M. Heidegger, Essere e Tempo
21 giugno 2017
C’è un aspetto in Heidegger che potremmo precisare, riguarda la pre-comprensione. La pre-comprensione comporta il fatto che ciascuno è già da sempre nel mondo, quindi, ciò che incontra è in qualche modo già compreso, prima ancora che possa considerarlo, valutarlo, ecc., cioè, è già un qualche cosa. La questione, posta come la pone Heidegger, è abbastanza farraginosa, però, noi possiamo considerare la pre-comprensione come il linguaggio, in cui ciascuno nascendo si trova. Ora, ogni volta che pensa qualcosa, che fa qualcosa, questa cosa che pensa o che fa era già nel linguaggio come possibilità, cioè, il linguaggio è una serie di infinite possibilità. Ciascuno, poi, di volta in volta si apre a una possibilità specifica, ma si tratta di infinite possibilità per cui, qualunque cosa uno pensi o faccia, era già presente nel linguaggio come possibilità. Anche il pensare a una cosa strana, come, ad esempio, il costruire dal nulla esseri umani e farli funzionare esattamente in un certo modo, lo faranno prima o poi, ma cento anni fa era una cosa inverosimile, ma era già presente, era presente perché queste persone erano già nel linguaggio; per così dire, era già presente in ciò che dicevano gli antichi, presente come possibilità del linguaggio di costruire anche questa cosa qui. In questo senso sembra più interessante la questione della pre-comprensione perché in questo modo ci troviamo di fronte al fatto che qualunque cosa facciamo lo possiamo fare perché c’è il linguaggio. Qualunque cosa possa venire in mente a una persona è una possibilità già presente nel linguaggio, cioè, il linguaggio poteva fare anche quello.
Intervento: La pre-comprensione è connessa con la comprensione di cui parlava in precedenza?
Sì, certo. Heidegger parlava della comprensione come quella apertura che consente a qualche cosa di comparire, di manifestarsi, quindi, di interpretarlo, cioè, in definitiva, di manipolarlo. Però, questo qualche cosa che si apre nella comprensione è già da sempre una possibilità. Infatti, Heidegger parla spesso di possibilità, possibilità dell’Esserci, cioè della persona, di fare delle cose. Queste infinite possibilità sono già da sempre presenti; nel momento in cui si avvia il linguaggio è già tutto presente. Faccio un esempio molto semplice: tutta la matematica che è stata costruita, fino ai calcoli più inverosimili, è tutta compresa nella tabellina del 9, lì c’è tutto. È la stessa cosa. Qualunque cosa possiamo pensare di incredibile, di meraviglioso, di terrificante, è già presente nel linguaggio come possibilità, cioè non possiamo fare nulla che non sia già presente nel linguaggio come possibilità, perché se no sarebbe fuori del linguaggio.
Intervento: Non possiamo fare nulla che il linguaggio non possa fare.
Esatto. Tutto quello che facciamo è già previsto dal linguaggio. Come nella musica: immaginate tutta la musica che è stata fatta da quando esistono gli umani, è tutta in quelle sette note, tutto ciò che può farsi e lì. Con il linguaggio è esattamente la stessa cosa.
Siamo a pag. 206, § 35, La chiacchiera. Ora, la questione della chiacchiera meriterebbe un breve chiosa. Per Heidegger non è qualcosa di negativo, per lui la chiacchiera è il trovarsi, da parte dell’Esserci, nel mondo, nel mondo del Si, certo, in modo non autentico, però, è quello che lo circonda, è quello di cui è fatto da quando nasce a quando muore, è sempre immerso in questo mondo. È una questione che Heidegger riprende da Husserl, il quale aveva pensato una cosa, ripresa da Heidegger che, non a caso, era un suo allievo. Husserl si pone una domanda intorno alla conoscenza e fra i vari esempi fa quello della matita: in che modo posso conoscere questa matita? Chiaramente, la scienza prenderà in considerazione il peso, il colore, la resistenza, tutta una serie di proprietà, ma tutte queste cose sono la matita? Per Husserl no. Per lui ciò che c’è alla base è quella cosa, che poi Heidegger chiamerà chiacchiera, ma che lui chiama doxa, l’opinione. L’opinione, per cui tutto ciò che mi serve sapere della penna è come prenderla in mano, cosa scrivere, so che serve a fare questo. Tutto ciò me lo dà la doxa, non me lo dà la scienza, non è la scienza che mi dice come devo tenere in mano la matita e come scrivere, me lo dà la doxa, al punto che Husserl arriva a considerare che la doxa è il fondamento dell’episteme, cioè della verità scientifica, della scienza. La scienza non potrebbe fare niente senza tutte queste opinioni per cui uno nel suo laboratorio sa che deve muoversi in un certo modo, sa di avere un corpo, sa di avere delle mani che devono fare certe cose, sa una quantità sterminata di cose, che non gli vengono dalla scienza, gli vengono dalla doxa. Senza tutte queste informazioni lui non riuscirebbe a fare assolutamente nulla. Ecco, quindi, la chiacchiera, che riprende la questione della doxa di Husserl, e che non è propriamente qualcosa di negativo, è qualcosa con cui ci si confronta inesorabilmente e che peraltro fornisce delle direzioni, degli orientamenti, è il buon senso comune, la doxa, l’opinione, quello che ciascuno pensa. Il termine “chiacchiera” qui non ha alcun significato “spregiativo”. Esso designa terminologicamente un fenomeno positivo che costituisce il modo di essere della comprensione e dell’interpretazione dell’Esserci quotidiano. È il modo in cui l’Esserci, cioè la persona, si rapporta quotidianamente al mondo. Per lo più il discorso si esprime, e si è già sempre espresso, in parole. È linguaggio. In ciò che è espresso sono già sempre insite la comprensione e l’interpretazione. In ciò che si esprime, in ciò che si dice, in ciò che si pensa, in ciò che si fa, dice, ma lo aveva già detto prima, sono già sempre insite alla comprensione, a questa apertura, e all’interpretazione, cioè la valutazione di ciò che appare. Il linguaggio, in quanto espressione, cela in sé un’interpretazione stabilita della comprensione dell’Esserci. Dice che il linguaggio cela qualche cosa che riguarda la comprensione, ma ciò che cela non è forse ciò che diceva Husserl, cioè questo sapere che viene da migliaia di anni, da tutte le persone che hanno pensato, detto, fatto, ecc., per oggi noi siamo il risultato. Quindi, questa comprensione, dice lui, cela in sé un’interpretazione stabilita della comprensione dell’Esserci, cioè, come la comprensione, messa in atto dall’Esserci, accade oggi in questo modo, che non è il modo in cui accadeva duecento anni fa, si comprendevano le cose in modo diverso, ciò che vediamo noi oggi con i nostri occhi non è quello che vedevano a quel tempo o mille anni fa, gli occhi con cui vedeva Platone non sono i nostri, le cose che vediamo per lui non esistevano, e viceversa. Questa situazione interpretativa non è semplicemente-presente, come non lo è il linguaggio… Quando dice che non è semplicemente-presente intende dire che non è una semplice cosa, cioè non è fuori dal linguaggio. … il suo essere è conforme all’Esserci. Questa interpretazione non è un’interpretazione scientifica che dice “questa cosa è quest’altra” e a questo ci si attiene. No, dice, l’interpretazione riguarda sempre e comunque l’Esserci, cioè, è un lavoro dell’Esserci, per cui non possiamo ridurla a una semplice presenza perché questa interpretazione comporta il pensiero degli ultimi trecentomila anni che, invece, l’interpretazione scientifica vorrebbe cancellare: è così e basta. Ma, dice Heidegger e, prima di lui, Husserl: sì, è così, ma adesso, nel modo in cui lo stai guardando tu, con la tua cultura, con le tue paturnie, con le tue fantasie, con tutto ciò di cui sei fatto. Quindi, che cosa stai vedendo, in realtà? Questa è la questione. Poche righe dopo. La comprensione, sedimentatasi così nell’espressione, riguarda tanto il disvelamento dell’ente qual è via via raggiunto e tramandato, quanto la rispettiva comprensione dell’essere, le possibilità e gli orizzonti disponibili per l’interpretazione ulteriore e la relativa articolazione concettuale. Sta continuando a dire la stessa cosa, e cioè la comprensione, che si sedimenta nell’espressione, ma questa espressione non è che viene dal nulla, c’è una comprensione, una apertura che la sedimenta, cioè, la fa essere quella che è, quindi, la mia espressione è fatta in odo tale a partire dalla comprensione che mi si apre in questo momento, nel modo in cui mi si apre. C’è in Heidegger una continua insistenza su questo punto, in vari modi. La questione centrale, di fatto, è che non è possibile cogliere un elemento, un’interpretazione di qualche cosa, come semplice presenza, cioè, la semplice presenza non c’è, è una chimera, è una fantasia. La semplice presenza è il mito della scienza, che la cosa sia quella che è, che esista di per sé indipendentemente dalle mie fantasie, dal modo in cui mi sono alzato la mattina. La scienza non prende in considerazione queste cose, si limita unicamente a pensare la semplice presenza come qualcosa che è quella che è, per virtù propria, senza tenere conto che il fatto di considerarla come una cosa semplicemente presente è già un progetto, anche questo è un progetto, che muove da una comprensione, a cui fa seguito l’interpretazione, ma che è all’interno di un progetto. Non c’è la cosa in quanto tale, su questo Heidegger insiste continuamente, ed è fondamentale perché una delle superstizioni dure a morire. Che è poi la questione della realtà, che esiste di per sé, senza tenere che la realtà che vediamo oggi con i nostri occhi non è la stessa che vedeva Platone, lui vedeva altre cose, la realtà era un’altra. Si è modificata la realtà? No, ovviamente, perché non c’è una realtà da modificare, ma questo ambito, in cui si muove la comprensione, è mutato, perché sono mutate le condizioni, si sono aggiunti elementi, perché il linguaggio cambia continuamente, lentissimamente ma inesorabilmente. Ogni volta che cambia cambiano i significati, cambiamo, per dirla in modo rozzo, i punti di vista, quindi, cambia la visione del mondo: modificando il linguaggio si modifica la visione del mondo, quindi, si modifica tutto. Questo è il ritorno, di cui parlava anche Heidegger, perché questo mondo, in cui sono e di cui sono fatto, alterandosi modifica anche me, non sono solo io che lo altero ma lui, una volta alterato, altera me. È il famoso circolo ermeneutico.
Intervento: …
Heidegger la direbbe in un altro modo. Non è che lei è lì e dall’altra parte c’è il mondo. Se lei è il mondo è già un’alterazione del mondo. Spostando questa cosa da là a qui io ho già alterato il mondo, mondo di cui io sono fatto e, pertanto, questa alterazione a sua volta modifica me. C’è una modificazione continua, è quello che si chiama circolo ermeneutico, cioè, c’è qualche cosa che devo interpretare, interpretandolo lo modifico e, una volta modificato, modifica me che lo sto interpretando. Il discorso autoesprimentesi è comunicazione. Potremmo dirla anche così: non è che si parla per niente, si parla per qualche cosa. Nietzsche sapeva già per quale motivo si parla, non era così ingenuo. Per comunicare? Sì, certo, ma perché devo comunicare? Comunico per trasmettere il mio pensiero e imporlo all’altro. La tendenza del suo essere è di portare coloro che sentono a esser partecipi dell’essere aperto del discorso per ciò di cui si discorre. È come se in questa comunicazione io tentassi di aprire una comprensione in chi mi ascolta in modo che accolga le cose che dico. Più che di comprendere l’ente… Quante volte avete sentito le persone discorrere, parlare, per stabilire che cos’è veramente l’ente, una qualunque cosa. …ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. Non è ciò di cui si parla che interessa, è il parlare stesso. Ciò che interessa agli umani non è l’oggetto della conversazione ma sono le cose che si dicono, perché è nelle cose che si dicono, è nella espressione che si manifesta l’apertura che consente di comprendere qualcosa, ma l’ente non lo comprendo mai. Ciò che è compreso è il discorso… E’ il discorso, non l’ente, che si comprende. … il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. (pagg. 206-207) Si potrebbe dire che è solo il pretesto, l’occasione. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà. Si comprendono le medesime cose perché? Perché non si interrogano, semplicemente, perché non si riflette. La medietà, di cui parlava già prima, è il discorso dei più: si dice così, si pensa così, e va bene così. Va bene così perché non si riflette su ciò che si sta dicendo. Ciò che conta è che si discorra. Questa è l’unica cosa che importa, cioè, che il linguaggio prosegua, che il linguaggio, proseguendo, crei quelle condizioni per potere esercitare il proprio potere. Alla fine si tratta di questo, sennò non ci sarebbe alcun motivo per fare una cosa del genere, per comunicare: io comunico perché mi aspetto che in questa comunicazione ci sia un qualche cosa che l’altro recepisce e accoglie, la fa sua.
Intervento: Si parla per modificare l’altro.
Certo. E attenendoci ad Heidegger: modificando l’altro modifico anche me, perché il mio comportamento nei confronti dell’altro, a seconda che abbia accolto oppure no le cose che dico, cambia, perché se non le ha accolte posso dargli un pugno sul naso; se, invece, le accoglie magari lo abbraccio. L’infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, bensì un fattore che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. È chiaro che è il sistema più facile di comunicare, perché offre delle cose che gli altri prendono così perché si devono prendere. Le prendono perché non pensano, non c’è nessuna riflessione, non viene messo in discussione nulla, non viene problematizzato alcunché. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. Se tutti pensano così, come posso sbagliare? Sono nel giusto, sono nel vero. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile. Tutti sanno tutto di tutto. Come è possibile questo? È possibile perché, in realtà, non sanno niente, però, c’è l’idea di sapere tutto, oggi persino di più di quanto accadeva un tempo, l’idea dell’informazione globale, tutti pensano di sapere quello che succede. Non è così, nessuno si chiede, rispetto a tutte le informazioni, da dove arrivano, chi le ha immesse e per quale motivo, a che cosa mira un certo tipo di informazione. Semplicemente, la chiacchiera le prende perché si fa così, perché tutti fanno così. Il discorso, che rientra nella costituzione essenziale dell’essere dell’Esserci e di cui costituisce l’apertura, ha la possibilità di mutarsi in chiacchiera e, come tale, di non tenere più aperto l’essere-nel-mondo in una comprensione articolata, anzi di chiuderlo e di coprire così l’ente intramondano. (pagg. 207-208) Il discorso, quello che Heidegger chiamerebbe autentico, riflette sulle condizioni, per esempio, di una certa cosa, sulla sua fondatezza, però, dice, anche questo discorso si muta facilmente in chiacchiera perché è più facile, più semplice, perché è così che fanno tutti, e se tutti fanno così vuol dire che si deve fare così, e se non faccio così allora sono un complottista, sono uno che fornisce false notizie e, quindi, un delinquente. La chiacchiera non è il risultato di un inganno voluto. Essa non ha il modo di essere della presentazione consapevole di qualche cosa per qualcos’altro. Basta dire e ridire infondatamente perché si determini il capovolgimento dell’apertura in chiusura. Come diceva Göbbels: basta ripetere qualunque cosa per un numero sufficiente di volte perché venga presa per vera. Infatti ciò che è detto viene sempre assunto innanzi tutto come “dicente qualcosa”, cioè scoprente. Qualunque cosa si dica dice qualcosa. Scoprente: dice qualcosa, quindi, si suppone che si scopra qualcosa. Se il dire è sempre un dire di qualche cosa, c’è sempre un qualche cosa che dicendo emerge. La chiacchiera, trascurando di risalire al fondamento di ciò che è detto, è quindi di per sé una chiusura. Questa chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la sua presunzione di aver raggiunto la comprensione di ciò di cui si parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, reprimendoli o ritardandoli in modo caratteristico. Chiunque metta in discussione ciò che tutti reputano vero è un criminale, un complottista, uno che diffonde false notizie. Oggi si dice “fake new”, notizia falsa, tutto ciò che non collima con ciò che viene stabilito da chi ha il potere è una notizia falsa. È come dire che la chiacchiera ha anche quest’altra virtù: si impone come necessariamente vera e solleva tutti dall’eventualità, dalla necessità, dal dovere di andare a verificare la cosa. Molte cose impariamo a conoscere a questo modo e non poche restano per sempre tali. Ecco Husserl, quella che lui chiamava la Lebenswelt, il mondo della vita: tutte le cose che impariamo, dai primi vagiti, impariamo le esperienze, impariamo a muoverci, la distanza, il tempo, tutto. Sono tutte cose che non ci insegna la scienza, anzi, la scienza parte da tutti questi presupposti che non mette mai in discussione né interroga mai. Ecco perché Heidegger dice che la scienza non pensa, non pensa a tutte le assunzioni, a tutte le supposizioni infinite che sono necessarie perché la scienza faccia quello che fa. L’Esserci non può mai sottrarsi a questo stato interpretativo quotidiano nel quale è innanzi tutto cresciuto. In esso, da esso e contro di esso è attuata ogni comprensione, ogni interpretazione, ogni comunicazione, ogni riscoperta e ogni nuova appropriazione genuina. Perché ci sia una nuova appropriazione, cioè, un’apertura che si opponga alla chiusura del Si, della chiacchiera, occorre un gesto che comporta il sottrarsi a questa chiacchiera, a tutto ciò di cui sono fatto dalle origini, ma non è un sottrarsi nel senso che non ne voglio più sapere ma nel senso che lo pongo in questione, perché se non ci fossero state tutte queste cose che ho imparato non potrei neanche essere qui oggi, non saprei che esiste qualche cosa, non saprei che esisto io, non saprei niente. Pertanto, non è che tutte queste cose vanno eliminate ma va tenuto in conto che sono la condizione per potere fare tutto ciò che si vuole fare e, quindi, bisogna tenerne conto, tenere conto, quindi, che ciascuno è nel mondo, e essere nel mondo è anche questo, è essere tutte queste cose. Non è che l’Esserci, incontaminato e affrancato da ogni influenza di questo stato interpretativo, sia posto di fronte alla terra di nessuno di un “mondo” in sé, per stare a vedere ciò che gli viene incontro. Questa è un po' la figura dell’eroe, un po' mitica, un po' romantica, dell’eroe che affronta un mondo sconosciuto, che gli va incontro e che succeda quel che deve succedere. No, dice, non è così, perché non c’è questo mondo incontaminato, che noi dobbiamo scoprire. Qui c’è una leggera critica a Husserl, il quale riteneva che occorresse ritornare al pensiero greco antico per ricominciare tutto a partire dalle prime parole. Per Heidegger non è così, certo, interroga queste prime parole ma sapendo che in queste prime parole c’è già comunque la metafisica, c’è già comunque un modo di pensare, un qualche cosa che rende queste prime parole degli antichi impossibili da recuperare in quanto tali, mentre Husserl voleva ritornare, almeno fino a un certo punto, a una sorta di mondo originario. Heidegger dice che non c’è un mondo in sé, da stare a vedere, nessuno è spettatore di niente, perché ciascuno è anche ciò che sta guardando. L’idea dello spettatore è quella della scienza rispetto allo scienziato, il quale osserva e dalle sue osservazioni trae le sue deduzioni. Ora, tutto questo per Heidegger è il mondo del Si, della chiacchiera, si sa che è così, perché se ne parla da sempre, perché non c’è neanche motivo di opporsi a una cosa del genere. Quello che interessa ad Heidegger è dire a chi lo ascolta: bada che in questa operazione che stai compiendo tu sei chiamato in causa, tu sei in questo esperimento, con tutte le tue superstizioni, con tutte le tue paure, i tuoi desideri, i tuoi affanni, ecc., cioè, con la doxa. Questo esperimento dovrebbe condurre alla verità epistemica, cioè, alla verità certificata, scientifica… Ricordate “episteme”, ciò che sta sopra e che da sopra controlla tutto. Heidegger continua a dire che non è così, che ciascuna volta questa cosa con cui ho a che fare, del cui essere vorrei impadronirmi, che è poi questa la questione fondamentale, non è un oggetto di per sé esistente e non garantisce niente, perché io sono di fronte a questa cosa in quanto progetto, in quanto progettante. Ogni volta ci si pone di fronte a qualche cosa è sempre all’interno di un progetto, non c’è, e su questo Heidegger è preciso: nessun mondo in sé da osservare e contemplare, noi siamo quel mondo che stiamo osservando e che osserva. La scienza è la metafisica per antonomasia. Per Heidegger la scienza, come la metafisica, prende l’essere, l’essenza delle cose, come un ente, mentre per lui l’essere è l’Esserci e, quindi, non è un ente qualunque fra gli enti. Per lui si tratta di cogliere che l’essere è questo continuo progettare qualcosa, non una cosa che sta lì, immobile, di fronte a una pura contemplazione. È questa la portata del pensiero di Heidegger, è questo che lui ha spostato: non sono in contemplazione di questa cosa che ha l’essere che garantisce l’enticità, io sono questa cosa che, in seguito al mio progetto, sto facendo tutte queste operazioni, queste considerazioni. La chiacchiera, che chiude nel modo descritto, è la modalità d’essere della comprensione sradicata dell’Esserci. Nella chiacchiera le cose sono così perché si dice che sono così, quindi, non sono più nel mio progetto, penso che siano fuori da un progetto, addirittura, fuori dal linguaggio. La chiacchiera definisce le cose, dice che una certa cosa è così, che la realtà è quella che vedo, che tocco, quindi, non c’è più il mio progetto, è irrilevante il mio progetto, può esserci, però non muta la cosa in sé, semplicemente presente. Essa non si presenta però come uno stato semplicemente-presente in una semplice-presenza; sradicata esistenzialmente, essa stessa è un costante sradicamento. Il che significa sul piano ontologico: l’Esserci che si mantiene nella chiacchiera, in quanto essere-nel-mondo è tagliato fuori dal rapporto ontologico primario, originario e genuino col mondo, col con-Esserci e con l’in-essere stesso. Qui Heidegger pone una questione che molti hanno considerato abbastanza prossima a quella di Marx, rispetto all’alienazione, perché lui dice l’Esserci che si mantiene nella chiacchiera, in quanto essere-nel-mondo è tagliato fuori dal rapporto ontologico primario. L’Esserci che si mantiene nella chiacchiera è tagliato fuori dal rapporto primario con ciò che gli viene incontro, perché si occupa della chiacchiera, accoglie il luogo comune. Quindi, c’è in questo senso una sorta di alienazione – ovviamente, lui non parla di alienazione, è Marx che ne parla– alienazione da ciò che è autentico. In altri termini, ci sta dicendo che il modo in cui viviamo nel mondo è una continua alienazione perché, utilizzando la chiacchiera, la doxa, non ci facciamo mai carico del problema più importante, che è quello di riflettere, per esempio, sulle condizioni delle cose, condizioni per cui una certa cosa è quella che è, condizioni della conoscenza, quella che Kant chiamava Analitica trascendentale.
Intervento: …
La chiacchiera presuppone il soggetto e l’oggetto, presuppone che le cose siano oggetti su cui tutti concordano, tutti concordano che una certa cosa debba essere fatta in un certo modo. In questo senso parla di comunicazione, la chiacchiera è fatta per comunicare, deve essere comunicata, trova nella comunicazione il suo fine stesso. Il paragrafo successivo tratta della curiosità, Heidegger parla del primato del vedere nella curiosità, del volere vedere, questo è antico. L’essere è ciò che si manifesta nella visione intuitiva, questo per i greci: l’essere è ciò che si vede, ciò che appare. La questione della curiosità, quindi, comporta una sorta di priorità della visione su tutto il resto. Dice a pag. 211 La visione ambientale preveggente indica a ogni operazione e a ogni produzione la via del procedere, i mezzi dell’attuazione, l’occasione adatta, l’istante opportuno. Questa visione ambientale, cioè, questo orientarsi nel mondo, è ciò che consente di muoversi, di girarsi, ecc. Dice ancora più avanti La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente piena di meraviglia, col ϑαυμάζειν… (pagg. 211-212) ϑαυμα è ciò di cui parla Aristotele nel IV libro della Metafisica. Dice che gli umani sono condotti alla conoscenza dal ϑαυμα, tradotto in genere con curiosità, meraviglia. Severino, invece, indica in questa parola ϑαυμα la paura, il terrore, per cui tutta la filosofia, tutto il pensiero, sorge dalla necessità di gestire, di arginare la paura, paura della morte, del male, ecc. … non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo. Questo è fine: non per sapere ma per poter aver saputo. Se mettiamo questo a fianco di ciò che dice Nietzsche, il poter aver saputo come dobbiamo intenderlo? Lo possiamo intendere, certamente, come una possibilità ma come quella possibilità che mi consente di controllare, di gestire ciò che ho di fronte. Dice, infatti, cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo, è un sapere particolare, l’ho già saputo, quindi, che altro devo sapere se è già tutto saputo? Infatti, sta parlando della chiacchiera, non a caso. Vuole, sì, sapere ma per potere aver saputo, per potere dire che sa già tutto, è questa la questione. La curiosità per la quale niente è segreto, la chiacchiera per la quale niente e incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita che si pretende veramente “vissuta”. Si illudono, dicono “io so tutto”. Ma questa presunzione pone in luce un terzo fenomeno caratteristico dell’apertura dell’Esserci quotidiano. Che sarebbe l’equivoco. Lo affronteremo mercoledì prossimo.