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21 maggio 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

La teologia trinitaria è una teoria del linguaggio. Anzi, per essere più precisi, è una semiotica, una teoria del segno, perché la tripartizione della teologia trinitaria è rimasta tale e quale nella tripartizione del segno e, infatti, possiamo parlare tranquillamente di semiotica agostiniana, di una teoria del segno di Agostino, che è molto semplice e che è rimasta a tutt’oggi. Ricordate la Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito. Un concetto, un qualche cosa che si pone; questo qualche cosa viene detto per potere essere qualcosa e, in seguito, si comprende. E, allora, ecco il Padre, Figlio e lo Spirito. Lo Spirito è la comprensione e, infatti, veniva rappresentato nella iconografia ecclesiastica dalla fiammella, che è quella che fa comprendere. La semiotica di Peirce è esattamente la stessa cosa: c’è un qualche cosa che interviene; questo qualche cosa si dice, ma si dice in relazione a qualche cosa che consente di comprendere. Per la Trinità è la fiammella, lo Spirito; per Peirce è l’abito, che non è altro che la doxa, quello che si pensa comunemente e che funziona da riferimento, è ciò che consente agli elementi del segno di potere essere un segno, perché questo segno deve rinviare a qualche cosa, e rinvia alla doxa. In Agostino era esattamente la stessa cosa, solo che in Agostino questo rinvio alla doxa è determinato invece dallo Spirito, perché allora si chiamava così, Spirito, psiché. Psiché è quella cosa che, proprio nell’accezione heideggeriana del termine, in fondo è la doxa, perché quando Heidegger dice che la psiché non è altro che il tizio che legge il giornale, ci sta indicando che è qualcuno che è immerso in un sapere comune, che tutti conoscono, che sanno che esiste un giornale che porta le notizie, che viene letto, stampato, che quindi molte informazioni che gli vengono dalla doxa, quella cosa che Peirce chiamava abito. Ora, c’è una questione. In questo libro, che è veramente straordinario, tanto quanto il precedente, Beierwaltes dice delle cose di grandissimo interesse; oppure siamo noi che traiamo da quello che dice Beierwaltes cose di grandissimo interesse. Tra le varie cose che pone Beierwaltes che ci danno da pensare, ce n’è una che riguarda, sì, la teologia trinitaria, certo, ma in modo particolare. La volta scorsa abbiamo accennato alla costruzione di una religione, ponendola ontologicamente, cioè, partendo da qualcosa che abbiamo dato come esistente. L’aspetto logico, invece, ci consente di stabilire un’altra cosa importante. Pensate alla teologia negativa. Possiamo intenderla come una rappresentazione della locuzione greca λέγειν τί κατά τίνός, dire qualcosa di qualche cos’altro, cioè, dicendo qualcosa dico qualche cos’altro, cioè, non dico il qualcosa perché sto dicendo qualche cos’altro. Il qualcosa da cui sono partito, posso dirlo? Lo dico dicendo altro, quindi, non lo dirò mai: dunque, l’ineffabile esiste perché non potrò mai dire questa cosa, perché dicendo dirò sempre un’altra cosa. Questo cosa è venuta in mente a me, ma sarebbe potuta venire in mente anche ai teologi nel basso Medioevo. Il che significa che non sono così bravi come ci hanno voluto fare credere, o comunque non abbastanza, perché una cosa del genere avrebbe dato un fondamento logico alla teologia, fondamento logico che manca, ovviamente, come dicevamo, non è fondato su niente. In questo caso, invece, è fondata sulla potenza del pensiero greco: λέγειν τί κατά τίνός: qualunque cosa dica, dicendola dico altro, quella cosa non potrò mai dirla. Ecco, l’ineffabile, che sorge come risultato logico. Dunque, l’ineffabile esiste. Adesso dimostreremo che non esiste affatto, come facevano una volta i sofisti.

Intervento: Semplicemente giocando sulla definizione.

Non solo. In effetti, logicamente, se dicendo una qualunque cosa necessariamente ne dico un’altra, perché questa cosa è un rinvio, allora necessariamente dico altro; quindi, necessariamente non posso dire quella cosa. Dove sta il problema? La via più rapida è quella che ci suggerisce Aristotele nelle Categorie. Ricordate, lui parla della sostanza, dell’ousìa. Questa ousìa, dice, non è che ha una sua esistenza, l’ousìa è ciò che se ne dice, è le categorie. È la stessa cosa che riprende poi nei Secondi analitici rispetto all’universale. Quindi, questo qualche cosa che appare come ineffabile non è affatto ineffabile, perché lui si dice in altro; dicendo quell’altro io dico quella cosa lì, che è quella, perché la sostanza non ha un’esistenza al di fuori delle categorie. Questa cosa qui non ha un’esistenza sua al di fuori di ciò che ne dico, sono esattamente la stessa cosa. Ecco che quindi l’ineffabile non c’è, l’ineffabile non può essere perché qualunque cosa si dice e dicendosi è ciò che se ne dice. Esattamente come la sostanza di Aristotele, o l’universale: non ha una esistenza sua, non esiste di per sé, non è un ente di natura. Detto questo, se i teologi avessero posta la questione in questi termini, sarebbe stato più facile per loro sostenere l’esistenza di Dio, perché Dio è questo qualche cosa da cui tutto muove, nel concetto generale dell’universale, che non può dirsi… Certo che non può dirsi perché dicendosi dico altro. Ora, il cristianesimo ha dovuto, almeno in parte, seguire Averroè, e cioè antropomorfizzare la cosa, e allora il concetto è diventato il Dio Padre, quello vecchio, col barbone, col triangolino sulla testa che simboleggia la Trinità, e poi Figlio, il belloccio, e poi lo Spirito Santo come la fiammella. Ma, come direbbe Averroè, è il modo di rappresentare la cosa per il popolo: il popolo, diceva, non è in condizione di comprendere considerazioni astratte, ha bisogno del concreto, di vedere la cosa, quindi, la mamma, il padre, il figlio, ho bisogno di rappresentarsela così, sennò non capisce. E, allora, ecco la necessità di porre queste figure, anche se di fatto non sarebbero necessarie teologicamente. Il concetto è quella cosa che ancora con Hegel è indicibile: l’in sé non è nulla finché non si riflette nel per sé, è tornando indietro che allora l’in sé diventa qualcosa. Agostino dice esattamente la stessa cosa: c’è il Padre, che contiene tutto - essendo un concetto contiene tutto, è da lì che noi possiamo capire le cose, le cose non esistono da sole, esistono perché sono nella mente di Dio, perché Dio le pensa -; poi, c’è il Figlio, che è il verbo, che le dice; poi c’è la fiammella che fa comprendere, ma noi comprendiamo perché queste cose che comprendiamo sono già presenti in Dio, cioè, sono già nel concetto.

Intervento: …

È il problema di tutta la teologia come controllare i molti e la “soluzione”, tra virgolette perché non è che risolve il problema propriamente, è quella di creare una tripartizione. Il problema è già presente in Plotino: perché la necessità dell’Intelletto e dell’Anima? Per potere gestire i molti. E come li gestisce? Dicendo che procedono dall’Uno. Come e in che modo procedano non si sa bene, però procedono dall’Uno; quindi, i molti sono un prodotto dell’Uno. I molti sono una emanazione di Dio. Dicevo che la teologia trinitaria è una teoria del linguaggio che ha il compito di gestire il problema del linguaggio, cioè, il problema dei molti, facendoli procedere dall’Uno. Non solo, ma stabilendo che tutti questi molti hanno il desiderio di tornare all’Uno, perché soltanto tornando all’Uno la comprensione è completa. I molti procedono dall’Uno, non esistono senza l’Uno: questo è fondamentale. Non esistendo senza l’Uno non hanno un’esistenza propria, quindi, si possono togliere di mezzo. Cosa che la teologia trinitaria fa. Ora, tutto questo è espresso e chiarito da Beierwaltes. Viene posto qui, rifacendosi ad una fondamentale concezione platonica, il problema del rapporto tra archetipo, creatore e immagine creata (Uno-molti). Il problema della traccia del Principio nel principiato è in terzo luogo il problema del ritorno di quest’ultimo nel Principio stesso. C’è sempre questa moto circolare, che è quello di Hegel. Se la posizione dell’essere è il dare inizio all’ente... Questo lo diceva anche Heidegger. …atto questo che è lo stesso procedere dal Principio, se inoltre il Principio creatore è assoluto e al di fuori di ogni processo, allora il problema del principio dell’alterità, che procede, obbliga a riflettere sul tempo come modo d’essere del creato, modo d’essere che corrisponde alla differenza. Cioè, il problema è gestire una differenza, perché la differenza è i molti e, quindi, è quella che impiccia. Qui la domanda che si pone Agostino rispetto alla parola di Dio. Ma da dove saprò se dice il vero? Comprensione, intellezione e conoscenza devono essere sicure, certe. Perciò, il problema dell’istanza dell’evidenza consiste nella domanda. Chi garantisce la sicurezza o la verità di proposizioni, come ad esempio quella citata “In principio, fecisti coelum et terram”. Giustamente, si chiede Agostino: “E se fosse una stupidaggine?”. Rimane questa possibilità. Il problema dell’istanza della sicurezza di una evidenza o della fondatezza della verità è in Agostino la stessa centralità che caratterizza anche il problema dell’accertamento riflessivo della fede. La verità nel suo senso autentico, che è superiore alle informazioni sui dati di fatto constatabili empiricamente, non può essere compresa se colui che intende comprendere accoglie soltanto un enunciato che gli si presenta. Come dire, la parola è menzognera perché dice sempre altro, dice cose infinite, quindi, ci vuole qualcosa che fermi questa cosa. La verità si costituisce solamente nella riflessione che esamina in modo critico gli enunciati che vengono accolti. Essa si trova nell’autentico intimo o, per esprimerci in termini più precisi, nella mens dell’anima, dell’anima pensante, interiormente nella dimora del pensiero, virtus in domicilio cogitationis. Alla fin fine il problema ha sempre la stessa soluzione che ebbe in Plotino, non ne ha un’altra, e cioè: devi guardarti dentro. Due righe dall’inizio dell’ultimo capitolo che è La metafisica del linguaggio di Agostino. Un certo discorso non segue la perfida massima per cui possa valere come comprensibile e quindi accoglibile ciò che non occorre anzitutto comprendere. Questo si potrebbe mettere come esergo del pensiero occidentale in generale. In due righe ha descritto il pensiero occidentale. Pensiero e comprensione, conoscenza e scienza, costituiscono una unità dialettica con il linguaggio. Questa questione in Agostino è fortissima, anzi, è stato forse lui ad averla così fortemente accentuata. Il pensiero interiore è pertanto un atto linguistico... Cioè, arriva a intendere che è linguistico, non riuscirà a evitare questo. …e la compressione è il risultato del linguaggio che deriva dal pensiero o del pensiero che si esprime nella parola. La parola risulta essere pertanto l’articolazione della comprensione della verità di una realtà, un pensiero espresso in forma definita. Agostino afferma che la parola, ciò che noi diciamo nel cuore, è pensiero formato dalla cosa che noi conosciamo. Pensiero e linguaggio si realizzano come atto simultaneo. Il linguaggio è la modalità nella quale il pensiero si articola o si forma. D’altra parte, però, il pensiero è la condizione di possibilità o il principio del linguaggio, perché ciò che è inintelligibile non parla. Ciò che non si comprende non dice niente. In quanto parola interiore, o parola del cuore, il pensiero non è legato ad un linguaggio particolare, dice Agostino, dentro di me, nella dimora del pensiero, la lingua non è né ebrea, né greca, né latina né barbara. Ma la verità è senza labbra, è senza lingua e dice senza fragore delle sillabe, dice il vero. Ciò che sento dentro non ha bisogno della parola. Cioè, ciò che sento dentro è l’ineffabile, è questo concetto che appartiene a Dio, ed è lui che mi garantisce della verità. Il pensiero, infatti, esiste prima di ogni esperienza e dunque prima che possa rapportarsi ad una lingua storicamente determinata, è costituito a priori. Anche se il pensiero deve attuarsi concretamente in una lingua storicamente determinata, l’unità a priori di pensiero e linguaggio costituisce l’effettiva condizione di possibilità del ritrovamento della verità, l’unico criterio per la sua adeguatezza e certezza, ed è anche il fondamento di ogni singola lingua. Pertanto, una proposizione è vera e certa nella misura in cui può essere riconosciuta e compresa grazie a questa compenetrazione dialettico-a priori di pensiero e linguaggio. Io dico qualcosa che parte dall’interno, dall’interiore. Dal punto di vista teologico la figura di Cristo, che è il maestro autentico, la condizione di possibilità è il mediatore della verità. È Cristo che abita nell’interiorità dell’uomo, lo determina e lo illumina. Questa teologizzazione della struttura a priori… A priori perché c’è prima Dio, quindi, forma il pensiero e il pensiero si dice. Il dirsi, il verbo è il Figlio e questo consente la comprensione, la fiammella. L’anamnesi platonica sostiene che la conoscenza può e deve iniziare nel tempo e insieme in vita e pensiero al ritorno fondativo, all’idea intemporale che legittima e assicura ogni conoscenza… Questo era già presente in Platone. Senza questo presupposto filosofico la teologizzazione della concezione dovrebbe essere intesa come una opzione che evita l’esigenza di fondazione razionale, essa sarebbe difficilmente pensabile. Senza Platone tutto questo non sarebbe stato pensabile. Per comprendere in modo accettabile la proposizione In principio Deus fecit coelum et terram, è necessario che il pensiero ritorni nell’interiorità. Solo in questo modo l’ascolto può giungere alla comprensione. Se questa proposizione è riconosciuta in quanto è conosciuta, occorre che si ponga una parola interiore che quindi si rifletta autonomamente su ciò che è stato ascoltato o tramandato. Per Agostino e poi per tutto il cristianesimo, sino ad oggi, tutto muove dall’interno. Questa idea poi è stata quella che ha consentito l’invenzione della psicologia e di tutte queste storie: che ci sia una verità interiore, quella vera. Nella psicanalisi, quella da due soldi, lo psicanalista sarebbe quello che tira fuori la verità, quella vera, quella che c’è dentro la persona, che per qualche motivo non riconosce ma che, però, c’è. Questa idea è agostiniana, fa parte della semiotica agostiniana, della teoria del segno, e cioè c’è un concetto, c’è la sua espressione e, poi, c’è la possibilità di comprendere: Padre, Figlio e Spirito. Nel terzo capitolo parla della creazione nella parola, cioè lui si accorge che senza la parola non c’è niente. Naturalmente, questa parola bisogna sistemarla, garantirla in qualche modo. Ecco il cielo e la terra, esistono e proclamano che essi sono stati creati. La voce di coloro che parlano è la stessa evidenza. Sono le cose che parlano e che dicono: noi siamo state create, sono gli esseri stessi a offrire al pensiero l’evidenza che essi non esistono in virtù di sé medesimi, e l’espressione metaforica “essi proclamano” fornisce già un elemento per rispondere alla domanda: in che modo hai creato il cielo e la terra? Agostino si rende conto che è la parola che crea le cose, senza la parola non c’è niente. Il problema era: come gestire questa parola? Costruendo, inventando una teologia trinitaria, cioè, una teoria del linguaggio, che ponesse il concetto come il tutto, l’intero, il verbo, cioè il dire, l’espressione del concetto e, infine, lo spirito, la psiché, come la comprensione di tutto quanto. Questa teoria del linguaggio è quella che, in fondo, è rimasta a tutt’oggi, la semiotica non dice nient’altro che questo, e cioè rimane una teologia trinitaria. Ma lui a un certo punto, poco più avanti, lo dice, dirà della filosofia del linguaggio, che è una teologia trinitaria, né più né meno. Come la parola esterna e l’estrinsecazione o il dispiegamento della parola interna, così l’acclamazione degli esseri è espressione della parola assoluta, che è loro immanente e che li fonda. Questo è sempre fondamentale in Agostino: la parola è fondata in Dio, è lì che trova la sua verità, solo Dio può garantire la verità. E come so che sta dicendo la verità? Perché l’ho sento dentro. Il compito è che l’uomo riceve dalla struttura linguistica del creato... Interessante. Dice la struttura linguistica del creato: il creato, le cose hanno una struttura linguistica, cioè, appartengono alla teologia trinitaria. …è quello di conoscere e lodare il suo principio riflettendo sugli enti e di ricondurre il creato al suo principio mediante la parola che conosce e loda. /.../ La formulazione della parola che esiste negli esseri e, quindi, anche della loro struttura creata è conseguenza della evidentia che deriva dalle cose. Le cose, per una sorta di evidenza, manifestano la verità di Dio. L’uomo non deve però, secondo Agostino, effettuare questo ritorno nel linguaggio. Non deve porsi la questione se tutto ciò avviene solo nel linguaggio, ma deve diventare egli stesso parola essente, in virtù della conoscenza. L’uomo è inno del principio. Nella tua parola le hai create, disse Agostino. Questa è la risposta alla domanda iniziale del capitolo quinto: in che modo hai creato il cielo e la terra? Nella tua parola l’hai creato: tu hai parlato e le cose esistono. Io parlo e le cose esistono. Qual è la differenza? Che nel primo caso è il Dio, è Dio che garantisce tutto quanto; nel secondo no. E, infatti, lo dice: non deve fermarsi al linguaggio. Perché la tentazione sarebbe quella di dire: se è il linguaggio che crea, vediamo come è fatto il linguaggio e come crea le cose, come le produce; no, il linguaggio è il verbo, è il Figlio, devi risalire al Padre per trovare la causa, l’archè e il télos, cioè, l’origine e il compimento, a cui tornare. La parola con la quale, o mediante la quale, Dio parla è e immediatamente crea. La parola dicendo è la parola che è Dio presso Dio. La parola che viene pronunciata atemporalmente e simultaneamente nella sua interezza. La parola non è pertanto qualcosa che è presente come uno strumento e costretto del Creatore che è separato dal Creatore; la parola è infatti il Creatore stesso. Cioè, ha trasformato la parola nel Figlio di Dio, in modo che nessuno si metta a considerare con più attenzione la questione della parola, del linguaggio; la parola è il Figlio di Dio, è Cristo. In questo modo si è garantito dall’eventualità che qualcuno possa mettersi a riflettere intorno alla parola. Come diceva prima, non bisogna fermarsi al linguaggio, non è bene. Ponendo la parola come Cristo, ecco che il problema è risolto. In termini teologici, infatti, la parola è il Figlio, la sapienza, mentre dal punto di vista filosofico è la ragione eterna. L’eternità intemporale è la verità eterna. Creare in principio significa pertanto che colui che crea in modo assoluto, quindi, in modo intemporale e in virtù della sua spontaneità, crea in se stesso e mediante se stesso. Questo è anche il modo per recuperare il problema dell’uno dei molti, perché Dio crea ma in se stesso, perché non c’è niente al di fuori di Dio. Questi molti, sembra quasi volere dire, anche se Agostino non lo dice, sono un’illusione, non esistono propriamente. Esistono nel senso che Dio, pensando, pone delle cose, ma queste cose appartengono a Dio, perché è lui che le pensa. È come dire che non si esce dal concetto: il concetto è l’origine e causa di tutto. Cosa che anche la semiotica fa, e così lo stesso Hegel. Perché, infatti, è lì che si torna e non si può non tornare. Il Creatore crea quindi in virtù di se stesso e non basandosi su altro, poiché crea in principio, e il fatto che Dio è principio di sé si esprime nell’altro che è creato nella parola. Questa estrinsecazione dell’interiorità della creazione è indicata tanto nella teologia, tanto nella filosofia, con il termine virtus, dynamis. Dynamis è la potenza. Quindi lui crea, sì, ma tutto ciò che crea non è altro da sé, non può creare altro da sé - da qui l’idea della processione - sono consustanziali, non è un’altra cosa, il Figlio non è un’altra cosa rispetto al Padre, è consustanziale. Come dire, in fondo, che i molti non ci sono, questi molti sono un’illusione, perché non può esistere qualcosa al di fuori di Dio. La parola creatrice… Sappiamo che è il Figlio che parla, è lui il verbo. …è pronunciata eternamente e perciò tutto viene pronunciato da essa, e con il termine tutto si intende l’essere di questo atto eterno. Il tutto nel senso di come lo intendeva Diels, come l’intero, come il tutto. Il passaggio creativo non deve essere pensato e descritto come un passaggio che nella sua qualità ontologica e temporale. Non è una progressione lineare, si attua piuttosto in un salto, senza mediazione. Badate bene. La processione creativa dell’essere dal Creatore è in sé un atto intemporale del tutto libero e spontaneo perché non determinato da nient’altro che dalla sua auto originarietà. Perché si premurano di dire che è senza mediazione? Perché o il mediatore è Cristo, e allora è determinato, o sennò la mediazione rischia di fare reinserire tutti i molti infiniti all’interno dell’Uno. C’è una progressione e loro conoscevano la filosofia antica, Zenone e tutti quanti, e se è una progressione questa progressione è un infinito attuale, e quindi non si creerà mai. Zenonianamente, possiamo dire che Dio non potrà mai creare, perché, se la cosa è progressiva, questa progressione è infinita. Quindi, ecco il salto. Dicendo salto è come dire che è una decisione, come l’ύπάρχειν di Aristotele.