potenza negativa su tutto ciò che è determinato e sussiste. In questo modo Hegel ci dice anche perché è nata la filosofia: per avere più potere sulle cose. Il pensiero prefilosofico si affidava agli dei – gli dei vogliono questo, fanno questo e quest’altro – il potere era comunque loro, gli umani lo subivano, potevano tutt’al più ingraziarseli in qualche modo. Ma a un certo punto interviene il pensiero e più il pensiero diventa prioritario e più ci si accorge della sua potenza straordinaria. Ecco perché gli dei non servono più, così come i miti: si è cambiato registro, il pensiero è onnipotente, e questo avverrà soprattutto con i sofisti. Poi, dopo questa considerazione della onnipotenza del pensiero, arriva Socrate, poi Platone e quindi Aristotele. Ma già con Socrate si pone un limite a questa onnipotenza, limite che è dettato dal fatto che ciò che è il bene per gli umani è l’assoluto, non il particolare ma l’assoluto, cioè, l’universale. Quindi, bisogna trovare dal particolare l’universale, solo questo è il bene che bisogna ricercare. Quindi, il pensiero è sì onnipotente ma c’è qualcosa che lo argina, e cioè l’universale. Quando si arriva a cogliere l’universale è come se si fosse arrivati a fine corsa. Oltre le idee di Platone, per esempio, non c’è altro. Il primo argine che viene posto ai presocratici lo pone Socrate, il quale non dice ancora quali siano queste idee, però allude al fatto che ci sono e che devono essere cercate. E adesso vediamo come si svolge la cosa secondo Hegel. Protagora afferma che il pensiero è l’essenza… Cioè: tutto è qui. …ma in quel suo movimento, che è la coscienza dissolvitrice di tutto, l’irrequietezza del concetto. Ma questa irrequietezza in se stessa ha anche un che di quiescente e di saldo, perché è sì irrequietezza ma in quanto tale è quella che è, è una irrequietezza ineliminabile. Orbene, ciò che va di saldo nel movimento come movimento è l’Io, perché esso ha fuori di lui i momenti del movimento. L’Io, come ciò che conserva se stesso e supera soltanto l’altro, è unità negativa, ma appunto perciò è un individuo, non ancora un universale riflesso in sé. Qui è Hegel che accusa Protagora di non essere hegeliano. Proprio in ciò consiste il doppio volto della dialettica della sofistica: una volta scomparso l’oggettivo… Le cose stanno così come dicono gli dei, per esempio nella religione. …quel soggettivo… Cioè: sono io che penso. …che resta fermo significa o l’individuale opposto all’oggettivo, e quindi l’arbitrio accidentale e senza legge… Faccio quello che voglio. …oppure ciò che in lui stesso oggettivo e universale… Cioè: occorre la ricerca di che cosa è oggettivo e universale nel soggetto, in colui che pensa. Questo è ciò che farà Socrate. Socrate afferma che l’essenza è l’Io universale come coscienza quiescente in se stessa… Coscienza che è ferma in se stessa, salda in se stessa, e a partire da questa saldezza si interroga sugli universali, cioè, su cosa veramente è universale, quindi, su ciò che merita di essere indagato.

Intervento: È come se non ci fosse movimento dialettico?

È un abbozzo di movimento dialettico, in un certo senso. C’è un movimento ma non è ancora quel movimento dialettico per cui dal per sé si torna all’in sé. Orbene, questo è il bene come bene… La coscienza che indaga se stessa. …che è libero dalla realtà esistente, libero dalla singola coscienza sensibile del sentimento e dell’inclinazione, libero finalmente dal pensiero che specula teoreticamente sulla natura, il quale sebbene pensiero ha ancora la forma dell’essere, nel quale dunque io non certo me. Continua ad esplorare le cose della natura. Socrate in tal modo, in primo luogo, ha accettato la teoria di Anassagora: il pensiero, l’intelletto è l’universale, è quel che domina, che determina se stesso. È per questo che Anassagora era importante per Socrate, come se Anassagora gli avesse detto che è il pensiero che domina su tutto: il pensiero che pensa se stesso, in fondo. Ma in lui (Socrate) questo principio non assume più, come nei Sofisti, l’aspetto della cultura formale o del filosofare astratto; quindi, se anche per Socrate, come per Protagora, l’essenza è il pensiero autocosciente, che toglie ogni determinato, in Socrate però ciò accade in modo che egli intenda ora insieme pensare come quello che è quiete nella sua salvezza. È per questo che dicevamo che è a metà tra dialettica e non dialettica, perché incomincia a pensare che c’è questo movimento, anche se propriamente non lo mette in atto, non coglie l’Aufhebung. Questa sostanza in sé e per sé, ciò che puramente e semplicemente si conserva, è stata ora determinata come fine e, più precisamente, come il vero, come il Bene. Sta dicendo che Socrate ha cominciato a pensare che ciò che la coscienza pensa, quando pensa se stessa, diventa autocoscienza e, quindi, ha a che fare non più con la natura, con il mondo che lo circonda, ma con il proprio pensiero, che determina le cose. A siffatta determinazione dell’universale segue in secondo luogo che questo Bene (che è sempre l’universale, naturalmente), il quale deve avere per me valore di fine sostanziale, deve essere da me riconosciuto; in tal modo fa la sua apparizione in Socrate la soggettività infinita, la libertà dell’autocoscienza. Cioè: io sono libero di riconoscerlo oppure no. Tale libertà, consistente in questo, che la coscienza in tutto ciò che pensa deve essere assolutamente presente e cosciente di sé… Chiaramente, per decidere una cosa del genere devo essere consapevole di quello che faccio. …nei tempi nostri si pretende che s’abbia a spingere all’infinito senza che vi sia posto alcun limite né condizione. Il sostanziale, per quanto eterno è in sé e per sé, deve in pari tempo essere prodotto da me. E qui ci sono ancora i sofisti. Poi, vedremo quanto Socrate sia debitore dei sofisti. Senonché questo mio è soltanto l’attività formale. Il principio di Socrate è dunque questo, che l’uomo deve attingere da se stesso, così che lo scopo delle sue azioni lo scopo finale dell’universo, che deve pervenire alla verità per opera propria. È per questo che Socrate pensava che ciascuno ha in sé la verità, deve solo trovarla, come nel famoso dialogo Menone: lo schiavo che secondo Socrate conosceva già tutte le regole geometriche, che quello non sapeva assolutamente; però, Socrate, parlando con lo schiavo, gliele tira fuori. È il famoso metodo socratico per dimostrare che era già tutto presente, il che è vero fino a un certo punto. Il vero pensiero pensa in modo che il suo contenuto non è meno soggettivo che oggettivo… In quanto mi pongo di fronte al mio pensiero come a un oggetto: manca ancora il ritorno dell’oggetto sul soggetto. In tal modo la verità vien posta come un prodotto mediato dal pensiero, mentre l’ingenuo costume, come Sofocle fa dire ad Antigone, è l’eterna legge degli dei. /…/ Socrate ha comune coi Sofisti la riflessione, il condurre il giudizio alla coscienza. Come dire: accorgiti di ciò che stai facendo, di ciò che stai dicendo. Ma Socrate e Platone, d’altra parte, con la loro filosofia dovevano venire a contrasto con i Sofisti, quali rappresentanti della cultura filosofica generale della loro età, perché l’oggettivo prodotto dal loro pensiero lo consideravano a un tempo come l’in sé e il per sé... Come se fosse tutto lì. …e, quindi, come superiore a tutti gli interessi e le inclinazioni particolari, come la potenza che sovrasta su di essi. È chiaro che per i sofisti non c’era l’idea di trovare l’assoluto perché già Zenone, già gli eleati, avevano già cancellato l’idea di assoluto. Questa idea di verità assoluta era già crollata. Invece, Socrate la riprende elaborandola, poi più che altro Platone, come teoria delle idee, per cui le cose immanenti, quelle con cui si ha a che fare, sono soltanto delle apparenze; in realtà, le vere cose, la vera realtà sta nell’idea che io ho di quella cosa, cioè nell’universale. Però, questo, come dicevo prima, è un porre un argine al pensiero dei sofisti, al pensiero presocratico, un porre un argine nel senso che insinua che il pensiero, certo, è libero e può costruire qualunque cosa ma si scontra a un certo punto con un limite che è dato dall’universale, universale che il pensiero non può mettere in dubbio perché è la verità. Naturalmente, bisogna crederci che sia così, sennò non succede niente. Ma non è che ci si crede così, naturalmente, tanto Platone quanto Aristotele pongono potenti argomentazioni a fondamento di tutto ciò, ma tutte queste argomentazioni non tolgono di mezzo il problema. Tutte le confutazioni che fa Aristotele ai presocratici sono il più delle volte capziose e il problema, in realtà, rimane tale e quale.

Intervento: Sono retoricamente efficienti perché restituiscono a chi le ascolta la possibilità di esercitare un potere sulle cose.

Sì, certo. È per questo che ha funzionato in questo modo.

Intervento: Sono strategie retoriche. Creano l’immagine nell’interlocutore…

Infatti, Hegel lo dice. Dunque, che cosa faceva Socrate? Conduceva i suoi interlocutori da quel caso speciale a pensare l’universale, ciò che ha in sé e per sé valore di vero e di bello, suscitando in ciascuno, attraverso la riflessione personale, la convinzione e la coscienza di ciò che conveniva in quel caso. Orbene, questo metodo presenta due lati fondamentali. Da un lato, trae fuori l’universale dal caso concreto, porta alla luce il concetto che è in sé in ogni coscienza; dall’altro lato, dissolve i modi di vedere generali della rappresentazione o del pensiero, radicati e accettati immediatamente dalla coscienza e li scompiglia in se stessi e nel concreto. In effetti, Socrate fa questa operazione ovviamente retorica, e cioè scompigliando le credenze della persona mostra che c’è qualche cos’altro di più potente. È per questo che ha avuto tanto seguito, così come ha avuto tanto seguito Aristotele, perché attraverso la metafisica mostra come sia possibile conoscere esattamente e con certezza le cose, cioè, la conoscenza diventa episteme. Per indurli a formulare essi stessi (gli interlocutori di Socrate) queste opinioni fa le viste di ignorarle e con aria ingenua rivolge loro dei quesiti, come se essi dovessero fargli da maestri; in realtà, però, soltanto per indurli a scoprirsi. In ciò consiste la famosa ironia socratica, che in Socrate è un modo particolare di comportarsi nelle relazioni fra persona e persona e, quindi, nient’altro che una forma soggettiva della dialettica, mentre la dialettica vera e propria ha a che fare con le ragioni della cosa. L’ironia mette in evidenza una assoluta e totale superiorità. Quando si fa dell’ironia su qualcuno ci si mette in una posizione di totale superiorità nei suoi confronti. Costui dice così ma, come nei confronti dei bambini, non sa ancora niente, non ha ancora imparato, è ancora ingenuo. Quindi, nel metodo socratico c’è uno straordinario utilizzo della volontà di potenza, che si manifesta attraverso l’ironia: tu non sai, io te lo dimostro e in questo modo scompiglio le tue credenze e ti faccio credere, ti faccio pensare che esista qualcosa di epistemico. In questo modo Socrate ha avuto un grandissimo seguito perché è come se mostrasse la via per la verità, verità che andava al di là delle cose credute comunemente. Questo gli ha poi provocato qualche problema, ma questo è un altro discorso. Talvolta, trae la conseguenza contraria da qualche caso concreto, poiché anche questo contrario era per i suoi interlocutori un principio altrettanto inconcusso; li obbligava a riconoscere di essere in contraddizione con se stessi. Questa è retorica pura. Adunque l’insegnamento che Socrate impartiva a quelli con cui si intratteneva era di sapere che non sapevano niente; anzi, ciò che era ancora più importante era di non sapere niente neppure lui e di non essere quindi in grado di insegnare. Questa era la prima forma dell’anima bella: io non so niente, parla tu che sai! Naturalmente, appena l’altro incomincia lo massacra. È una delle modalità della retorica; sappiamo che la retorica serve a vincere l’altro, quindi, a piegarlo alla mia ragione. Questo è quello che voleva fare Socrate ed è quello che faceva: un esercizio di potere. Orbene, questa ironia sotto un certo aspetto pare che manchi di verità, ma allorché si tratti di oggetti di interesse universale, circa l’uno afferma il pro e l’altro il contro, accade sempre che l’uno non sappia come l’altro si rappresenti la cosa. Infatti, ogni individuo ha certi principi ultimi che presume noti anche all’altra parte. Ma quando si viene alle strette risulta che proprio le premesse hanno bisogno di essere validate. Per esempio, nei tempi moderni si discute intorno alla ragione e alla fede, che sono oggi gli interessi predominano nel nostro spirito; orbene, ognuno si comporta come se sapesse bene che cosa sia ragione e passerebbe per cattiva educazione chiedere che si dichiari cosa essa sia, poiché la si presuppone nota. È la stessa cosa che dice Peirce: la prima cosa da fare quando si discute in ambito teorico è stabilire in quale modo si intendono le premesse da cui partiamo, perché sennò si fanno due discorsi che corrono paralleli, come accade sempre. È possibile dunque intendersi soltanto quando è stato precedentemente spiegato ciò che si presuppone noto, ma non lo è. Socrate giocava su questo: tutte le cose, che il suo interlocutore presupponeva essere note, lui chiedeva di spiegarle. Come se dicesse “che cos’è questa? Una penna. Quindi, che cosa esattamente? Uno strumento. Ma vediamo che cos’è esattamente uno strumento. Poi, vediamo che cos’è la scrittura”. Si va avanti all’infinito, naturalmente, finché la persona non sa più nemmeno da che parte girarsi. E questo è l’intendimento della retorica: metterlo nelle condizioni di accogliere quello che io gli impongo. Essa (la coscienza) dice “sono io che con il mio colto pensiero posso ridurre al nulla tutte le affermazioni di diritto, di costume, di bene, ecc., perché io ne sono senz’altro la signora, e io so che se una cosa è bene per me so anche trasformarla per me nel suo opposto, che tutto per me ha valore di verità solo in quanto in questo momento così mi piace”. Questa ironia consiste dunque nel farsi gioco di ogni cosa e può ridurre tutto ad apparenza, e le cose serie che essa crea le annulla subito nello scherzo, essa dissolve nel nulla e nella trivialità ogni alto e divino vero. Come dire: non c’è nulla di alto, di divino, se incominciamo a interrogarlo. L’effetto immediato di cotesto procedimento può essere questo, che la coscienza si meravigli di trovare nel noto ciò che non vi ha cercato. Se, per esempio, riflettiamo alla rappresentazione del divenire, nota a ciascuno, troviamo che quel che diviene non è e tuttavia anche è: è l’identità di essere e di non essere. Può stupirci che una rappresentazione così semplice contenga così immensa differenza. … La mira cui egli (Socrate) tendeva in particolar modo era dunque quella di creare uno stato di incertezza e di confusione della coscienza in se stessa. Egli mira con ciò a destare un senso di vergogna e a far sì che ci si accorga come quello che teniamo per vero non sia ancora il vero, dal che doveva sorgere allora il bisogno di prendere maggior cura della conoscenza. Platone ce ne porta esempi peraltro nel Menone. Quindi, fare notare che ci sono più cose in una credenza. Uno pensa che la cosa sia così, ma è anche così, non è solo così, ed è questo “non solo così” che poi porta al sovvertimento radicale. In breve questo il procedimento di Socrate… Cioè, la retorica, quella che usavano i sofisti, né più né meno. …l’affermativo: ciò che Socrate svolgeva nella coscienza è niente meno che il Bene... Questa è una delle differenze tra Socrate e i sofisti. I sofisti non si occupavano del Bene, perché il Bene assoluto dove lo troviamo, come lo stabiliamo, chi lo decide? In fondo, anche dire che il Bene è l’universale è una decisione di Platone, chi garantisce che sia così? Nessuno. …in quanto esso scaturisce dalla coscienza mediante il sapere. Qui Socrate faceva vedere al suo interlocutore che lui, l’interlocutore, poteva raggiungere il Bene assoluto, l’universale, soltanto attraverso la sua coscienza, che aveva già nella coscienza tutto, doveva solo tirarlo fuori con la conoscenza, con il sapere. Socrate lo aiutava a fare venire fuori questo sapere: in fondo, era questo il cosiddetto metodo maieutico. L’eterno, l’universale in sé e per sé, ciò che viene chiamato idea, il vero che appunto in quanto è fine è il Bene. L’idea che questo universale sia il fine, cioè l’ultimo elemento da cogliere, è un’idea di Platone, perché nel suo pensiero l’universale è ciò che raccoglie in sé tutti i particolari e, quindi, il Bene assoluto: se ciascuna cosa particolare può essere considerata un bene particolare, soggettivo, ecc., invece ciò che racchiude tutte queste cose, e cioè l’universale, deve essere il Bene assoluto. È un pensiero ingenuo, se ci pensiamo bene. Questo rispetto a Socrate si contrappone ai sofisti, presso i quali l’affermazione che l’uomo è misura di tutte le cose (Protagora) contiene ancora i fini particolari… Fini particolari nel senso che sono io a decidere di volta in volta. Non esiste qualche cosa che vada al di là, come era per Socrate l’universale. …mentre in Socrate l’universale, prodotto mediante il pensiero libero è quivi espresso in maniera oggettiva. Tutti i miei fini sono soggettivi. Per Socrate l’universale è oggettivo, è quello che è: questa penna è quello che è. Quello che è perché c’è l’idea di penna; sarebbe la “pennità”. Come la cavallinità, l’idea del cavallo, che deve essere presente prima che io possa vedere un cavallo. È chiaro che la domanda immediata è: da dove vengono queste idee? Sono lì, nell’Iperuranio, e più non dimandare. Tuttavia, non dobbiamo far colpa ai Sofisti se nel disorientamento dell’età loro non trovarono il principio del vero… Non è che non lo trovarono. Non lo trovarono perché non c’è, il che è diverso. Non è che non ci sono arrivati. Il sofista avrebbe chiesto “Dimmi tu qual è il principio del Bene e perché deve essere quello che dici tu e non quello che dico io, per esempio”. Questo ricondurre la coscienza in se stessa viene svolto in Platone molto estesamente in questa forma: l’uomo non può imparare niente, neppure la virtù, non perché essa non rientri nella sfera della scienza ma perché Socrate dimostra che il Bene non proviene dall’esterno, per modo che possa essere insegnato, sibbene è contenuto nella natura dello spirito. In generale egli pensa che l’uomo non possa ricevere passivamente nulla dall’esterno, a quella guisa che la cera riceve la forma. Tutto invece risiede nello spirito dell’uomo e sembra soltanto che l’uomo lo impari. Certamente tutto ha inizio dall’esterno, ma soltanto inizio; la verità è che questo inizio esteriore è soltanto un impulso allo svolgimento dello spirito, per cui il primo non è mai il primo. Tutto ciò che ha valore per l’uomo, l’eterno, l’in sé e il per sé, è contenuto nell’uomo stesso, si deve sviluppare dall’uomo stesso. Imparare vuol dire soltanto ricevere conoscenza di ciò che è esteriormente determinato. Qui è interessante la questione perché, anche senza cogliere la questione del linguaggio, è un po’ come dire che è già tutto qui. Probabilmente Platone pensava che se qualche cosa fosse stato fuori dallo spirito, fuori dal pensiero, questo non sarebbe stato pensiero e, quindi, non poteva in nessun modo intervenire. Se qualcosa è, è perché è pensiero, è già da sempre pensiero. Come dire che nel linguaggio c’è già tutto, tutto ciò che è stato fatto era già presente, tutto ciò che sarà tra mille anni è già qui adesso. Non lo vediamo, certo, per una serie di motivi, ma è già qui necessariamente, perché se non fosse qui vorrebbe dire che in questo caso sarebbe fuori dal linguaggio, ma se è fuori dal linguaggio non abbiamo alcun accesso e, quindi, non avverrà mai né sapremmo mai che cosa non è avvenuto. Orbene, poiché Socrate si ferma all’indeterminatezza del Bene, per lui il bene determinato assume il più preciso significato di Bene soltanto particolare; quindi, l’universale risulta soltanto dalla negazione del Bene particolare e, poiché questo è costituito precisamente dalle vigenti leggi del costume greco, in ciò sta il certamente giusto ma pericoloso lato dell’accorgimento di far risaltare in ogni particolare soltanto il suo difetto. Cosa ci sta dicendo qui? Dice l’universale risulta soltanto dalla negazione del Bene particolare. Se questo Bene è particolare vuol dire che è tuo, ma per un altro è un altro; quindi, negativamente possiamo pensare un Bene universale. Per Socrate è ancora così, per Platone non lo sarà più. Questo però, dice Hegel, ha comportato qualche problema, nel senso che lo porta e mettere in discussione, pur obbedendo alle leggi, la loro validità. Io devo obbedire alle leggi perché ci sono, però non credo che queste leggi siano vere. Perché Socrate si lascia giustiziare? Proprio per questo motivo, cioè per mostrare che lui tiene alla legge, che crede alla legge ma in quanto fenomeno particolare, momentaneo, che ha validità adesso perché è in vigore adesso, tra dieci anni non lo sarà più, tra dieci anni sarà importante un’altra legge, ma l’importante è che ci sia la legge, alla quale tutti devono sottoporsi. Però, c’è un problema che qui Hegel ha riscontrato. Hegel ci ricorda che a Socrate fu detto che era libero di andarsene se voleva, i secondini si sarebbero girati dall’altra parte e lui sarebbe potuto andare via, oppure avrebbe potuto pagare una penale che tutti i suoi allievi erano pronti a produrre. E, invece, no, Socrate vuole che la legge segua il suo corso e che, quindi, lui venga condannato a morte. Questo rifiuto a salvarsi può certamente venir considerato prova di grandezza morale ma d’altra parte contraddice in certo modo a quanto egli disse più tardi in carcere, e cioè egli non aveva voluto fuggire ma si trovava in quel luogo perché così era sembrato il partito migliore agli Ateniesi e a lui era sembrato il partito migliore sottomettersi alle leggi. Ma siccome gli Ateniesi lo avevano giudicato colpevole, la prima prova di sottomissione alla legge sarebbe stata per l’appunto di rispettare il giudizio e confessarsi colpevole. Era la prima cosa che chiedevano i Greci. Quindi, Socrate, per ottemperare a questa legge, di cui parlava così bene, avrebbe dovuto per prima cosa sottomettersi alla legge che imponeva il riconoscimento del suo crimine; cosa che non fa. Di conseguenza, avrebbe dovuto anche ritener meglio assegnarsi la pena, poiché in tal modo si sarebbe assoggettato oltre che alle leggi anche al giudizio. Questo avrebbe dovuto fare se voleva sottomettersi, dice Hegel. Così vediamo in Sofocle la divina Antigone, la più nobile figura che sia comparsa sulla Terra, la quale andando a morte accetta con le sue ultime parole quel che è accaduto: se così piace agli dei confessiamo che, posto che soffriamo, abbiamo errato. C’è una sorta di discrepanza, nota Hegel, tra la posizione di Socrate, quella da lui diffusa, e la sua condotta, perché di fatto non si sottomette ma vuole portare il sistema giuridico greco alle estreme conseguenze. Anche se non è propriamente l’anima bella, di cui parla Hegel, è comunque un primo abbozzo. Siamo arrivati a Platone. C’è quel famoso detto che si attribuisce ad Aristotele: Plato amicus, sed magis amica veritas (Platone è un amico ma lo è di più la verità), per cui se Platone sbaglia lo castighiamo. Vedemmo già nella delineazione generale della storia della filosofia che nella linea progressiva dell’elaborazione filosofica dovevano presentarsi appunto codesti nodi nei quali il vero è concreto. Il concreto è l’unità di determinazioni, di principi differenti; orbene, questi, per potere essere svolti per venire alla coscienza in modo determinato, debbono anzitutto essere presentati per sé… È quello che diciamo sempre: posso pensare il concreto solo per astratto. Certamente essi prendono in tal guisa aspetto di principi unilaterali in confronto del più alto che seguirà poi, ma questo non li annulla, non li lascia neppure in disparte, anzi, li assume quali momenti del suo principio superiore. Nella filosofia platonica vediamo difatti ricomparire svariati filosofemi più antichi… I filosofemi sono i concetti fondamentali dei filosofi. …ma accolti nel più profondo principio platonico e congiunti in esso. Il rapporto è il seguente: la filosofia platonica si presenta come una totalità dell’idea e, quindi, come risultato comprende in sé i principi altrui. Questo è, secondo Hegel, ciò che ha fatto Platone, e cioè ha preso, come era inevitabile, tutto ciò che c’era prima e lo ha volto a ciò che voleva lui, così come accade sempre, come facciamo anche noi con Hegel e con tutti gli altri: prendiamo delle cose che ci danno da pensare ma poi le pensiamo a modo nostro. Spesso Platone si è limitato a esporre le filosofie anteriori e di proprio non ci ha messo che l’ulteriore svolgimento di esse. Il suo Timeo, secondo tutte le testimonianze, è l’ampliamento di uno scritto pitagorico, che è giunto fino a noi; e così pure Parmenide, che nell’esposizione platonica è ampliato in maniera che resta superata l’unilateralità del suo principio. Ha preso Parmenide e poi lo ha discusso a modo suo, non è che ha ripetuto ciò che diceva Parmenide. Tolte così queste due ultime difficoltà, per superare la prima occorre innanzitutto caratterizzare la forma con cui Platone ha presentato le sue idee. La forma dialogica, come sappiamo. /…/ la quale d’altra parte deve farsi derivare da ciò che in lui la filosofia è in quanto filosofia. È noto che la filosofia della trattazione platonica era dialogica. Questa forma è particolarmente bella e attraente, ma non si deve ritenere, come spesso si fa, che essa sia la forma più perfetta di esposizione filosofica. Essa è peculiare a Platone e merita certamente rispetto come opera d’arte. Qui c’è un’annotazione interessante che fa Hegel. Il contegno dei personaggi che conversano nei dialoghi platonici conserva sempre quel tono di nobilissima urbanità che conviene a persone colte ed educate. Questi dialoghi sono una lezione di finezza dei modi, mi si scorge l’uomo di mondo che sa come comportarsi; la cortesia non si limita all’urbanità, è qualcosa di più, contiene alcunché di superfluo, vale a dire, attestazione di rispetto, espressione di deferenza e devozione. L’urbanità è la vera cortesia e sta a fondamento di quest’ultima, ma l’urbanità si limita a lasciare ognuno, col quale si parli, piena libertà personale di sentire e di opinare e il diritto di manifestare il proprio pensiero. Nell’esporre la sua opinione contraria, la sua contraddizione, ognuno mostra così in modo caratteristico di dare alla propria tesi, in contrasto di quella di altri, soltanto valore soggettivo. Come si fa nella captatio benevolentiæ: dico questa cosa ma è una mia opinione. È chiaro che non è proprio così, che si pensa che sia vero e che se un altro pensa diversamente è un cretino, però la captatio benevolentiæ vuole questo. È difatti una conversazione in cui le persone si presentano come persone, non già come la ragione oggettiva che parli son se stessa. Invece, accade esattamente questo nella conversazione: ciascuno parla a nome di una ragione oggettiva. È questo che gli impone la volontà di potenza, la quale è come se dicesse “Tu devi parlare come se ogni cosa che dici fosse la verità assoluta, né più né meno”. Per quanta energia si metta nell’affermare le proprie opinioni, si riconosce sempre che anche l’altro è una persona pensante. A nessuno è lecito sentenziare dal tripode né troncare la parola in bocca all’altro. Questa urbanità non è semplicemente riguardo ma piuttosto massima schiettezza e liberalità d’animo; essa appunto costituisce l’attrattiva dei dialoghi di Platone. Sta descrivendo, in effetti, come si svolgono i dialoghi di Platone. È vero, Socrate lascia sempre parlare, per poi confutare tutto e mettere l’altro nella condizione di non potere più replicare, perché è questo che vuole, perché se l’altro è in condizione di replicare, allora vuol dire che Socrate non ha tutte le ragioni. Il modo del dialogo platonico, di cui Hegel non parla, è quello della domanda-risposta. La domanda mostra soltanto due possibilità di risposta: vero-falso. Qualcuno lo aveva accostato al sistema binario dei computer. È questo oppure quest’altro? Naturalmente, è posta in modo tale che l’altro siacostretto a dire “È così e non cosà”. Questo naturalmente ha una pecca, ché se da una parte dà l’apparenza di un procedere snello, veloce e sicuro, dall’altra parte toglie di mezzo una quantità sterminata di cose che ci sono tra i due, ponendo unicamente un’alternativa tra due posizioni. L’elevata mente di Platone, che possedeva un’intuizione o rappresentazione dello spirito, penetrava questo suo soggetto col concetto speculativo, ma non faceva che iniziare questa penetrazione e non abbracciava ancora col concetto l’intera realtà di esso. Cioè lo spirito assoluto. In altre parole, la conoscenza che si manifestava in Platone non si realizzava ancora in lui nella sua pienezza. Neanche lui era hegeliano. I cosiddetti neoplatonici, i quali da un lato allo stesso modo interpretavano allegoricamente la mitologia greca, scorgendo in essa espressione di idee, quali sono certamente i miti, vollero anche per primi ricavare le idee dai miti platonici, facendone così dei filosofemi, ché difatti è l’unico compito della filosofia dare il vero nella forma del concetto; da un altro lato considerarono senz’altro espressione dell’essenza assoluta ciò che in Platone si trova nella forma del concetto. Vale a dire, hanno preso i miti di cui parla Platone come dei filosofemi, come delle asserzioni filosofiche certe e sicure. Il mito fa parte della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae a occuparsi del contenuto. Questo è il motivo per cui si usano i miti o gli esempi, le allegorie: un modo per attirare e mantenere l’attenzione su ciò che si vuole dire. Ma siccome in esso (il mito) il pensiero è contaminato da forme sensibili non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Il mito si appunta su cose immanenti: il dio, la montagna, il mare, l’oceano, ecc. Quando il concetto si è fatto maturo non ha più bisogno di miti. Spesso Platone afferma che siccome un determinato argomento è arduo, fa ricorso a un mito, la cosa certamente più agevole. Inoltre, parlando di concetti semplici ci dice che essi sono momenti dipendenti e transitori, che hanno la loro ultima verità in dio; e quando poi passa a trattare di quest’ultimo se la cava con una semplice rappresentazione. In tal modo si intrecciano e si confondono la forma della rappresentazione e la schietta speculazione. Questo è un problema che ha travagliato più gli interpreti di Platone di quanto possa interessare a noi. Non si trova in lui (Platone) alcuna traccia della cosiddetta modestia della coscienza nei riguardi di altre sfere, né dell’uomo nei riguardi di dio. Platone ha piena coscienza di quanto la ragione umana sia prossima a dio, col quale essa costituisce una cosa sola. Era già chiaro per Platone tutto quello che riguarda dio. Risulta qui evidente il lavoro che ha dovuto fare il cristianesimo per togliere di mezzo tutti questi aspetti per poterlo utilizzare, cosa che ha fatto anche con Aristotele, ovviamente. Questo si tollera in Platone, un antico che non rappresenta più niente di attuale. In un filosofo moderno invece darebbe motivo di grande scandalo. Per Platone la filosofia è il patrimonio più prezioso, è l’essenziale per l’uomo; essa soltanto l’uomo deve ricercare. A conforto di tutto ciò potrei citare numerosi passi, ma mi limito a uno del Timeo: la conoscenza delle cose più eccellenti incomincia dagli occhi… Questo è tipico greco: la vista, il fenomeno, ciò che si mostra, ciò che viene alla luce. …la distinzione tra giorno visibile e notte, dei mesi e i corsi dei pianeti ci han dato la nozione del tempo e l’indagine circa la natura dell’universo. Da ciò siamo pervenuti alla filosofia e mai venne e mai verrà donato da dio agli uomini un bene maggiore di essa. La filosofia, cioè, la capacità di pensare, di porsi domande. Per gli antichi la filosofia era questo, era il domandare. Ma noi sappiamo, dopo Nietzsche, di cosa è fatto veramente questo domandare. Quando lui diceva “Sì, certo, dagli antichi si è cercato il Bene supremo, l’essere, la verità. Tutte storie, si è cercata unicamente la volontà di potenza”. Si è cercato il potere, utilizzando queste cose, che erano nient’altro che strumenti, degli utilizzabili per raggiungere il potere. Dell’essere in quanto tale importa forse a qualcuno? Ora, qui accenna alla questione dello Stato, della Repubblica, da cui leggemmo il mito della caverna, di cui ci parlava Heidegger. In quest’opera Platone, dopo aver fatto esporre da Socrate i principi del vero Stato, lo fa interrompere da Glaucone, il quale chiede a Socrate di dimostrare come sia possibile l’esistenza di uno Stato siffatto. Lo Stato che presuppone e che mostra idealmente Socrate è lo Stato retto dai filosofi. Sappiamo che è una stupidaggine, i filosofi non sono governanti migliori di chiunque altro. Anche perché i filosofi non sono esenti dalla volontà di potenza, cosa che Platone ovviamente non poteva sapere, ma se avesse letto con più attenzione i sofisti, forse ci sarebbe arrivato. E, allora, che cosa fa Socrate? Si schernisce, non vuol sapere di venire a questo punto. Di fronte alla domanda concreta “Quindi, che dobbiamo fare?”, comincia a vagheggiare, a dire un po’ questo, un po’ quello, cerca di sviare il discorso sostenendo di non essere tenuto, dopo avere esposto ciò che è giusto, anche come dire come possa attuarsi il giusto nella realtà, doversi tuttavia indicare ciò per cui è possibile se non raggiungere la perfezione almeno di avvicinarvisi. Finalmente, messo alle strette parla: quand’è così lo dirò, anche a costo di rimanere sepolto da un fiotto di risate e di attestazioni di incredulità. O i filosofi debbono tenere il governo degli Stati o quelli che adesso vengono chiamati re dominatori debbono diventare veri e completi filosofi, sicché la filosofia e dominio coincidano. Interessante: filosofia e dominio coincidono. In effetti, è quello che ha sempre cercato di fare la filosofia: di dominare, dominare concettualmente gli enti. La fisica no, non può fare questo, si occupa di come funzionano, di come si misurano, dove vanno, come si muovono; mentre la filosofia riguarda il che cosa sono gli enti. Dunque, altrimenti, amico Glaucone, non finiranno mai le sciagure dei popoli né penso del genere umano in generale, e lo Stato di cui parlo non sorgerà mai né mai vedrà la luce del sole. Questo, soggiunge Socrate, è ciò che così a lungo ho esitato a dire, ben sapendo che è in grande contrasto con la comune opinione. Platone mette la seguente risposta in bocca a Glaucone: “Socrate hai pronunziato parole e detto cose tali che, come puoi immaginarti, una folla di uomini, e non dei peggiori, getterebbe il mantello e darebbe di piglio alla prima buona arma capitasse sotto mano, per fare impeto tutti insieme contro di te. E se tu non la calmerai con buone ragioni, ti attirerai qualche grosso guaio”. /…/ Senonché, la storia è l’idea che si realizza in modo naturale senza la coscienza dell’idea. Questo è Hegel. Certamente, si opera secondo pensieri universali di diritto, di uniformità al costume, di subordinazione alla volontà divina, ma è anche certo che operare è a un tempo attività del soggetto in quanto soggetto per conseguire scopi particolari. Questo è l’irriducibile della legge, del governo, cioè, il governo dà le idee universali, ma poi queste idee universali vengono messe in atto da persone, individui che seguono indirizzi particolari e soggettivi. Come dire che l’idea è quella di costruire un qualche cosa che non escluda ma sia al di sopra della volontà di potenza in modo da governare tutto quanto. Ma gli umani sono quello che sono, ciascuno di loro ha la sua volontà di potenza, anche il facchino vuole i suoi estimatori e, quindi, non riconoscerà questa super-volontà di potenza ma vorrà fare valere la sua. Nella realizzazione dell’idea, infatti, si mescolano pensieri e concetti con scopi mediati, particolari; soltanto da un lato essa è frutto di pensieri, dall’altro invece dipende da circostanze articolari, da azioni umane, che sono mezzi. Questi mezzi sembrano contrastare all’idea, ma ciò non consta. Difatti, tutti quegli scopi particolari e limitati sono piuttosto mezzi mediante i quali l’idea si realizza, poiché essa è la potenza assoluta. In tal modo l’idea si realizza nel mondo immancabilmente, non è tuttavia necessario che i governanti siano in possesso di essa. Qui c’è Hegel e la sua astuzia della ragione, cioè l’idea che qualunque cosa gli umani facciano o non facciano comunque la ragione, che è qualcosa che li trascende, andrà sempre a buon fine, andrà sempre là dove deve andare, cioè, verso il pensiero assoluto. Ma questo è Hegel che lo dice, di certo non lo dice Platone. La sostanza della dottrina delle idee consiste dunque nella convinzione che il vero non è già ciò che esiste sensibilmente, ma che soltanto l’universale determinato in se stesso, l’universale in sé e per sé è ciò che esiste nel mondo e che il mondo dell’intelletto è dunque il vero, ciò che è degno di essere conosciuto, in generale l’eterno, il divino in sé e per sé. Le differenze non hanno esistenza effettiva, sono solo puramente transitorie; tuttavia, l’assoluto di Platone, in quanto Uno in sé e identico con sé, è a un tempo concreto in se stesso, essendo un movimento che ritorna in sé, ed è un eterno essere presso di sé. L’amore per le idee è denominato da Platone entusiasmo. Capite bene che c’era in Platone una dialettica, appena abbozzata in Socrate ma evidente in Platone. Ma qual è il problema che rimarrà poi fino a Hegel? Che i due momenti della dialettica rimangono separati, non sono integrati nell’Aufhebung. La fonte da cui noi attingiamo la conoscenza del divino è la stessa che abbiamo già trovato additata da Socrate. Lo spirito umano contiene in se stesso l’essenziale e per apprendere e conoscere il divino deve limitarsi a trarlo fuori da sé e recarlo alla coscienza. C’è già tutto nella coscienza. La coscienza non è altro che il pensiero e, quindi, linguaggio. Bisogna sempre tenere conto che si usano dei termini in ambito filosofico che possono sviare se non si usano mille accortezze. La coscienza è il pensiero, è il pensiero che si accorge di sé; poi, il pensiero che torna su di sé, che pensa se stesso è l’autocoscienza, il pensiero pensante. Mentre nei socratici questa discussione intorno all’immanenza del conoscere nello spirito dell’uomo… Questo conoscere è nello spirito, nel pensiero dell’uomo. …tutto questo assumeva in generale la forma della domanda se la virtù potesse insegnarsi... Perché era da lì che si era partiti. Ricordate anche nel Teeteto letto da Heidegger, si partiva dall’ασθησις, dalla percezione. Si può insegnare qualche cosa se non c’è la percezione? Indubbiamente, no. …e nel Sofista Protagora si presentava come domanda se la sensazione sia il vero. Il che ha il più stretto legame così col contenuto della scienza come con la differenza di essa dall’opinione. Platone aggiungeva “l’educazione a codesto conoscere non essere un imparare in senso proprio”. Ciò che sembra apprendersi non è altro per lui che un ricordare. Su questo argomento Platone torna spesso ma lo tratta in particolar modo nel Menone, in cui egli afferma che in generale non si può propriamente apprendere nulla e che l’apprendere è piuttosto soltanto ricordare ciò che già possediamo, al quale ricordo l’imbarazzo, in cui viene gettata la coscienza, non fa che dare la spinta. Il metodo socratico darebbe questa spinta a ricordare ciò che già si sa. Non si tratta propriamente di un ricordo, non è che c’era già prima, ma c’è sempre stata la possibilità di sapere questa cosa. Ciò che sollecita lo spirito verso la scienza è questa apparenza e la confusione da essa provocata, per cui allo spirito la propria essenza appare come un altro, come il negativo di lui medesimo, un modo di apparire che contraddice la sua essenza. Questo è interessante perché dice: Ciò che sollecita lo spirito verso la scienza. Si presenta come un Io al quale è contrapposto un non-Io. Ora, questo non-Io è il negativo dell’Io. Naturalmente, non c’è l’Io senza il non-Io. Però, se si tengono separate le due cose, come è accaduto sempre, allora il non-Io è ciò che mi ostacola, ciò che devo dominare. È il negativo dell’Io, di me, è ciò che io non sono; sarebbe il complemento booleano di me: ci sono io e poi tutto l’universo che non sono io. Non ci si può sbarazzare di questo non-Io, non si può controllare, dominare. Il non-Io come ciò che appare, gli enti. Dominare gli enti, attraverso che cosa? Attraverso la loro aritmetizzazione – e arriviamo fino a Galilei – li trasformiamo in calcolo, li calcoliamo e in questo modo li dominiamo, sappiamo dove vanno e come vanno, per cui riesco a dominare questo non-Io, cioè il mondo. Ma ricordate cosa dice Heidegger: senza il mondo non ci sono nemmeno io. È questo il problema fondamentale. Adunque, il pensiero è questo alcunché di imperituro… Il linguaggio non muore. …che in tutte le mutazioni resta preso di sé… Curioso anche questo accorgersi che il linguaggio rimane sempre presso di sé. Il linguaggio, certo, c’è e costruisce infinite cose diverse tra loro, ma lui, il linguaggio, rimane presso di sé, non può uscire da sé. …l’anima è questo conservarsi in altro, per esempio nella intuizione che ha a che fare con altro, con materia esteriore, e tuttavia continua a rimanere presso di sé. Io posso pensare qualunque cosa ma il mio pensiero rimane sempre mio pensiero, che rimane presso di sé. In Platone l’immortalità dell’anima non ha l’interesse che noi le attribuiamo per motivi religiosi, essa è connessa piuttosto con la natura del pensiero con questa interna libertà di esso, quindi, con quella determinazione che costituisce la base di ciò che la filosofia platonica presenta di più eccellente, con quel terreno sovrasensibile che Platone ha fondato. Perciò, anche per lui l’immortalità dell’anima ha una grande importanza. È l’immortalità del pensiero, cioè, l’essere del pensiero sempre identico a sé: questa è l’immortalità dell’anima. Sicuramente usa il termine ψυχή, ma bisogna vedere bene cosa evocava per il Greco antico questa parola, sicuramente nulla aveva a che fare con ciò che si intende oggi. Originariamente, ψυχή era il soffio, ψυχαί erano i morti, gli spiriti. Poi, ψυχή è stato ripreso da Anassagora con un significato più ampio, per cui non è più soltanto gli spiriti dei morti ma lo spirito dei vivi, il loro pensiero. In questa separazione (anima e corpo) vediamo l’essenza dell’anima riguardata non già in maniera d’essere che sarebbe quella di una cosa, ma come l’universale; più ancora poi in quel che segue, dal modo cioè in cui Platone dimostra l’immortalità. Con uno dei pensieri principali… Loro avevano delle intuizioni straordinarie: il pensiero è immutabile, è sempre presente a se stesso; quindi, l’anima, cioè il pensiero, è immortale. Il problema sorgeva quando dovevano dimostrarlo – ci provavano, naturalmente, sia Platone e ancor più Aristotele – ma è lì che sorgono i problemi. Pensate a Zenone: certo che lo vedo che Achille sorpassa la tartaruga, lo vedo io come lo vedono tutti, non c’è nessun problema a notarlo, ma concettualizza la cosa e poi provalo! E lì diventa un problema. E, allora, vediamo che Platone fa ricorso ai miti. Quando si trova nell’impiccio li tira fuori come sorta di deus ex machina, come nelle tragedia greca, allorquando l’autore si trova in difficoltà per risolvere il problema, ecco che arriva il dio, trascinato dal macchinario, e risolve lui il problema: da qui il termine deus ex machina. Il grande insegnamento di Platone è che il contenuto vien riempito soltanto dal pensiero… Cioè, si accorge che il significato, il contenuto, è un pensiero. Infatti, esso è l’universale, che può essere colto soltanto mediante l’attività del pensare. Questo contenuto universale Platone lo ha determinato appunto come idea.