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21 aprile 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

La filosofia nasce grande, dice Heidegger, perché il pensiero antico ha fatto una cosa straordinaria, dai presocratici fino a Platone, fino al picco con Aristotele; poi, comincia la discesa. Ma discesa in che senso? I presocratici hanno posto la domanda, o meglio, il domandare. Ponendo il domandare, hanno messo in primo piano il λόγος, nessuno lo aveva fatto prima di loro. Si sono in qualche modo accorti che stavano parlando. Λόγος – utilizziamo questi etimi che ci propone Heidegger – viene da λγειν, mettere insieme, cioè, mettere in relazione le cose. Il λόγος, linguaggio, non è altro che relazione. Fa, dunque, la sua comparsa il λόγος, il linguaggio, anche se non lo hanno visto in modo così preciso, delineato, ma fa la sua comparsa come “tutto”, come l’essere. Eraclito nel frammento 50, nella traduzione Diels-Kranz: “Non me ma il λόγος dovete ascoltare”. E allora, se ascoltiamo il λόγος, dobbiamo considerare che “tutto è uno”, ν παντα εναι. In questa frase Eraclito, che chiamavano l’oscuro, σκοτεινός, è invece molto esplicito. “Tutto è uno”, ma questo “tutto” che cos’è? È l’essere, è il concreto. Ma è uno, è l’indeterminato in quanto tutto, perché non lo posso determinare, è tutto, ma nel momento in cui ne parlo è uno, lo determino. Come dire che il tutto posso dirlo tutto, posso pensarlo tutto a condizione di pensarlo come uno, di essere determinato. Quindi, parlando del tutto, il tutto dilegua a fronte dell’uno, che è ciò che parla del tutto, ma è uno. Pensate all’altro frammento dove Eraclito dice φύσις κρπτεσθαι φλει, cioè La natura ama nascondersi. Sappiamo da Heidegger, che è fine in queste cose, che φύσις viene da φύω, sorgere, prodursi. Questo sorgere, questo prodursi, questo essere in atto, ci fa pensare a un concetto che forse ci aiuta, il concetto a cui mi riferisco è autoctisi, autoprodursi, il prodursi da sé. La natura, infatti, per i Greci è ciò che si produce da sé. Basta pensare all’esempio di Aristotele, quando parla della φύσις contrapposta alla τέχνη: la φύσις è l’albero che nasce da solo, non ha bisogno di me per crescere. Φύσις, ciò che si produce da sé, quindi, il dire, l’atto di parola, si produce da sé: produce se stesso in quanto atto e, dicendosi, dilegua. La parola dicendosi dilegua. Ciò che importa è mostrare come questo aspetto del linguaggio che dicendosi dilegua, fosse presente in qualche modo dicendo che la natura ama nascondersi. Ciò che intendeva il greco antico con natura non è la natura così come la pensiamo oggi, come la pensano gli ecologisti, ma è un’altra natura, è molto diverso. Eraclito ha posto, in effetti, il linguaggio e il suo funzionamento: il tutto dicendosi è uno. Se dico il tutto, è uno, è per es. una parola; ma il tutto non è uno. È lo stesso problema, come l’infinito e il finito, che per dire una cosa non posso dire – per usare un termine kantiano – la cosa in sé, non la posso dire. È stato il problema di Parmenide (vecchio e terribile, diceva Platone), che non è riuscito in quanto non aveva la conoscenza appropriata intorno al linguaggio, dell’essere. Come abbiamo visto varie volte, l’essere di Parmenide non può dirsi, arrivando persino a considerare che l’essere di Parmenide è nulla, perché devo determinarlo ma non posso determinarlo e, quindi, ogni determinazione devo toglierla finché non resta nulla. Ciò di cui non si è accorto Parmenide è che per potere parlare dell’essere devo dire un’altra cosa, cioè devo dire il non-essere, devo dirlo e, quindi, non sto dicendo l’essere. Non lo dico perché dell’essere non si può dire nulla: se lo dico, immediatamente dico l’ente. Questo Heidegger lo ha inteso molto bene: dico l’ente, che non c’entra niente con l’essere. Ciò che ha causato questo problema di Parmenide si è tramandato poi per millenni, almeno fino a Hegel, almeno fino a che non c’è stata un’integrazione (Aufhebung) tra l’essere e ciò che l’essere non è. Parmenide si è bloccato lì: c’è solo l’essere – del non-essere non devi occupartene – e non si è accorto che se levo il non-essere scompare anche l’essere e non c’è più niente, perché l’essere è determinato dal non essere il non essere. Solo così lo determino: lo determino attraverso un’altra cosa. Ecco il tutto e uno: questa cosa che è tutto, potremmo dire che è l’indeterminato, l’πείρων di Anassimandro, è uno, e quindi è il determinato. Quindi, l’indeterminato è il determinato. È la stessa cosa che dire che A è B. Che cosa è A? È un’altra cosa, perché B non è A; quindi, A è non-A, è un’altra cosa rispetto ad A, perché è B. Quindi, A, per essere A, occorre che sia non-A, occorre che neghi se stessa. Su questo Hegel ha scritto delle pagine straordinarie, sul fatto che qualcosa è ciò che è a condizione di negarsi. Se non si nega è nulla, perché se A non fosse B non sarebbe neanche A, perché A appunto è B. Ecco la questione che Heidegger sta incominciano ad affrontare qui in L’essenza della verità. Con la questione della verità incontra un problema rilevante. Lo dice già nelle prime pagine: parlare della verità è un problema perché per sapere che cos’è la verità, per pormi la domanda – questo non lo dice lui, lo dico io – “che cos’è la verità?” devo sapere che cos’è la verità, sennò non posso pormi la domanda. È semplice il discorso, perché se mi pongo la domanda “che cos’è la verità?” mi risponderò qualche cosa, e questo qualcosa che mi rispondo come so che corrisponde a qualcosa di vero se non conosco la verità? Non potrei nemmeno pormi la domanda; se me la pongo è perché so già la verità. Dire così “so già la verità” è inappropriato; in effetti, non è che io sappia che cos’è la verità, però qualcosa interviene in modo tale da consentirmi di pormi questa domanda. Quindi, sarebbe più appropriato dire così: ciò che chiamiamo verità non è qualche cosa che si aggiunge, ma è qualcosa che appartiene al funzionamento del linguaggio, che è già presente nel mio domandare della verità, è già lì. E che cos’è? Gentile ce lo ha illustrato bene: non è altro che il porsi dell’essere posto, il porsi di ciò che io sto ponendo; io pongo qualcosa, ponendolo, si pone. Questa è la verità. Che ci dice immediatamente il suo contrario, e cioè non posso dire di porre qualcosa se non lo pongo. Ma se sto dicendo questo, già pongo qualcosa. Questo ha indotto gli antichi a pensare che fosse impossibile non dire il vero. Ci è voluto Gentile, un paio di migliaia di anni dopo, per riprendere la questione, senza accorgersi che l’avevano già posta gli antichi: non posso dire il falso, perché se affermo qualche cosa e questo mio affermare è la verità, in quanto è vero che lo sto affermando, allora non posso dire il falso, cioè, non poso dire che non sto affermando, perché dicendolo nego ciò che faccio. Questo è impedito dal funzionamento del linguaggio, che funziona così, come sappiamo: io dico qualcosa, ma questo qualcosa che dico non è separabile dal mio dire; interviene necessariamente per il fatto che io sto dicendo; quindi, il mio dire comporta il qualche cosa che sto dicendo, che il mio dire produce. Una produzione che Gentile chiamava autoctisi, cioè produco qualcosa, faccio esistere qualcosa, faccio esistere qualche cosa che si oppone al mio dire, si oppone nel senso che non è il dire ma è il qualcosa che il mio dire, dice. Si oppone nel senso che non è lo stesso, anche se non può esistere l’uno senza l’altro. Il funzionamento del linguaggio è ciò che mi impedisce di dire senza dire qualcosa, perché se dico dico qualcosa, è implicito nel mio dire. Sono inseparabili, ovviamente; come faccio a separare il mio dire da ciò che dico? È impossibile perché sono lo stesso, ma ugualmente non sono lo stesso, sono distinti. Ecco in che modo il linguaggio vieta di affermare che non sto affermando, perché già lo sto facendo; è come se volessi dire senza che il mio dire dica qualcosa: non lo posso fare in nessun modo. Non è un problema, naturalmente, è solo il funzionamento del linguaggio, anzi, è ciò che consente l’esistere di qualunque cosa, compreso il concetto di esistere. Ecco, dunque, la questione della verità. Non si può intendere nulla della verità se si immagina la verità come un qualche cosa, direbbe Heidegger, di estatico, che sta fuori. No, la verità è nell’atto stesso del dire, in quanto dicendo si pone, si afferma. Ciò che chiamiamo verità è questo: il porsi e il non potere non porsi di ciò che sto ponendo. Iniziamo allora la lettura di questo testo, dei primi anni ’30. Siamo a pag. 27. Ammettiamo pure che l’essenzialità dell’essenza sia la medesima e indichi il che cos’è universale di una cosa. Che cosa intendiamo con l’espressione “che cos’è” e che cosa significa “essere”? Lo comprendiamo realmente? No. Parliamo in modo tanto ovvio di essenza, di questione dell’essenza, di coglimento dell’essenza e così pure di essenza della verità, ma in fondo rimane incomprensibile che cosa domandiamo quando domandiamo dell’essenza di qualcosa. Domandarsi dell’essenza di qualche cosa è ciò che ha sempre creato problemi e continua a crearne. Perché? Perché si suppone che l’essenza di qualcosa sia fuori della cosa e, quindi, come la trovo? Che l’essenza di ciò che dico sia fuori da ciò che dico? Non la troverò mai, ovviamente, troverò sempre altro. A pag. 33. Il significato della parola usata dai Greci per nominare la verità, cioè svelatezza, non ha anzitutto nulla a che fare con l’asserzione e con quel contesto a cui ci aveva condotto la definizione usuale dell’essenza della verità, vale a dire, la concordanza e la conformità. Essere velato e svelato significa qualcosa di totalmente diverso da concordare, commisurarsi, conformarsi a. Il commisurarsi, il conformarsi, non vi evoca l’analogia? La verità come svelatezza e la verità come conformità sono due cose completamente distinte, come se derivassero da esperienze fondamentali del tutto diverse e tra loro inconciliabili. Già il sommario rinvio a questi due caratteri del significato del termine usato dai Greci per nominare la verità è sufficiente a mostrare che noi, nella misura in cui comprendiamo questo termine, ci siamo di fatto immediatamente distaccati dalla concezione abituale del concetto di verità. Certo, ma da ciò non si può ricavare un granché; al contrario, dobbiamo guardarci dal volere desumere troppo dall’analisi di una parola e del suo significato anziché addentrarci nella cosa di cui si tratta. A quali sterili discussioni, anzi, a quali fatali errori conducono gli azzardi giochi di prestigio dell’etimologia. Ha ragione, occorre andarci cauti con l’etimologia. Soprattutto se nel nostro caso che anche i Greci concepivano la reale essenza della verità nel senso di una μοίωσις, cioè adeguazione, concordanza. Quindi, non possiamo pretendere troppo dalla delucidazione del mero significato delle parole. Anzi, proprio nulla, e tantomeno possiamo però sostenere che una tale spiegazione lessicale, l’affermazione che l’essenza della verità sia stata intesa originariamente dagli antichi in modo del tutto diverso rispetto alla definizione divenuta da allora corrente. In effetti, è il problema che ha rilevato Heidegger da sempre, e cioè che, sì, i Greci usavano la parola λήθεια (alètheia), ma la usavano come μοίωσις (òmoiosis), come ρθότης (orthòtes), come concordanza, come conformità, così come la usiamo noi, né più né meno, come la veritas latina, di fatto. A pag. 35. Che cos’è che i Greci chiamano άλήθες (vero)? Non l’asserzione né la proposizione e nemmeno la conoscenza, ma l’ente stesso, l’intero costituito dalla natura, dall’opera dell’uomo e dall’agire di Dio. Quindi, ciò che si svela che cos’è? È l’essere, il tutto, il concreto. Ha fatto un elenco breve ma l’intero costituito dalla natura, dall’opera dell’uomo e dall’agire di Dio. C’è altro? Sarebbe il tutto del frammento di Eraclito, che è uno. Quando Aristotele dice che nel filosofare ne va περϊτες λήθειαϛ non intende dire che la filosofia debba formulare delle proposizioni corrette e valide, ma vuol dire che la filosofia cerca l’ente nella sua svelatezza in quanto ente. Cioè: cerca l’essere dell’ente. L’ente pertanto deve prima essere esperito anche nella sua velatezza, come qualcosa che si nasconde. Questa esperienza fondamentale rappresenta manifestamente il terreno dal quale soltanto scaturisce la ricerca di ciò che è dis-velato. Si parte dalla velatezza, si parte da ciò che è nascosto. Che cosa è nascosto? Il nascosto è il detto nel dire, ciò che è nascosto è ciò che il mio dire ancora non svela. È chiaro che lo svela dicendosi, ma è un continuo velare e svelare. Solo se l’ente viene prima esperito nella sua velatezza, nel suo nascondersi, solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo e lo angustia nella sua interezza, nel suo fondamento, è necessario e possibile che l’uomo si metta all’opera per strappare l’ente a questa velatezza e portarlo nella svelatezza, ponendosi così egli stesso nell’ente dis-velato. Qui c’è un primo passo importante: portare il velato nello svelato, mettere in chiaro, capire, comprendere, dominare. Portare il velato nello svelato significa potere dominare qualcosa. Se la natura ama nascondersi, come diceva Eraclito, noi la sveliamo, la portiamo fuori da questo nascondimento e così posiamo utilizzarla. Ci chiediamo: abbiamo dagli antichi una testimonianza di questa esperienza fondamentale dell’ente come qualcosa che si nasconde? Fortunatamente, sì. Ed è anche una testimonianza eccelsa di uno dei filosofi più grandi e dei più vetusti dell’antichità, Eraclito. Di lui si tramanda il significativo detto φύσις κρπτεσθαι φλει. Il regnare sovrano dell’ente, cioè l’ente nel suo essere, ama nascondersi. L’ente nel suo essere. L’ente che cosa nasconde? Ciò che manifesta, e ciò che manifesta è l’essere. Nasconde l’essere: è questo che nasconde. Manifestandosi l’ente, l’essere scompare. Questo lo dice chiaramente Heidegger anche in Essere e tempo: se voglio dire l’essere, dico l’ente. L’ente è, sì, ciò che appare, è il fenomeno, solo che apparendo l’ente scompare l’essere, si nasconde. In questo detto sono racchiuse molte cose, la φύσις. Con essa non si intende la sfera dell’ente che oggi per noi è soggetto della fisica, ma il regnare sovrano dell’ente, di tutto l’ente, della storia dell’umanità, dell’accadere della natura, dell’agire divino. L’ente in quanto tale, vale a dire, in ciò che esso è in quanto ente, regna sovrano, κρπτεσθαι φλει. Cosa vuol dire che l’ente regna sovrano? Che cominciamo sempre dall’ente, da ciò che ci appare e, quindi, sembra regnare sovrano su tutto, dimenticando ciò che fa dell’ente ente. Considerando l’ente, possiamo dirla così, consideriamo l’astratto, quello che ci appare, senza sapere più, perché non lo sappiamo più, mentre gli antichi lo avvertivano che l’ente è, sì, l’astratto, ma questo astratto è nel tutto. Vale a dire, questo uno, questo astratto, questo determinato, è nel tutto, è nell’πείρων, nell’indeterminato, nell’essere, è nel λόγος. Sono tutti termini questi che a questo punto quasi coincidono. Eraclito non dice che l’ente in quanto tale si nasconde realmente di tato in tanto, ma φλει, ama nascondersi. Il suo proprio intimo impulso è di restare nascosto e, una volta svelato, di ritornare nuovamente nella svelatezza. Non è che ci sia l’impulso nell’ente. Ma che cosa vuol dire che l’ente si svela? Che l’ente, cioè l’astratto, mostra il concreto di cui è fatto. Riprendete la lampada che è sul tavolo di Severino. Questa lampada è quella che è, cioè una lampada che è sul tavolo, per via del fatto che è nel concreto, per via del fatto che è nel mondo, direbbe Heidegger, e cioè è presa in una quantità sterminata di elementi che fanno di quella lampada quella lampada che è sul tavolo. Senza tutto questo non ci sarebbe neanche la lampada. Quindi, se io parlo della lampada, cioè l’astraggo, posso astrarla perché c’è il concreto. Tuttavia, parto sempre dall’astratto, non posso partire dal concreto, non posso partire dall’essere, dall’indeterminato, dal tutto, perché per partire dal tutto devo determinarlo, in quanto tutto, cioè, in quanto uno, come ci dice Eraclito. A pag. 37. Noi crediamo invece che accada qualcosa all’uomo stesso, qualcosa che è più grande e originario rispetto al suo agire quotidiano, un accadere e una storia ai quali vogliamo, dobbiamo riuscire a fare ritorno se vogliamo capire qualcosa dell’essenza della verità. Dice che ormai abbiamo dimenticato, ma dimenticato che cosa? Non il significato della verità, l’essenza della verità, che è irrisorio, abbiamo dimenticato la domanda intorno alla verità, la domanda intorno all’essere, il domandare intorno a queste cose: questo abbiamo dimenticato. A pag. 39. In un primo momento non vogliamo approfondire né l’λήθεια nella sua originarietà né la verità come conformità, μοίωσις, né la sua mera ovvietà, ma il loro peculiare intreccio. Vogliamo vedere come questi due concetti si sono confusi l’uno nell’altro. Questo stesso passaggio dalla λήθεια come svelatezza alla verità come conformità è un accadimento, anzi, nientemeno che quell’accadimento in cui l’inizio della storia occidentale della filosofia prende già un corso deviante e fatale. Anche se io parlo di μοίωσις, cioè di conformità, ecc., deve esserci già quella cosa che chiamiamo verità, sennò come faccio a sapere se è conforme, in base a che cosa? Per potere seguire questo passaggio dalla verità come svelamento alla verità come conformità, nel loro peculiare intreccio, vogliamo prendere in esame un testo di Platone, che tratta dell’λήθεια, non già per sforzarsi di offrire una definizione e un’analisi concettuale, ma presentando una storia. Mi riferisco all’illustrazione del mito della caverna, all’inizio del settimo capitolo dell’opera che reca il titolo Πολιτεία, da noi tradotto in modo del tutto equivoco Der Staat (La Repubblica). Ci fermiamo ora a una stazione intermedia, cioè Platone, per vedere allo stesso tempo come già nell’epoca classica della filosofia antica si formi il duplice significato del concetto di verità, senza che se ne colgano l’intreccio e l’intima connessione. Nell’interpretazione che segue si è volontariamente trascurato il contesto più preciso in cui il mito si colloca all’interno del dialogo. A maggio ragione sorvoliamo su tutta la discussione riguardante, ecc. Lo diciamo un mito, ovvero, un’immagine simbolica, vale a dire, un’immagine visibile e tale però che ciò che viene scorto fa immediatamente cenno a qualche cos’altro. Qui ci sarebbe da fare un altro richiamo a un altro frammento di Eraclito, dove dice che l’oracolo di Delfi né dice né nega ma accenna, allude: parla attraverso un mito, né più né meno. L’immagine accenna, guida verso qualcosa che deve essere compreso... Guida verso qualcosa: questo sarebbe già una riflessione interessante intorno al mito, e cioè l’idea che il mito guidi verso qualcosa. …cioè conduce nell’ambito della comprensibilità, nella dimensione entro la quale si comprende in un senso, da qui immagine simbolica. Ma si faccia attenzione: ciò che è dato da comprendere non è un senso ma un accadere. Badate bene. Senso. Qui fa un riferimento: Sinn, in tedesco medio-alto è uguale a intelletto, riflessione, e non, senso. Il tedesco usa Sinn per dire il senso. C’è un testo famoso di Frege, Sinn und Bedeutung (Senso e significato). Senso significa soltanto che si tratta di qualcosa che è in qualche modo comprensibile. Ciò che viene compreso non è mai esso stesso senso, noi non comprendiamo qualcosa in quanto senso ma sempre e solo qualcosa nel senso di. Il senso non è mai il tema del comprendere. L’esposizione di un mito, di un’immagine simbolica, non è dunque nient’altro che un accennare che fa vedere. Dare un cenno mediante ciò che viene presentato in modo direttamente intuitivo. Questo accennare, che dà immagini intuitive, ci conduce a quello che la semplice descrizione, fosse anche la più fedele e libera dimostrazione, fosse anche la più rigorosa e convincente, non riescono mai a cogliere. C’è già un’allusione a uscire dall’astratto e ad aprirsi al concreto: è questo che sta dicendo. C’è quindi una intima necessità nel fatto che Platone, ogni volta che in filosofia vuole dire qualcosa di ultimo e di essenziale, ricorre al mito ponendoci di fronte a un’immagine simbolica. Perché il mito per il greco antico non era come si intende oggi, ma è qualche cosa, diceva bene prima Heidegger, che conduce verso una comprensione. Ecco perché dice che Platone, quando deve dire qualcosa di importante, utilizza il mito, cioè, utilizza una via per accedere alla possibilità della comprensione. Non dà una definizione, questa pone un accento sull’astratto sempre e necessariamente, mentre quello che intendeva Platone è mostrare che l’astratto vive nel concreto, cioè che l’ente non c’è senza l’essere. Non che egli non abbia ancora chiara la cosa. Non è che costruisce questo mito perché non gli è ancora ben chiara la cosa. No, gli è anzi oltremodo chiaro che essa non è né descrivibile né dimostrabile. È come chiedere a qualcuno “definisci l’πείρων, definisci l’illimitato, definisci l’infinito”. Sì, certo, si fa per comodità, attraverso un finito, naturalmente; quindi, non ho affatto definito l’infinito, perché è una contraddizione in termini: infinito e definito sono due opposti, per cui se è infinito non è de-finito, letteralmente. C’è qualcosa in ogni filosofia genuina di fronte a cui ogni descrivere o dimostrare falliscono e scadono in un vuoto affannarsi, quand’anche si tratti di brillantissima scienza. Già solo il fatto che Platone parli dell’λήθεια in un mito ci dà il cenno decisivo verso la direzione in cui dobbiamo cercare, in cui dobbiamo esporci a essa, se vogliamo avvicinarci all’essenza della verità. Ma questo qualcosa di indescrivibile e indimostrabile… Badate bene, questo qualcosa di indescrivibile e di indimostrabile non è l’enigma, il mistero, ma è il concreto, è il tutto, è il linguaggio, che non ha nulla di misterioso. Ma questo qualcosa di indescrivibile e di indimostrabile è ciò che è decisivo e l’intero sforzo del filosofare è quello di giungervi. Concludiamo così le considerazioni introduttive, la vostra comprensione non dipende in primo luogo dal fatto che comprendiate il greco male, per nulla oppure in modo eccellente e nemmeno del fatto che abbiate una maggiore o minore conoscenza delle dottrine filosofiche, ma soltanto dal fatto che ognuno di voi per sé abbia esperito, o sia pronto a esperire, la necessità di essere qui ora, dal fatto che ognuno di voi parli qualcosa di ineludibile o lo reclami a questa storia. Senza di questo tutta la scienza rimane solo un addobbo e a maggior ragione tutta la filosofia soltanto facciata. Cosa sta dicendo qui Heidegger ai suoi allievi? Sta dicendo loro di aprirsi al concreto, cioè, voi siete abituati ad avere a che fare solo con enti, con astratti, ponendoli come l’astratto dell’astratto, credendo che questo ente sia il tutto, cioè, sia l’essere, il linguaggio stesso. No, l’ente non è il linguaggio. L’ente ha come condizione il linguaggio per esistere, perché senza il linguaggio, senza l’essere, senza il λόγος, senza l tutto, non c’è l’ente, non c’è niente. Quindi, aprirsi, accogliere il fatto che l’ente è soltanto un astratto, che da solo non esiste. Adesso leggeremo la traduzione di Heidegger del mito della caverna. Siamo al Capitolo I, I quattro stadi dell’accadere della verità. Ora trattiamo del mito della caverna nella Πολιτεία di Platone. Libro VII, 514a, 517a, concependolo come un cenno che ci rimanda all’essenza della svelatezza (λήθεια). Nell’interpretazione procediamo in modo tale da spiegare l’uno dopo l’altro ogni singolo stadio, ma facendo sì che l’essenziale non siano i singoli stadi, bensì i passaggi dall’uno all’altro e, quindi, l’intero cammino che essi formano. Sono importanti questi passaggi che fa Platone e che vedremo. Importanti perché costituiscono i passaggi su cui si è impiantato tutto il pensiero occidentale, quindi, il pensiero planetario. Tutto il nostro pensiero è retto su questo, sul mito della caverna. Come ci avvertiva Heidegger, non è da prendere come un mito, come una cosa secondaria, ma come un mito nel senso di un accennare, di un indicare una direzione per accogliere e non per capire nel senso di determinare o delimitare, ma per accogliere l’λήθεια. Il primo stadio non sarà affatto compreso con la spiegazione di esso soltanto, ma lo sarà dopo aver spiegato il secondo e a rigore dopo la spiegazione dell’ultimo. Il mito viene presentato da Platone in modo che sia Socrate ad esporlo mediante un’immagine simbolica: il dialogo con Glaucone. Come si fa il più delle volte, anche noi potremmo riassumere comodamente il contenuto del mito in alcune tesi seguite da una spiegazione e un’applicazione pratica altrettanto breve. Ma così non saremmo nemmeno sfiorati dall’essenziale, né tantomeno seguiremmo il cenno così da giungere alla questione decisiva. Questo modo di procedere consueto e spicciolo non ci è affatto di aiuto. La prima cosa da fare, se vogliamo evitarlo, è affidarci completamente al testo. Come diceva anche Gentile: prendere il testo e leggerlo, dalla prima all’ultima riga. Soltanto così saremo forse colpiti anche noi dalla forza del componimento platonico, e nella comprensione di una filosofia questo non è certo un aspetto secondario, né un supplemento estetico. Leggerò di volta in volta il testo greco indicando la traduzione che potrà servire solo come ripiego. Incomincia così. Socrate: Immaginati di vedere degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna. Il suo ingresso è in alto, rivolto al chiarore del giorno e si estende lungo tutta la caverna. In questa dimora gli uomini si trovano fin dall’infanzia incatenati alle gambe e al collo; per questo essi rimangono allo stesso posto e guardano solo a ciò che sta davanti a loro, che è alla loro portata. A causa delle catene non sono in grado di girare la testa, ma un chiarore viene a loro da dietro, da un fuoco che brilla dall’alto e da lontano. Tra il fuoco e gli uomini incatenati alle loro spalle corre in alto una via lungo la quale immaginati sia costruito un muretto simili agli schemi che i giocolieri erigono davanti agli spettatori e al di sopra dei quali mostrano i loro giochi di prestigio. Glaucone: Lo vedo. Socrate: E vedi come lungo questo muro degli uomini portino suppellettili di ogni tipo, statue e altre figure di pietra e di legno, oltre a oggetti vari fabbricati dagli uomini. È naturale che alcuni dei portatori si intrattengano a parlare, mentre altri tacciono. Glaucone: Una strana immagine presenti, estranei prigionieri. Socrate: Uguale a noi uomini perché che cosa credi? Esseri simili dapprima non vedono di se stessi come degli altri nient’altro delle ombre proiettate dalla luce del fuco sulla parete della caverna che sta loro di fronte: Glaucone: Come potrebbe essere diversamente se per tutta la vita sono costretti a tenere immobile il capo? Socrate: Ma che cosa vedono delle cose trasportate dietro di loro? Non vedono forse proprio questo, cioè, ombre? Glaucone: Che cosa se no? Socrate: Se ora essi fossero in grado di parlare fra loro di ciò che vedono, non credi che prenderebbero ciò che vedono là per ciò che è? Glaucone: Necessariamente. Socrate: Ma cosa accadrebbe se quel carcere emettesse un eco dalla parete che sta loro di fronte alla quale guardano. Ogni volta che parla uno di essi che stanno dietro di loro, credi che essi riterrebbero che ciò che parla sia qualcosa di diverso dalle ombre che passano loro davanti? Glaucone: No, affatto, per Zeus. Qui finisce la prima parte. Proseguiremo la prossima volta.