INDIETRO

 

 

21-5-2014

 

La posizione di Hjelmslev nell’ambito sella semiotica è una posizione interessante per molti versi, avemmo già occasione di leggere alcune sue cose molti anni fa perché è un testo molto importante per quanto riguarda la linguistica, la semiotica ma anche la teoria in generale. Ha ripreso ovviamente De Saussure però la divisione che fa De Saussure tra significato e significante lui la volge in espressione e contenuto, poi divide ancora, tanto l’espressione quanto il contenuto, in forma e materia, c’è una forma del contenuto e c’è una forma dell’espressione, c’è una materia dell’espressione e una materia del contenuto. Alcune cose che dice le riprendiamo perché possiamo oggi leggerle in un altro modo. Qui intanto dice che cosa deve essere una teoria, visto che ha in animo di costruirne una: “scopo della teoria linguistica – chiaramente lui essendo un linguista fa una teoria linguistica – è mettere alla prova, su quello che appare un oggetto particolarmente invitante, la tesi che un processo ha un sistema sottostante, e che una fluttuazione ha una costanza sottostante. Come dire che qualunque processo linguistico ha una lingua, ha un sistema che lo fa funzionare. La lingua può intendersi sia come sistema, e cioè come qualche cosa che fornisce gli strumenti e le istruzioni e poi un processo che è l’attuazione di queste regole d’uso. Una teoria raggiungerà il massimo della semplicità se si baserà solo su premesse che siano necessarie rispetto al suo proprio oggetto, inoltre per essere adeguata al suo scopo la teoria deve produrre in ogni sua applicazione i risultati che siano in accordo con i così detti dati empirici, reali o presunti. Questo è interessante, dice che una teoria, a lui interessa la semplicità come a molti in effetti, non a tutti ma a molti sì, per esempio a Lacan non interessava affatto la semplicità anzi interessava il contrario, dunque le premesse che utilizzerà saranno quelle necessarie rispetto al suo proprio oggetto, quindi l’oggetto di studio, come dire che pongo delle premesse che sono necessarie alla costruzione della mia teoria, non premesse che vengono dall’osservazione, dalla realtà, nulla di tutto ciò, e questo è molto simile a ciò che fanno i logici per esempio quanto inventano degli assiomi, questi assiomi non hanno nessun significato particolare, semplicemente servono alla dimostrazione del teorema che si vuole dimostrare, nient’altro che questo. Poi qui stiamo sempre parlando di teoria: la descrizione deve essere libera da contraddizioni cioè coerente, è questo che si auspica generalmente quando si fa una teoria, cioè che non si auto contraddica se no diventa banale, poi esauriente e semplice quanto più si possa, l’esigenza dell’assenza di contraddizioni ha precedenza su quella della descrizione esauriente, l’esigenza della descrizione esauriente ha precedenza su quella di semplicità eccetera, e poi dice che la difficoltà di dare una definizione generale, per esempio termini come genitivo, perfetto, congiuntivo sono cose difficili da definire e lo stesso anche per altri concetti /…/ una teoria nel nostro senso che è in sé indipendente da qualsiasi esperienza. Questo è interessante, una teoria che non ha nulla a che fare con l’esperienza, in sé essa non dice nulla riguardo alle proprie possibilità di applicazioni e ai propri rapporti con i dati empirici, essa non comprende alcun postulato esistenziale cioè non si postula di per sé niente essa costituisce quello che si è chiamato un sistema puramente deduttivo, nel senso che la si può usare solo per calcolare possibilità che derivano dalle sue premesse. Una teoria introduce certe premesse di cui l’autore della teoria sa, in base all’esperienza precedente, che esse adempiono le condizioni di applicazione a certi dati empirici, cioè è sufficiente che adempiano a certe condizioni di applicazione, non che siano applicabili, ma che adempiano certe condizioni che sono state precedentemente esperite, esperite non nel senso che si sono viste ma che sono state calcolate, queste premesse sono della maggior generalità possibile e possono dunque soddisfare le condizioni di applicazione a un gran numero di dati empirici, chiameremo il primo di questi fattori, il fatto che è indipendente da qualsiasi esperienza, “arbitrarietà della teoria” e il secondo “adeguatezza della teoria”, cioè è arbitraria perché è costruita ad hoc, è adeguata perché soddisfa le condizioni che si sono precedentemente stabilite. Non è molto lontano da ciò che stiamo dicendo ultimamente, però lui lo diceva molti anni fa, cioè nel 1961, pare necessario prendere in considerazione entrambi i fattori nella preparazione di una teoria ma da ciò che si è detto consegue che i dati empirici non possono mai rafforzare o indebolire la teoria stessa ma solo la sua applicabilità, cioè la teoria non viene minimamente inficiata dal fatto che i dati empirici non la confermino, una teoria ci consente di dedurre teoremi che devono avere tutti la forma di implicazioni in senso logico o devono essere suscettibili di trasposizione in tale forma ipotetica o sono implicazioni o devono essere traducibili in implicazioni un teorema afferma solo che se si adempie una certa condizione ne consegue la verità di una data proposizione, “verità” qui sempre nell’accezione particolare di adeguamento a ciò che si è stabilito prima, nell’applicazione della teoria sarà chiaro se la condizione si adempie o no in dati casi particolari, in base a una teoria e ai suoi teoremi possiamo costruire delle ipotesi, comprese le così dette leggi, la cui sorte, diversamente da quella della teoria stessa, dipende esclusivamente dalla verifica /…/ la teoria linguistica dunque definisce sovranamente il proprio oggetto in base a una strategia di premesse arbitraria e adeguata. La teoria consiste di un calcolo a partire dalle premesse meno numerose a quelle più generali possibili, delle quali nessuna che sia specifica della teoria pare essere di natura assiomatica, il calcolo consente di predire delle possibilità eccetera quindi se la teoria linguistica intesa in questo senso è posta in rapporto con il concetto di “realtà” la risposta alla nostra domanda se sia l’oggetto a determinare e a influenzare o viceversa, è tutte e due, grazie alla sua natura arbitraria la teoria è a realistica, grazie alla sua adeguatezza essa è realistica, col termine “realismo” preso qui nel senso moderno e non come prima in quello medioevale. Qual è il senso medioevale di realismo? La domanda che si ci poneva allora era se gli universali, l’universale è qualche cosa che si può predicare di qualunque cosa, siano realmente esistenti oppure siano frutto del pensiero; per alcuni questi universali erano realmente esistenti, c’erano nella realtà così detta, per esempio per Platone, le sue idee nell’iperuranio c’erano, non erano il prodotto dell’intelligenza, questo è il realismo estremo di Guglielmo di Champeaux, l’oppositore allora in quei tempi era Severino Boezio il quale era un nominalista, per lui e i nominalisti questi universali non esistevano in realtà, erano il prodotto della mente, la mente che costruisce degli universali, le cose ci sono ovviamente ma un termine, un concetto universale di questa cosa è un prodotto del pensiero non esiste da qualche parte, su questo verteva la disputa sugli universali. Dunque il senso di “realismo” in accezione medioevale indica che un qualche cosa, un concetto, un universale esiste di per sé da qualche parte, quindi Hielmeslev si chiede se l’oggetto può influenzare la teoria o viceversa e risponde: tutte due. In questo senso, dice, grazie alla sua adeguatezza essa è realistica, è realistica nell’accezione medioevale perché si riferisce in quanto a questo oggetto all’idea dell’oggetto come universale quindi presente comunque e sempre del linguaggio deve cercare di soddisfare questa esigenza in maniera analoga, cioè prendendo naturalmente il maggior numero di testi possibili da consultare per potere trarre delle connessioni, delle implicazioni cioè per fare il suo lavoro umanamente sarebbe impossibile esaminare tutti i testi e inoltre si tratterebbe di una fatica inutile perché la teoria deve rendere conto anche dei testi finora non realizzati, quindi il teorico del linguaggio come ogni altro teorico, deve prendere la precauzione di prevedere tutte le possibilità concepibili, anche possibilità di cui non ha avuto esperienza o che non ha viste realizzate e di ammetterle nella sua teoria, in modo che essa sia applicabile anche a testi e a lingue che non gli sono mai stati presentati o lingue mai realizzate. Dice che la teoria linguistica avviene attraverso un calcolo che è dedotto dalla definizione proposta indipendentemente da qualsiasi esperienza fornisce gli strumenti che servono a descrivere o comprendere un dato testo e la lingua con cui esso è costruito, la teoria linguistica non può essere verificata provata giusta o sbagliata con riferimenti a vari testi o lingue esistenti, essa può essere giudicata solo con riferimento al carattere coerente ed esauriente del suo calcolo, come dire che ha all’interno di sé tutti gli strumenti per potere verificare se è coerente e valida oppure no. L’analisi, che è quella cosa che fa una teoria, analizza, trova accostamenti, implicazioni anzi, per Hjelmslev la teoria è solo questo, trova cioè correlazioni tra elementi: l’analisi è quella totalità globale cioè il linguaggio nella sua effettiva esistenza, può essere di nuovo colta sinteticamente come un tutto e non più come un conglomerato accidentale. È questo che fa una teoria, prende elementi che sembrano disparati fra loro e trova una correlazione, ciò che li connette come un tutto non più come un conglomerato accidentale o puramente de facto perché è così che lo vede, ma come un tutto organizzato intorno a un principio direttivo. La nozione di linguaggio che da tempo proponiamo è in effetti questa, è un qualche cosa organizzato intorno a un principio direttivo, questo principio direttivo sono delle istruzioni, anche un computer funziona così, è un conglomerato dove tutti gli elementi che intervengono e che lavorano non sono accidentali ma sono organizzati in un certo modo da un principio direttivo specifico. Nell’ambito in cui ciò avviene si può dire che la teoria linguistica come qualunque teoria è valida, cioè è valida quando questa totalità di elementi che apparentemente sembrano disparati, invece analizzando si mostra che sono correlati e si mostra qual è il tipo di correlazione, se si fa questo allora la teoria è valida. La prova consiste nel vedere fino a che punto la teoria linguistica soddisfi il proprio principio nella sua esigenza di una descrizione esauriente, cioè questa descrizione dei vari elementi e cioè della connessione organizzata tra tutti gli elementi deve essere esauriente, nel senso che non deve lasciare fuori delle cose perché non si sanno mettere in relazione, se non si sanno mettere in relazione o è meglio saperlo oppure non c’è nessuna relazione, e tale prova si compie traendo tutte le conseguenze generali possibili dal principio strutturale che si è scelto, non da quello che è ma da quello che si è scelto, quel principio che consente di organizzare le cose cioè quelle istruzioni che si è deciso di stabilire. Adesso parla del “realismo ingenuo” che suppone che l’analisi consista semplicemente di una divisione di un certo oggetto in parti cioè in altri oggetti e poi di questi in altre parti e ancora in altri oggetti e così via secondo la dottrina tomista di Tommaso “divide et impera”, ma anche il “realismo ingenuo” dovrebbe scegliere tra i vari possibili modi di divisione in maniera chiara ché ciò che importa non è la divisione di un oggetto in parti ma uno svolgimento dell’analisi conforme alle interdipendenze fra queste parti e che ne renda conto adeguatamente. Dice  che non serve a niente prendere un oggetto e scomporlo in infinite parti se non sappiamo che relazione c’è fra queste parti, solo così l’analisi diventa adeguata e dal punto di vista di una teoria metafisica della conoscenza si può dire che rifletta la natura dell’oggetto e delle sue parti, anche se poi dice che la teoria linguistica non deve essere metafisica, sia l’oggetto esaminato che le sue parti solo in virtù di queste dipendenze, e questo è importante: sia l’oggetto esaminato che le sue parti esistono solo in virtù di queste dipendenze, se no non ci sono. Cioè l’oggetto, l’elemento linguistico non c’è se non ci sono queste relazioni, questo già De Saussure lo poneva in modo abbastanza esplicito, il complesso dell’oggetto esaminato si può definire solo grazie alla loro totalità e ognuna delle sue parti si può definire solo grazie alle dipendenze che la collegano ad altre parti coordinate al tutto e alle parti in grado immediatamente inferiore grazie alla somma delle dipendenze che queste parti di ordine immediatamente inferiore contraggono fra di loro /…/ una volta che si sia riconosciuto questo, gli oggetti del “realismo ingenuo” non sono, dal nostro punto di vista, che intersezioni di fasci di tali dipendenze, questi sono gli oggetti, questa è la definizione Hjelmslev di oggetto “una intersezione di fasci di dipendenze” nient’altro che questo, quindi che cos’è una cosa? Un fascio di intersezioni. In altri termini gli oggetti si possono descrivere solo con l’aiuto delle dipendenze e questo è l’unico modo per definirli e coglierli scientificamente, le dipendenze che il “realismo ingenuo” considera secondarie implicanti gli oggetti, divengono, da questo punto di vista, primarie implicate dalle loro intersezioni, il riconoscimento del fatto che una totalità (qualunque essa sia ) non consiste di cose ma di rapporti e che non la sostanza ma solo i suoi rapporti interni ed esterni hanno esistenza scientifica non è ovviamente una novità nella scienza ma può essere una novità nella scienza linguistica. Perché la linguistica non aveva mai fatto, almeno prima di De Saussure, una cosa del genere: postulare gli oggetti come qualcosa di diverso dai termini e dai rapporti è un assioma superfluo, lui dice “postulare”, bisogna fare attenzione ai termini che lui usa, “postulare” non descrivere, significa porre un qualche cosa senza un’argomentazione, lo postulo cioè lo stabilisco, lo decido, è un assioma superfluo e quindi un’ipotesi metafisica di cui la scienza linguistica si dovrà liberare. Hjelmslev dice che postulare gli oggetti è un assioma superfluo, non ci serve a niente, se io postulo una cosa, dopo che l’ho postulata cosa ne faccio? Cioè se non argomento la cosa, perché la postulazione non è un’argomentazione appunto, è una postulazione, a partire da Ferdinand De Saussure si è spesso affermato che c’è un’interdipendenza tra certi elementi di una lingua tale che una lingua non può avere uno di questi elementi senza avere anche l’altro è una nozione di strutturalismo, più propriamente qui di sistema, perché De Saussure parla di sistema, però è già un’approssimazione, l’idea è propriamente corretta anche se è stata spesso esagerata e applicata male.  Tutto indica che Saussure che cercava rapporti da per tutto e sosteneva che la lingua è una forma e non una sostanza, riconobbe la priorità delle dipendenze del linguaggio, a questo stadio della ricerca dobbiamo evitare la circolarità, se affermiamo, per esempio, che sostantivo e aggettivo o vocale e consonante si presuppongono reciprocamente sicché una lingua non può avere sostantivi senza avere anche aggettivi e viceversa o non può avere vocali senza avere anche consonanti e viceversa. D’altra parte non ha tutti i torti, noi non lo faremo perché la cosa non ci interessa ma ogni elemento che introduce lo definisce in modo preciso, sempre ricordando che questa definizione serve a lui per la costruzione di questa teoria, non sta descrivendo uno stato di cose, non sta dicendo come stanno le cose, sta soltanto dicendo come lui in questo caso specifico intenderà questo termine ogni volta che interverrà. Questa è quella cosa che io chiamo “onestà intellettuale”, poi “proposizioni che noi personalmente riteniamo possibili stabilire come teoremi, quindi non più come definizioni ma come teoremi, queste proposizioni saranno vere o false a seconda delle definizioni scelte per i concetti: sostantivo, aggettivo, vocale, consonante. Intanto dice che queste non sono definizioni ma le pone come teoremi, cioè come affermazioni che si ritengono dimostrate, perché? Per comodità, non c’è un motivo di fatto, non è che sia così e queste proposizioni, questi teoremi saranno veri in base alla definizione che abbiamo scelte per i concetti: noi scegliamo un certo concetto o una certa definizione per un concetto, se utilizziamo quella allora questa reciprocità sarà vera, se accettiamo un’altra definizione questa reciprocità, per esempio tra verbo e avverbio sarà falsa. Poi incomincia con le sue definizioni, sono necessarie in effetti però appesantiscono il testo, ma non si proponeva di costruire un testo ma di costruire una teoria linguistica quindi è più che comprensibile che abbia messo in atto tutte queste operazioni, ogni cosa che interviene la definisce, dicevo che è indispensabile, se no qualcuno giustamente e legittimamente potrebbe chiedere “cosa intendi con questo?” “Intendo ciò che ho definito prima”, cioè dà le definizioni a seconda del tipo di rapporto fra elementi. Vi faccio solo un esempio delle dipendenze reciproche per cui un termine presuppone l’altro e viceversa, le chiamerà “interdipendenze”, se invece soltanto uno dipende dall’altro ma l’altro non dipende dal primo allora le chiama “determinazioni”, se nessuno dei due dipende dall’altro, le chiama “costellazioni”. In questo primo esiguo frammento del sistema delle definizioni della teoria linguistica, la definizione di componente presuppone la definizione di classe, la definizione di classe la definizione di analisi, la definizione di analisi presuppone solo termini o concetti non definiti entro il sistema di definizioni specifico della teoria linguistica e posti come indefinibili, fa l’esempio: descrizione, oggetto, dipendenza, uniformità, questi sarebbero dei concetti, Peano le chiamerebbe “idee primitive”, cioè poste come indefinibili. Costruendo una teoria occorre partire da degli elementi ovviamente, questi “indefinibili” sono molto simili a ciò che io ho indicato come “istruzioni”, ma indefinibili non perché di fatto non si possano definire, ma perché sono dei comandi: io posso definire un comando certo, ma non mi serve a niente perché questo comando mi serve soltanto per avviare un certo processo, anche “oggetto” è ovvio che posso definirlo, è stato definito in un miliardo di modi, ma lui li pone come “indefinibili” nel senso che non ha interesse all’interno di questa teoria a mettersi a definire la nozione di oggetto quindi la usa così. Ma qui si contraddice perché dice che l’oggetto è indefinibile, ma invece l’ha già definito come “intersezione di un fascio di dipendenze”. Processo e sistema sono concetti di grande generalità ovviamente generalmente con “processo” si intende qualcosa che procede cioè un articolarsi di qualche cosa, con “sistema” qualcosa di fermo. Facevo prima l’esempio del linguaggio come sistema e del racconto, del dire, come processo, cioè la sua manifestazione come processo. Un processo sincronico riguarda un unico momento del linguaggio, così lo usano i linguisti tra l’altro, riguarda un’analisi di come si usa adesso una certa parola, mentre l’aspetto diacronico consiste nell’analisi del processo di questo termine, cioè la trasformazione del termine, i termini sintagmatica e paradigmatica offrono designazioni speciali pratiche, accettate largamente per il processo semiotico e per il sistema semiotico rispettivamente lui distingue sempre fra processo e sistema quando si tratta di linguaggio nel senso ordinario del termine che sono, ci interessa qui, possiamo usare anche designazioni più semplici, possiamo chiamare il processo “testo” e il sistema “lingua”. Il testo è un processo, è sempre in una sorta di alterazione, di modificazione, infatti si può interpretare in tanti modi mentre la lingua no, la lingua è il sistema sottostante il testo, perché ci sia testo occorre la lingua, ma non necessariamente una lingua produce un testo. Io posso inventarmi una lingua con tutte le sue regole che ci sia alcun testo. Un processo e un sistema che gli appartenga, gli sottostia, contraggono insieme una funzione che, a seconda del punto di vista, si può concepire come una relazione o come una correlazione, a seconda di come lo si vede “sono relate o correlate?” un esame più attento di questa funzione rileva subito che si tratta di una determinazione in cui il sistema è la costante, il processo determina il sistema, il sistema è la costante: la lingua qui dice invece il “processo determina il sistema”. Il punto decisivo non è il rapporto superficiale che consiste nel fatto che il processo è più immediatamente accessibile all’osservazione, il processo è il racconto, il dire, quindi è ciò che si ha immediatamente davanti. Il sistema che c’è sotto, cioè la lingua, può essere molto complessa, come l’italiano, posso anche non conoscerla perfettamente, il sistema sottostante però è necessario perché questo testo sia scritto. Il sistema è la costante, qui lo dice chiaramente: è più immediatamente accessibile all’osservazione mentre il sistema deve essere coordinato al processo, scoperto dietro ad esso, per mezzo di un procedimento e quindi è conoscibile solo in maniera mediata, mediata significa che se io leggo un testo in inglese la mia conoscenza della grammatica inglese non è immediatamente evidente, posso anche conoscerlo molto male l’inglese per esempio, però qualche cosa devo conoscere. Questo rapporto superficiale potrebbe far parere che il processo possa esistere senza un sistema, quindi c’è il testo, che vedo, e potrei anche dire che non c’è un sistema sottostante, però dice che non è proprio così: il punto decisivo è al contrario che l’esistenza di un sistema è presupposta necessariamente dall’esistenza di un processo, il processo viene ad esistere grazie al fatto che c’è un sistema sottostante che lo governa e determina il suo sviluppo possibile. Un processo è inimmaginabile perché sarebbe in un senso assoluto e irrevocabile, inesplicabile senza un sistema ad esso soggiacente, è un modo articolato, complesso per dire che nulla è fuori dalla parola. D’altra parte un sistema non è inimmaginabile senza un processo, io posso conoscere una lingua ma senza mai avere visto un testo scritto in quella lingua per esempio, può succedere non è impossibile quindi il sistema non viene a esistere grazie al fatto che si trovi un processo, la lingua c’è ed è la condizione per cui ci sia qualunque testo mentre per molti, come lui stesso ricorda, appariva essere il contrario, cosa che ha provocato non pochi problemi teorici. Che la lingua sia un sistema di segni pare a priori un’affermazione fondamentale ed evidente di cui la teoria linguistica deve tenere conto fin dall’inizio. La teoria linguistica deve saperci dire che significato si possa attribuire a tale affermazione e in particolare alla parola “segno”, per il momento dovremo accontentarci della vaga concezione tradizionale, in base ad essa un segno o come si dice, anticipando una precisazione terminologica che introdurremo più avanti, l’“espressione di un segno” /…/ Il segno è caratterizzato in primo luogo dal suo essere un segno di qualcos’altro, peculiarità che stimola il nostro interesse poiché pare indicare che un segno è definito da una funzione, un segno funziona, designa, denota. /…/ Un segno si distingue da qualcosa che non è segno, il segno è portatore di significato, lo veicola, accontentandoci di questa concezione provvisoria cercheremo in base ad essa di decidere fino a che punto si possa considerare corretta la informazione che una lingua è un sistema di segni.

Intervento: perché qualcosa non è segno?

Questa è una disquisizione interessante e complessa, il segno è qualche cosa che rinvia, è una funzione il cui argomento è un’altra cosa, cioè l’argomento di questa funziona sarebbe un’altra cosa. Così pare funzionare il linguaggio, un elemento rinvia a un altro, ma un connettivo? Il “non” è un segno? La questione è complessa e lui, Hjelmslev, non l’articola, né la svolge e né soprattutto la risolve. Il “non” ha un significato, se no non sarebbe utilizzabile, ma è un segno cioè rinvia a qualche cos’altro? Apparentemente no, rinvia solo a se stesso, il “non”, o la congiunzione “e” ha un significato? Sì, certo che ha un significato, ma rinvia a qualche cos’altro? Che permetta di connettere degli elementi è un’altra questione, stiamo parlando del connettivo “e”, permette la relazione, non è che rinvii la “e” in quanto connettivo congiunzione. È una questione aperta, ma anche qui lui direbbe, non lo dice, ma glielo facciamo dire a forza, che non è una questione che si dirime analizzando bene la cosa, si dirime impostando degli assiomi tali che ci portino in una direzione che può esserci utile in questa teoria, perché al di fuori di questo questa questione non significa niente perché è metafisica, stiamo valutando se questa “e”, questa cosa è un’altra cosa, ma non è niente di tutto, ciò ma siamo noi che lo stabiliamo. Dice ancora: De Saussure per chiarire la funzione segnica ricorse al tentativo di considerare espressione e contenuto, De Saussure non usa questi termini ma significante e significato, separatamente senza tener conto della funzione segnica cioè della relazione fra i due termini e arrivò al seguente risultato: preso in quanto tale il pensiero è come una nebulosa dove nulla è necessariamente delimitato, non ci sono idee prestabilite e niente può essere distinto prima dell’apparizione della lingua, la sostanza fonica non è né fissata né rigida, non è una massa a cui il pensiero debba dare necessariamente una forma ma una materia plastica che si divide in modo tale da fornire i significanti dei quali il pensiero ha bisogno adesso qui c’è un problema di cui vi dirò possiamo dunque rappresentarci la lingua come una serie di suddivisioni contigue /…/ la lingua elabora le sue unità in sé costituenti tra due masse amorfe, questa combinazione produce una forma e non una sostanza. La questione è questa: la materia non formata che si può estrarre da tutte le lingue, da queste catene linguistiche è formata diversamente nelle singole lingue, ogni lingua traccia le sue particolari suddivisioni all’interno della massa del pensiero amorfa e dà rilievo in essa a fattori diversi eccetera, per lui la materia non è altro che il pensiero, il senso questa è la materia per Hjelmslev, ora però parlare di massa del pensiero amorfa cioè senza forma crea un problema “come può il pensiero se è pensiero essere una massa amorfa?” e su questa domanda ci fermiamo.