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21 giugno 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Proseguiamo la lettura di Heidegger, ha ancora molte cose da dirci. Siamo verso la fine e l’ultima parte sarà molto importante perché la dedica alla lettura della Fisica di Aristotele, che noi leggeremo con molta attenzione perché la fisica, così come ne parla Aristotele, ha poco a che fare con la fisica come è pensata oggi. La fisica, come è costruita e pensata oggi, è una sorta di aritmetizzazione della fisica di Aristotele, cosa che a lui non interessava. Heidegger ci ha detto delle cose interessanti e una tra queste è che è la paura che fa parlare. Ma paura di che? Dice qualcosa, ma non va molto oltre. Noi, invece, possiamo dire in che cosa consiste questa paura: è la paura di non essere importanti. Ed è questo che fa parlare, che fa affermare le cose allo scopo di affermarsi, che generalmente è un affermarsi sull’altro. Si accorge, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, che è questa emotività a mettere in moto tutto quanto, cioè, l’emozione connessa con la volontà di potenza, con la soddisfazione della riuscita, con il sentirsi potenti, importanti. A pag. 290. Se i πάθη non sono soltanto un annesso dei processi psichici, ma costituiscono il terreno da cui nasce e si sviluppa il parlare e al cui interno cresce a sua volta ciò che parlando è stato espresso, allora essi sono le possibilità fondamentali in cui l’esserci si orienta primariamente riguardo a se stesso, si trova situato. Dunque le emozioni, dice lui, sono il terreno da cui nasce e si sviluppa il parlare; un parlare che, essendo mosso da queste emozioni, è un parlare che rimane in quelle emozioni, cioè, le emozioni non fanno altro che confermare se stesse: se qualcuno è soddisfatto di qualche cosa il suo discorso verrà costruito in modo tale da confermare che le cose sono proprio così come aveva pensato e, quindi, la sua soddisfazione è autentica, giustificata dagli eventi. Tale primario essere orientato (delle emozioni), la chiarificazione del proprio “essere nel mondo”, non è un sapere… Non è la logica che muove, la logica non muove niente, non muove neanche se stessa. La logica è soltanto uno strumento per confermare che le cose sono così come le mie emozioni mi fanno vedere, che la mia soddisfazione mi fa vedere. …ma un sentirsi-situato, che può essere determinato in modo diverso a seconda del modo di esserci di un ente. Solo all’interno di un sentirsi-situato ed “essere nel mondo” così caratterizzato è data la possibilità di parlare delle cose spogliate dell’aspetto che hanno nella pratica più quotidiana. Nasce così la possibilità di pervenire a una determinata oggettività, che in un certo senso fa passare in secondo piano il modo di vedere il mondo prefigurato dai πάθη. Solo se si vede l’esserci in questo modo si possono mettere da parte i πάθη. Solo in base a quanto detto fin qui si può comprendere quanto fosse difficile per i greci – che erano per così dire innamorati del λόγος – sottrarsi al dialogo e alla chiacchiera per pervenire a un’oggettività, e che è ingannevole ritenere in genere la Grecia un paese della cuccagna dove ogni giorno si scopriva qualcosa di nuovo, come se a questi grandi uomini le cose piovessero dal cielo.

Intervento: …

Lui mette in correlazione l’oggettività con la sospensione del πάθος. Il problema è che questo πάθος non può essere sospeso, posso pensare di sospenderlo, ma con che cosa? Con un altro πάθος, con un’altra emozione, con un’altra sensazione, e cioè con l’idea che se sospendo l’emotività allora posso sapere come stanno veramente le cose e raggiungere l’oggettività o l’obiettività, che sono la stessa cosa. Naturalmente, il raggiungimento di tale obiettività è una cosa che dà un’emozione, quindi, per togliere l’emozione devo prima considerare che voglio togliere questa emozione per provarne un’altra. Per questo dicevo che non si toglie l’emozione, non si toglie la soddisfazione perché non si toglie la volontà di potenza, in nessun modo, perché la volontà di potenza è linguaggio. Siamo riusciti a portare a una certa conclusione la nostra analisi della paura. Non bisogna dimenticare che nella Retorica i πάθη sono concepiti come πίστειςI πίστεις sono quegli strumenti che consentono di dominare il prossimo, e la paura si sa che è il sistema più pratico per controllare le persone, ché più hanno paura e più sono controllabili; fino a un certo punto però, perché se danno di matto allora non sono più controllabili, quindi la paura va mantenuta ma sempre a un livello controllato. …nella misura in cui parlano a favore di un’opinione che guida la vita in comune dei cittadini della πόλις. Guardate che se fate così succederà un malanno tremendo! Come diceva un nostro primo ministro, “se non vi vaccinate morirete e farete morire gli altri!”: ecco, questo è un uso della πίστις a scopo politico. Le πίστεις così intese sono ciò “da cui e in base a cui viene di volta in volta assunta la premessa di ciò che è noto”. Lui la pone in termini retorici, quindi, si riferisce grosso modo all’utilizzo sociale, politico della retorica, ma si può considerare in modo più interessante come ciascuno utilizza questo sistema, come dire che se faccio questo mi succederà senz’altro questo malanno, quindi, non lo devo fare; e, quindi, questo suo tornaconto è ciò che viene messo come premessa di ciò che è noto.

Intervento: πίστις era anche il nome di una dea, la dea dell’affidabilità.

Letteralmente πίστις è la fede. Heidegger ci ha suggerito di non considerarla così ma come tutto ciò che si dice, che si fa per ottenere fede da parte dell’altro. I πάθη sono caratterizzati dalla ἡδονήLe emozioni sono caratterizzate dalla soddisfazione. …contrassegnano il trovarsi di volta in volta situato dell’esserci nel suo mondo. L’analisi del φόβος, nonché dei πάθη in generale, li considera in quanto determinazioni di colui che ascolta. Questo nel caso del discorso retorico. Chi ascolta deve provare la paura e la soddisfazione nell’accogliere il rimedio al malanno che incombe: io minaccio e poi suggerisco la via per uscire da questo pericolo. E questo è il modo per ottenere una fede, una πίστις più salda: guarda che bravo, mi fa vedere il pericolo ma mi fornisce anche la soluzione. La δόξα quindi – alla cui formazione contribuiscono i πάθη – contraddistingue l’“essere già interpretato” dell’esserci nella quotidianità. Qui inserisce una questione interessante: la δόξα come il già interpretato. È ciò che è già conosciuto, che non richiede quindi un’ulteriore interpretazione, è così: gli antichi dicevano così, quindi, è così! Il che non è nient’altro che ciò che diceva Aristotele rispetto al vero: da dove partiamo? Da quello che dicevano gli antichi, i saggi, i migliori e lo prendiamo per buono, per vero, e da lì partiamo. Questo perché sapeva bene che da qualche parte bisogna pur partire. Dunque, l’essere già interpretato. È così che si manifesta la δόξα, l’opinione: uno ha un’opinione perché muove da cose che sono già state interpretate e, quindi, non ha bisogno di ulteriori indagini, è così perché tutti pensano così e, pertanto, va bene così. Nell’“avere-lì in comune il mondo”, la κοινωνία, l’“essere l’uno con l’altro”, è un condividere determinate δόξαι (opinioni)… Noi siamo nel mondo in quanto condividiamo una serie di δόξαι. Viviamo in mezzo a queste opinioni e le condividiamo a seconda del posto in cui si vive, delle usanze, delle tradizioni, ecc. …che riceve il proprio orientamento in base al modo in cui l’esserci in quanto tale parla di volta in volta di se stesso. A pag. 292. Di solito e per lo più gli uomini si trovano – implicitamente o esplicitamente – nell’όμιλια (raccontare qualcosa di familiare, di noto), che può avere il carattere 1. dell’άλαζών, o 2. dell’εϊρων. Άλαζών è colui che si dà un sacco di arie, il millantatore: “colui che parla di sé attribuendosi ciò suscita generalmente grande considerazione”. Si riallaccia un po’ a ciò che dicevamo prima: si parla per la paura di non essere importanti e, quindi, che cosa si fa? Si millantano cose che si ritiene per gli altri essere importanti. Si tratta di una ἓξις: innanzitutto e per lo più l’uomo si comporta come άλαζών, è propenso a dire ciò che stimola l’ammirazione di tutti, ad attribuire a se stesso ciò “di cui non dispone affatto”, o “cose più grandi o importanti di quelle che sono alla sua portata” – insomma a millantare se stesso in modo da nascondere il suo essere autentico: non è un uomo tale da mostrare apertamente ciò che veramente è. Ammesso che lo sappia. Qui dice una cosa interessante, dice che gli uomini fanno così. È vero, ogni volta che ciascuno pensa come stanno veramente le cose ed è sicuro che le cose stanno così, fa questo: è un millantatore, cioè, millanta a se stesso una conoscenza che non ha né può avere, però gli piace pensarlo e soprattutto gli piace che altri lo pensino di lui. Come dicevamo l’altra volta: credersi dio e fare in modo che altri lo pensino. L’altra possibilità è caratterizzata dall’εϊρων: “colui che nega ciò che è, che non ammette il proprio essere così come lo si vede direttamente, anzi lo sminuisce” – Socrate, che faceva mostra di non sapere nulla, mentre ne sapeva più degli altri. Sono due forme, dove nella prima millanto un sapere, che tutti devono riconoscere per forza; nella seconda apparentemente lo sminuisco, cioè lo maschero, sapendo però che io so, quindi si fa forte tra sé e sé di questa posizione, che ritiene quella giusta, quella vera. In fondo, è quella figura, per richiamare Hegel, dell’anima bella. L’anima bella si sminuisce ma in cuor suo sa perfettamente qual è la verità, come stanno le cose. Sono, in fondo, le due facce della stessa cosa: ciascuno dei due millanta un sapere che non ha né può avere. L’εϊρων ha possibilità buone e cattive. Il giusto mezzo è l’essere “veritiero”, “non simulato”, ciascuno parla e agisce così com’è. Il problema è che ha appena detto com’è: è una o l’altra, quindi, entrambe le cose, è questo che è ciascuno. Vedete come opera il λόγος nell’“essere nel mondo”, l’intima connessione e sussistente tra il λόγος e l’essere nel mondo;… Senza il λόγος non siamo nel mondo. …al tempo stesso, è chiaro che il non essere nascosti, che nell’“essere per altri”, è caratterizzato dall’ἀλήθεια, più precisamente dall’άληθεύειν in quanto ἓξιςάληθεύειν da intendersi come un “poter esser-ci non-nascosto”. Questo è il modo in cui Heidegger traduce άληθεύειν: un poter esserci non nascosto. Lui insiste sulla questione retorica, certo, però si può considerare qualcosa di più, qualcosa che teoreticamente può essere preso in considerazione, e cioè il fatto che gli umani sono così, cioè, necessariamente devono pensarsi di più, quindi, credersi dio. Uno lo esibisce, l’altro si schernisce, ma in fondo è la stessa cosa. Voi credete che io sia chissà che cosa; no, io non lo sono; voi poveretti, mentre io che so come stanno veramente le cose posso anche permettermi di essere indulgente nei vostri confronti.

Intervento: È l’anima bella he si comporta così.

È la figura dell’anima bella quella che lui chiama εϊρων, quello che dissimula il suo sapere, la sua arroganza: è più infingardo. L’altro, άλαζών, invece la esibisce, rendendosi così magari inviso ai più: ma chi si crede di essere quello! L’εϊρων no, è più subdolo ma vuole ottenere la stessa cosa. Il mondo in quanto mondo naturale. Finora abbiamo caratterizzato l’esserci dell’uomo come “essere nel mondo”,… Essere nel mondo è l’uomo, e l’uomo è tale perché è nel mondo, che sappiamo cosa condivide, condivide le opinioni. È questo che crea la κοινωνία, la comunità: l’avere in comune delle opinioni, delle credenze, delle superstizioni, ecc. …determinando anzitutto il mondo stesso tramite gli elementi d’incontro dell’άγαθόν (il bene). Che cosa abbiamo in comune tutti quanti noi? L’idea, anche se vaga, di sapere che cos’è bene e che cosa è male: questo è ciò che ci accomuna. In fondo, è la religione, che dice che cosa è bene e cosa è male ed è ciò che accomuna tutti. Sono una comunità perché condividono queste opinioni, sanno che cosa è bene e cosa è male. Che poi trasgrediscano è un altro discorso, però sanno che cosa è bene e cosa è male ed è questo che condividono e che li tiene uniti. Il carattere ontologico del mondo con cui abbiamo a che fare si determina in quanto ένδεχόμενον ἂλλως (qualche cosa che continuamente muta), ed è quindi da intendersi come più o meno sottoposto al mutamento. In questo mondo-ambiente, cioè nel mondo in cui ci diamo da fare nel nostro prenderci cura, si mostra nel contempo il mondo in quanto natura. La natura non è un ambito ontologico che starebbe accanto a questo mondo, ma è il mondo stesso, così come esso si mostra, in un modo determinato, nel mondo-ambiente, caratterizzato dal fatto che il mondo in quanto natura è quell’essere che, per il nostro “essere nel mondo” nell’avere a che fare quotidiano, si mostra in quanto esserci già sempre: sui mari si naviga, nei fiumi si pesca. Qui torna a sottolineare, anche se non lo dice in modo esplicito, il che cosa si condivide: si condividono delle δόξαι, delle opinioni, delle credenze comuni, per cui nei mari si naviga, nei fiumi si pesca, nella terra si piantano i fagioli, ecc. la quotidianità del produrre è sempre un produrre in base a qualcosa presso cui ci si rifornisce, per esempio la miniera, il bosco, e così via. Tutto ciò di cui la vita quotidiana necessita, essa ce l’ha ed esiste nella natura. Quindi, che cos’è la natura? La natura è ciò che è già lì da sempre. Naturalmente, questo “ciò che è già lì da sempre” bisogna pensarlo, ma è ciò che consente l’orientamento. “Ciò che è già lì da sempre” può costituire la premessa maggiore di ogni sillogismo. La premessa maggiore di ogni sillogismo è quella cosa dà forza, che dà vita a tutte le argomentazioni e la natura si presta a questa cosa, perché la natura, essendo lì da sempre, fornisce l’idea di qualcosa di necessario, di universale. Quando si costruiscono le proprie argomentazioni, di qualsivoglia tipo, si opera in questo modo, cioè, si costruisce un’argomentazione a seguito di una premessa maggiore considerata naturale, che è così perché le cose sono così. Da qui il richiamo a Guglielmo di Ockham: chi garantisce la premessa maggiore? Dio, che poi con Spinoza diventa la natura (Deus sive natura). Ma c’erano già i prodromi di tutto ciò. Come dice Aristotele: la natura come garanzia, perché c’è sempre stata e, quindi, continuerà a esserci. È importante rendersi conto che la natura non è primariamente qualcosa come un oggetto d’indagine scientifica. Dopo lo diventerà, quando si incomincerà ad avere la velleità di matematizzare ogni cosa. Cosa che era già presente in Aristotele che voleva categorizzare tutto quanto, dopo invece è diventata la necessità di matematizzare tutto quanto, cioè di calcolare tutto. Ma originariamente non aveva questa esigenza. La natura è l’esserci già sempre del mondo. Domanda: come lo so? C’è e basta, non si deve chiedere oltre. Il fatto di pensare che ci sia già da sempre è ciò che consente di utilizzarla come premessa maggiore, certa e sicura. L’alternarsi di giorno e notte torna sempre a ripetersi, e lo stesso accade per il corso del sole e delle stelle. Nel mondo che mi circonda c’è il terreno su cui cammino, c’è l’aria, la cui presenza, per così dire, mi aspetta. È così che il mondo va inteso, se si determina l’essere nel mondo come un avere a che fare con esso. In questa esperienza dell’esserci il mondo viene visto come ciò che è sempre, e ciò che può anche essere altrimenti. Come è fatto il mondo con cui abbiamo a che fare? È fatto così: voi uscite di qui e vi aspettate che fuori dell’androne ci sia la strada, per esempio. È una certezza? La usiamo come una certezza per poterci muovere nel mondo. Siamo costretti continuamente a compiere questa operazione di cui dicevamo prima, e cioè a millantare un sapere che in realtà non abbiamo. Ciò che propriamente è “sempre essente”… Il famoso άεί ὅν, l’ente che è sempre. …e che non necessita di essere prima cercato a lungo per orientarsi naturalmente nel mondo, è il cielo. Il cielo greco, e il mondo, debbono essere intesi come una volta in cui il sole sorge e tramonta. Le occupazioni pratiche dell’uomo si svolgono nel luogo intermedio, nel μέσον. La terra è il centro di orientamento per orientarsi nel mondo, un orientarsi che non necessita di essere teoretico, nulla che abbia a che fare con le scienze naturali. È quello che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, il mondo in cui ci orientiamo quotidianamente e di cui non teniamo minimamente conto nel nostro muoverci continuamente, è dato per acquisito, per scontato, è così, ma è una certezza che non ha nessun fondamento. D’altra parte, nessuna certezza ha alcun fondamento, è così che funziona la certezza, perché se la si interroga, ecco che vacilla; se, invece, non la si interroga la certezza funziona. Questo sistema di orientamento è assoluto. Non vi è nulla rispetto a cui il mio esserci sarebbe relativo. Il mio esserci è qui, in questo mondo, è fatto di questo: noi siamo fatti di queste cose cui crediamo e che ci consentono di muoverci nel mondo, noi siamo questo. C’è solo un esserci, l’esserci sulla terra in quanto centro assoluto di orientamento. Per Aristotele si danno tre movimenti fondamentali: centrifugo, centripeto, circolare. Tutto ciò che è nel mondo è il κόσμος. L’ente in quanto κόσμος è caratterizzato dalla presenza attuale di ciò che “ci” è già sempre, παρουσία. Παρουσία: ciò che si mostra da sempre, ciò che è sempre presente, sottomano, per esempio la terra su cui cammino. Ogni ente nel suo essere è determinato dal fatto di essere πέρας, “ciò che è diventato finito”… Ciò che ci circonda deve essere finito; solo in quanto finito è utilizzabile. Noi siamo circondati, immersi in un tutto, in un κόσμος, di finitezza, di cose finite, perché soltanto se sono finite le posso utilizzare; se fossero πειρον cesserebbe la loro utilizzabilità, perché sarebbero senza limite, senza confine. …che ha i suoi limiti – dove il “limite” non è determinato, al contrario il “limite” qui è in sé un elemento ontologico implicito nell’ente, πέρας è il suo luogo, il suo posto, il suo essere-prodotto, l’essere al suo posto. Ogni cosa occupa il suo posto e in questo modo mi oriento, perché so che ogni cosa è al suo posto, è finita. L’ente che si muove nel κόσμος ha di volta in volta determinati limiti peculiari del suo movimento, ha cioè il suo luogo. Il luogo è una determinazione positiva dell’essere. Il luogo appartiene all’ente in quanto tale. Con il concetto di “campo” la fisica odierna non fa che tornare a questo punto. Passiamo alla Parte Seconda, Ripetizione dell’interpretazione dei concetti aristotelici fondamentali in base alla comprensione della fondatezza della concettualità. La concettualità è importante. Il concetto, il concepito è il pensato, ciò che è pensato e che costituisce una sorta di orientamento: i concetti sono ciò che orientano il mio pensiero, i miei pensati, che naturalmente vengono costruiti in base alla δόξα. A pag. 297. L’analisi dell’esserci dell’uomo in quanto “essere nel mondo” è stata condotta a una certa conclusione. L’essere nel mondo ha il carattere fondamentale del suo essere nel λόγος. Il λόγος domina incontrastato l’essere-in. Nel λόγος è custodita la modalità peculiare in cui il mondo, e l’esserci nel mondo, sono scoperti, dischiusi. Il λόγος dispone dell’essere di volta in volta scoperto e dischiuso nel mondo. È esso a offrirci le direzioni in cui l’esserci può interrogare il mondo e se stesso. Con quale intento ci siamo posti il problema del modo in cui il mondo, e l’esserci dell’uomo al suo interno, vengono interrogati? Ci siamo chiesti quale sia la fondatezza della concettualità, con l’intenzione di comprendere la concettualità in quanto tale. Cioè, chiedersi che cos’è un concetto, come si forma, da dove viene. Questo perché solo ella concettualità ogni concetto può essere compreso in ciò che è. Se è compresa la concettualità, si dà anche il filo conduttore per cogliere concetti concreti. A pag. 298. Abbiamo descritto la concettualità in base a tre elementi: 1. l’esperienza fondamentale obiettiva. Ciò che vedo. 2. determinata dall’appello primario. L’appello primario, cioè, a che cosa mi serve. 3. tramite la comprensibilità dominante. La comprensibilità dominante è la δόξα, tutto ciò che ho imparato, che suppongo di sapere, tutte le certezze che credo di avere, ecc., per cui le cose, come si diceva prima, sono già interpretate, sono già così, perché è così che si dice, che si pensa, che si crede. La questione relativa alla fondatezza della concettualità si concentra nella domanda: dove e come i tre caratteri or ora nominati hanno il loro essere, in modo tale da essere possibili in questo stesso ente, da scaturire e da svilupparsi da esso, costituendo di per sé una sua specifica possibilità? Come si connettono tra loro questi tre elementi? Io vedo qualcosa, mi chiedo a cosa mi serve, ma il chiedermi a cosa mi serve muove da qualche cosa che è comune, che è diffuso, che ho imparato dalla chiacchiera, dal si dice, dal si pensa. La risposta alla domanda circa la fondatezza della concettualità deve individuare un ente che abbia la peculiarità ontologica di rappresentare in sé tutti e tre questi caratteri. Con questo scopo si è spiegato l’esserci, l’esserci in riferimento al suo essere. La spiegazione è stata impostata in modo tale da farne già pervenire al linguaggio alcuni concetti fondamentali. Tali concetti sono pervenuti al linguaggio per servire anzitutto a rendere visibile e comprensibile l’esserci in quanto possibile terreno dei concetti fondamentali stessi. Se non c’è l’esserci, se non c’è l’uomo, non ci sono neanche i concetti. L’interpretazione autentica si dà nel giusto modo solo se si compie nel terreno della concettualità esplicita, se l’interpretazione viene ripetuta dopo che il terreno è stato compreso. Emerge così un principio ermeneutico generale, secondo cui ogni interpretazione è autentica solo nella ripetizione. Cioè, solo se posso ripeterla. Io interpreto qualcosa e poi, in base a ciò che accade rispetto a questa interpretazione, riformulo questa interpretazione e accolgo ciò che è accaduto nell’interpretazione precedente. È una sorta di aggiustamento, vale a dire, io interpreto qualcosa ma questa interpretazione appare corretta nella sua ripetizione, perché se io interpreto un evento e questo evento non si ripeterà mai più, la mia interpretazione non funziona, resta un’ipotesi che vale quello che vale. È un’interpretazione quando io stabilisco che ogni volta si ripete in un certo modo e allora interpreto gli eventi correttamente. Per mettere in evidenza la fondatezza della concettualità, si è caratterizzato l’esserci: 1. L’ente così caratterizzato è, nel suo essere, la possibilità del concettuale? La possibilità del concettuale sta nell’esserci, sta nell’uomo, nel fatto che parliamo. Se non parlassimo non avremmo concetti. 2. Come l’esserci dell’uomo in quanto “essere nel mondo” è questa possibilità? Cioè: come fa l’uomo a crearsi concetti? Ad 1. Qui il termine “possibilità” va inteso come l’essere-possibile nel senso del carattere ontologico dell’ente di cui si parla, non in quello della vuota possibilità che si attribuisce all’esserci dall’esterno, tanto che ci si può chiedere se esso ne sia davvero capace. Se infatti la concettualità è radicata nell’esserci,… Cioè: se c’è l’uomo ci sono concetti, cioè, se si parla ci sono concetti, perché si parla attraverso concetti, attraverso pensati. …questo stesso esserci dev’essere, in un certo senso, la concettualità,… L’esserci è già un pensato. Per potere dire che io ci sono, devo pur avere pensato qualcosa, non è che piove così dal cielo. …dove peraltro non è necessario che la concettualità in quanto tale sia già esplicitata nei suoi elementi: essa può essere data implicitamente. Passiamo quindi a dimostrare anzitutto che la concettualità è di fatto implicita nell’esserci. Sta dicendo una cosa importante. La concettualità non è qualcosa che si aggiunge, ma è già nell’esserci, è già nel λόγος, è già nel dire: non c’è dire senza concetti. Potremmo dire che i concetti sono ciò che orienta. a) Per quanto riguarda l’esperienza fondamentale obiettiva:… Vedo Cesare. Ecco questa è un’esperienza fondamentale obiettiva. …essa è l’esperienza nella quale un ente viene determinato in riferimento al suo aspetto primario, in modo tale che tutto il resto viene creato e caratterizzato nel suo essere in base a questa visione fondamentale. Io vedo Cesare, mi faccio un’idea della forma, e in base a questo costruisco una serie di considerazioni. Ogni ente in quanto esserci è un ente che si mostra come lì presente. “Essere nel mondo” significa in certo modo avere-lì il mondo. Io sono nel mondo perché ce l’ho qui, ce l’ho sottomano, ce l’ho a disposizione. È questo il significato di “essere nel mondo”: ce l’ho a disposizione, cioè il mondo diventa un utilizzabile. Non solo il mondo viene avuto, ma anche l’esserci ha se stesso nel sentirsi-situato. Cioè, io “mi ho” nel senso che sono situato in un certo modo, per esempio sono contento o sono arrabbiato. L’essere nel mondo è caratterizzato dalla situatività. Ciascuno è nel mondo i quanto situato emotivamente. Non è possibile essere nel mondo senza essere situati in un qualche modo, senza cioè essere soddisfatti o insoddisfatti. Ciascuno di volta in volta è situato in questo modo: o è soddisfatto o è insoddisfatto. Non ci sono altre possibilità. L’esserci ha se stesso: non riflesso, nel sentirsi-situato si dà la modalità primaria dell’“aversi-lì”. /…/ …il mondo e la vita per così dire ci sono già, sicché l’esperienza fondamentale obiettiva in quanto esserci-già ha essa stessa la possibilità di un dar-si. Può darsi perché c’è già, potremmo dire, perché c’è già da sempre. È questo anche il senso di ciò che dice Heidegger quando dice che ciascuno nasce nel linguaggio, è già dentro nel linguaggio ancor prima di nascere, è già lì, con tutte le δόξαι, con tutte le opinioni, con tutte le credenze, con tutte le fantasie di cui ciascuno è fatto. Quindi, questa sarebbe l’esperienza fondamentale obiettiva. Questa esperienza io posso farla perché c’è il linguaggio, cioè, perché c’è già lì un mondo che mi aspetta e con il quale io ho a che fare. Ed è perché c’è già lì questo mondo che mi aspetta, nel quale io mi trovo, che vedo il mondo. b) L’appello primario: con questo si intende ci in vista di cui ci si rivolge a un ente. In ultima analisi, all’ente ci si rivolge sempre in vista del suo essere. È esattamente la stessa cosa che dice de Saussure quando dice che non c’è significante senza significato, cioè il significante appare in vista del suo significato, non c’è l’uno senza l’altro. In ogni interpretazione naturale dell’ente è primario un determinato senso dell’essere, che non ha bisogno di essere esplicitato in termini categoriali, anzi esso ha il suo essere effettivo e il suo dominio proprio quando rimane implicito. Cosa intende con interpretazione naturale dell’ente? Quello che si intende comunemente: il medio, il pensiero comune. È lì che è primario un determinato denso dell’essere, che non ha bisogno di essere esplicitato. È un po’ come la premessa maggiore nel sillogismo: è data come acquisita, non c’è bisogno di indagare oltre, è così perché è così, lo sanno tutti da sempre e che ciascuno di noi in qualche modo ha fatto suo. Certo, c’è la possibilità di interrogarlo, ma generalmente non lo si fa, perché interrogarlo significa rischiare di perdere la possibilità di utilizzare una premessa maggiore ben consolidata e, soprattutto, comune a tutti. In questa interpretazione dell’esserci, essere significa: essere attualmente presente, essere finito. È chiaro che per essere utilizzabile l’ente deve essere presente, deve essere finito. L’ente non si limita a esser-ci nel suo aspetto, giacché il carattere ontologico è anch’esso esplicito nel senso dell’essere esplicito del vedere, considerare, discutere quotidiani. Questo sarebbe l’in vista di cui ci si rivolge a un ente, come qualcosa di presente e di utilizzabile, cioè, ci si rivolge a un ente in quanto utilizzabile. Quindi, di nuovo, lo vedo, è lì, a cosa mi serve? c) La comprensibilità dominante. L’“essere l’uno con l’altro” è completamente dominato dalla δόξα: ogni parlare è orientato in vista della possibilità di portare in una determinata notorietà ciò che è problematico e incomprensibile. Ogni parlare punta a dominare le cose, cioè, portare al noto ciò che appare come ignoto, per controllarlo, dominarlo, che generalmente si traduce nel sapere che cos’è. L’esserci implica di per sé una determinata pretesa nei confronti di ciò che in senso proprio è noto:… Dice che l’uomo ha questa pretesa nei confronti di ciò che è noto. …nella sua interpretazione esso è completamente dominato da una determinata idea di evidenza… Pensate alla premessa maggiore: dominata da un’assoluta certezza, che è evidente, che è così per tutti e non può essere altrimenti. Tenete conto che sono tutte queste cose ciò di cui gli umani sono fatti …che è sufficiente per l’esserci in quanto tale,… Tutti dicono che va bene così, quindi, va bene così anche per me. …un’evidenza in base alla quale si normalizza il senso scientifico dell’evidenza… Anche l’evidenza scientifica è fatta della stessa cosa. È evidente perché chiunque, sano di mente, posto in questa situazione e opportunamente addestrato, riconoscerebbe come evidente questa conclusione, per esempio. … le varie dimostrazioni, il rigore della dimostrazione. È un’idea di evidenza, ma è un’idea, che serve a normalizzare, cioè a rendere noto, a rendere dominabile, dominato. La notorietà costituisce il criterio della comprensibilità che ha il λόγος, il quale parte dall’ἒνδοξον e vi fa ritorno. Cosa importante. Ciò che è noto è il criterio della comprensibilità. È il λόγος che ci consente, a questo punto sarebbe doveroso dire, di fare quella cosa che noi chiamiamo comprensione. E questa parte dall’ἒνδοξον, dalla credenza e vi fa ritorno. Parte dalla credenza, comincia a calcolare, misura tutto quanto e ritorna in quanto crede di avere con questo stabilito che cos’è quella cosa, quindi, torna nell’ἒνδοξον, nella credenza. Ad 2. In modo più preciso dobbiamo chiederci come questo ente caratterizzato in quanto esserci possa dare a se steso una forma compiuta tale che ne emerga la concettualità. Sappiamo già che l’esserci dell’uomo è caratterizzato dalla προαίρεσις (decidersi per). Un “decidersi” è sempre determinato dal fatto di decidersi contro qualcosa,… Se io decido, questa operazione è contro qualcosa. L’etimo stesso della parola de-cidere è tagliare via. Questo –cidere è presente anche nelle parole uccidere, incidere, coincidere, ecc. …sicché probabilmente anche la formazione della concettualità scaturisce da un essere dell’esserci tale da contrapporsi proprio alla concettualità stessa: l’essere dell’essere-possibile della concettualità può venire quindi caratterizzato in un duplice senso come possibilità: nel senso della possibilità 1. di ciò da cui la concettualità può formarsi come dalla sua opposizione… Io decido tra due, quindi ne scarto uno, l’opposizione. …2. di ciò per cui e in vista di cui l’esserci può formarsi nel concepire la concettualità. Quindi, decido in base a un’opposizione, e quale accolgo? Ciò per cui e in vista di cui l’esserci può formarsi nel concepire la concettualità, cioè in base al suo utilizzo: decido per ciò che mi è utile. Ma utile per che cosa? Tutte le precedenti pagine lo hanno descritto bene: per l’ήδονή, per la soddisfazione. In base a questo orientamento dovremo descrivere il movimento, poiché avremo modo di conoscerlo come una determinazione dell’ente, e per la precisione dell’essere-vivente, a partire dalla quale deve prendere le mosse ogni ulteriore considerazione ontologica. Κίνησις: filo conduttore per la spiegazione dell’essere dell’esserci dell’uomo. Il movimento è relazione, la relazione è linguaggio. Tutte queste cose è come se dicessero la stessa cosa.