21 febbraio 2024
Aristotele Confutazioni sofistiche
Siamo all’ultimo libro dell’Organon, le Confutazioni sofistiche. A pag. 1685. Ora, invece, parliamo delle confutazioni sofistiche, cioè di quelle che “sembrano” essere confutazioni ma che, in realtà, piuttosto che confutazioni, costituiscono dei ragionamenti sbagliati… /…/ Dunque, in primo luogo, che alcuni sillogismi siano effettivamente tali, mentre altri “sembrino” esserlo ma non lo siano effettivamente, è evidente. Infatti, quello che capita anche in altri casi a causa di qualche somiglianza tra ciò che effettivamente ha determinate caratteristiche e ciò che le ha solo in apparenza, capita anche per i ragionamenti. Questo è l’avvio. Ci sta dicendo che esistono delle confutazioni vere e delle confutazioni false, così come anche le dimostrazioni, naturalmente. A pag. 1687. Il sillogismo, infatti, procede da alcuni elementi che sono stati posti, in modo che, attraverso ciò che è stato posto, si dice necessariamente qualcosa di diverso da esso, mentre la confutazione è un sillogismo da cui deriva la contraddizione della conclusione. La contraddizione non è il contrario, ma è il particolare che nega l’universale. Certi ragionamenti, al contrario, non hanno questa struttura ma “sembrano” averla, e questo può capitare per molte ragioni; e, tra esse, il luogo più proficuo e diffuso, è costituito dal fatto di dipendere dai nomi. Dal fatto di essere parole. Infatti, dal momento che non è possibile discutere portandosi dietro le cose, e che, al posto delle cose, ci serviamo dei nomi utilizzandoli come simboli, riteniamo che quello che vale per i nomi valga anche per le cose, proprio come fanno con i sassolini quelli che fanno i calcoli. Ma non è la stessa cosa: infatti i nomi sono di numero finito così come la quantità dei discorsi, mentre le realtà sono infinite per numero. Dunque, è necessario che uno stesso discorso e un unico nome significhino più cose. Uno stesso discorso e un unico nome significano più cose: è ciò che indicava con omonimia nei Topici. Cosa fanno i sofisti, propriamente? Perché è vero solo fino a un certo punto quello che ci sta dicendo qui Aristotele, e cioè che ci sono false confutazioni, false dimostrazioni. Lui stesso dice nei Topici, ma già negli Analitici, che ogni dimostrazione è falsa, inganna, e, di conseguenza, ogni confutazione. È come se i sofisti avessero colto quei problemi che Aristotele riscontra nella logica e li utilizzassero a proprio vantaggio. Facciamo, a questo proposito, un’allegoria… Allegoria è un termine che viene dal greco, ἄλλος e λέγειν, cioè, dire qualche cos’altro rispetto a qualche cosa, ma un qualche cos’altro che è connesso per analogia. L’allegoria è questa: è come se i sofisti fossero stati degli hacker ante litteram, cioè, coglievano la falla che c’è nel sistema, nel linguaggio in questo caso, nel discorso dell’altro, e lo utilizzassero a proprio vantaggio, cioè, per modificare il discorso dell’altro, per modificare il programma. Cogliere la “falla” nel sistema, messa tra virgolette perché non è propriamente una falla, anche se in Aristotele in alcuni casi sembra porsi in questi termini; più che falla è un problema che c’è nel linguaggio. Cogliere il problema che c’è nel linguaggio non è altro che compiere questa operazione: se l’interlocutore pone un’affermazione che vuole mostrare come stanno le cose, allora io gli dico che questa affermazione ha molti significati e, quindi, non può volere definire, determinare solo quella situazione ma anche altre che, magari, la contraddicono. Se, invece, l’interlocutore si avvale del fatto che ciascuna cosa significa molte cose, allora io gli dico che sì, è possibile, ma se non utilizzi un significato preciso, allora quello che dici significa tutto e niente, quindi, non puoi affermare quello che affermi. Quindi, in entrambi i casi c’è la possibilità di confutare l’altro, sia che affermi una cosa sia che affermi il contrario, sfruttando quella falla nel sistema, che però non è una falla ma il funzionamento stesso del linguaggio. Il linguaggio è un sistema chiuso, non possiamo uscirne, funziona come l’infinito attuale, un infinito attuale in cui è presente l’infinito potenziale, cioè, è presente l’infinita divisibilità o, in questo caso, la infinita polisemia della parola. Una parola significa infinite parole – come dire che è un elemento infinitamente divisibile –, ma questo è nell’infinito attuale. E, allora, ecco che ci si pone innanzi la questione affrontata da Gödel, anche se il nostro approccio è differente, in quanto non è aritmetico ma teoretico e, di conseguenza, più semplice, più pulito e più efficace. In quanto infinito attuale, posso decidere del significato di un elemento all’interno dell’infinito attuale; posso farlo eliminando l’infinito potenziale e, allora, diventa decidibile ma non completo, perché ho eliminato una parte integrante dell’infinito attuale; dunque, è decidibile ma non completo. Se, invece, io non elimino l’infinito potenziale, allora accade che quella parola non è decidibile perché mi si presenta immediatamente come l’infinito di tutte le parole di cui è fatta e, dunque, in questo caso, se mantengo l’infinito potenziale all’interno dell’infinito attuale, allora il sistema è sì completo – c’è anche l’infinito potenziale di cui è fatto – ma non è più decidibile. Ecco il teorema di incompletezza di Gödel. Lui lo dimostra aritmeticamente – un centinaio di pagine di calcolo proposizionale complicatissimo –, trasforma tutte le formule ben formate, quindi, variabili di ogni genere e connettivi, in numeri che, poi, utilizza per dimostrare che il sistema, in questo caso l’aritmetica, o è decidibile o è completo, ma non entrambe le cose insieme. Invece, l’approccio teoretico ci mostra che queste due cose si coappartengono perché l’infinito attuale è fatto anche dell’infinito potenziale, non esiste senza l’infinito potenziale; non lo chiamerei infinito attuale, non avrei motivo di chiamarlo infinito; se lo chiamo infinito ci sarà pure un motivo, e cioè a causa della infinita divisibilità degli elementi che lo costituiscono. Anziché della divisibilità noi parliamo di significazione, della infinita polivocità di ciascun elemento linguistico, ma la questione è questa. Anche Gödel, in fondo, da neoplatonico, cercava l’uno; non lo trova propriamente, ma è come se alla fine giungesse a dire che sì, c’è l’uno ma, se pongo l’uno, devo togliere i molti, se voglio i molti devo togliere l’uno, e così non arriva mai alle tre parole famose di Eraclito: questo uno, da cui lui vuole togliere i molti, è i molti, non li può togliere perché, se toglie i molti, toglie anche l’uno. Ecco, quindi, la tecnica dei sofisti: sfruttano la falla del sistema, sfruttano il fatto che ciascuna parola è simultaneamente una e molti; quindi, se l’altro la pone come molti, io gli rilancio l’uno; se l’altro lo pone come uno, io gli rilancio i molti. In questo modo vinco sempre. È per questo che Platone non poteva vincere contro i sofisti, perché questi si erano accorti della falla del sistema, del fatto che il linguaggio funziona in questa maniera, con l’uno e i molti simultaneamente. Invece, Platone l’aveva detto esplicitamente che occorre separarli, perché l’uno è il bene e i molti sono il male. Poi, Plotino ingloba i molti, li fa procedere dall’Uno. Da qui la trinità, ripresa poi da Agostino, anche lui parla di ipostasi, per cui le tre ipostasi – l’Uno, l’Intelletto e l’Anima – diventano Padre, Figlio e Spirito Santo. Agostino è neoplatonico, lo dice lui stesso, si è formato con gli scritti di Plotino. Quindi, tutto ciò che ci racconta qui Aristotele verte propriamente su questo, e cioè su un problema, che lui, di fatto, non risolve. Come risolvere una cosa del genere? Perché il suo tentativo sarebbe quello di ricondurre la falsa dimostrazione o la falsa confutazione a quella vera e, quindi, in questo caso ricondurre i molti all’uno. Ma l’uno è fatto di molti. È lo stesso problema che aveva affrontato quando doveva distinguere il sillogismo dialettico da quello dimostrativo: come li distinguo? Perché quello dialettico ha una premessa non certa? Perché quello dimostrativo, invece? Lo dice lui stesso che viene dall’analogia; quindi, non c’è nulla di certo. L’analogia, come sappiamo, si fonda sul mi pare, mi sembra, ecc. A pag. 1705 dice una cosa curiosa. Per quanto poi riguarda i ragionamenti sbagliati derivanti dal fatto che non si è precisato che cos’è il sillogismo e che cos’è la confutazione, essi derivano dal fatto che c’è un difetto nella definizione. Come fa a dire che c’è un difetto nella definizione se la definizione non può essere dimostrata? Quale sarebbe il suo difetto? Infatti, la confutazione è la contraddizione della stessa e unica realtà, non di un nome ma di una realtà, e non facendo ricorso ad un termine sinonimo, ma proprio allo stesso nome. Dice una cosa strana: non facendo ricorso ad un termine sinonimo, ma proprio allo stesso nome. Non può fare ricorso alla realtà, perché questa realtà, la sostanza, è fatta delle categorie. Quindi, quando dice che bisogna confutare la realtà, questa realtà non è altro che le categorie e, quindi, nomi, parole. La cosa in Aristotele è la sostanza e gli attributi. A pag. 1715 dice una cosa bizzarra. Le confutazioni apparenti connesse alla “conseguenza”, poi, sono una parte dell’accidente; infatti, il conseguente è un accidente. D’altro canto, esso differisce dall’accidente, poiché mentre l’accidente è possibile coglierlo rispetto ad un’unica realtà… /…/ …la conseguenza riguarda sempre più cose; infatti, noi riteniamo che le cose che sono identiche ad una e medesima realtà siano identiche tra di esse, e da qui nasce la confutazione fondata sulla conseguenza. Cioè, sull’analogia. Ha descritto esattamente l’analogia. Dice riteniamo che le cose che sono identiche ad una e medesima realtà siano identiche tra di esse: perché? Questo, però, non è sempre vero, come ad esempio quando ciò si verifica per accidente. Infatti, sia la neve sia il cigno sono identici rispetto al fatto di essere entrambi bianchi. Ma non sono la stessa cosa. A pag. 1717. …tutti gli schemi rientrano all’interno dell’ignoranza della confutazione: 1) gli uni sono connessi al modo di dire, perché la contraddizione, che costituisce la caratteristica peculiare della confutazione, è apparente; 2) gli altri perché si contravviene alla definizione di “sillogismo”. Come si mette al riparo dai sofisti? Dicendo: questa è la definizione di sillogismo, quella che do io, quindi, voi dovete attenervi a questa definizione; solo se vi attenete a questa definizione allora è possibile controbattere; se non vi attenete no. Il problema è che non si attenevano, nel senso che mettevano in discussione anche la definizione di sillogismo; d’altra parte, chi l’ha stabilita? A pag. 1737. La differenza tra eristica e dialettica. Questi titoli sono dei traduttori. Inoltre, a chi dimostra non spetta il compito di pretendere una risposta affermativa o negativa, ma questo è piuttosto il compito che spetta a colui che conduce un’indagine; infatti, la tecnica investigativa rappresenta una specie di dialettica e non si rivolge a colui che sa, ma a colui che ignora e che pretende di sapere. Quindi, chi, rispetto alla realtà in questione, esamina le caratteristiche comuni è un dialettico, chi invece lo fa solo “apparentemente” è un sofista; e un sillogismo eristico e sofistico è, in un caso 1) quello che è “apparentemente” un sillogismo anche nel caso in cui la sua conclusione sia vera e 2) in secondo luogo, sono sillogismi sofistici ed eristici tutti quei ragionamenti sbagliati che, pur non usando il metodo che di volta in volta si addice a ciascun oggetto, “sembrano” procedere secondo la tecnica adeguata. Cioè, la “tecnica adeguata” è quella che lui ha stabilito. Io stabilisco le regole della discussione e obbligo tutti a seguire queste regole. A pag. 1739. …come l’ingiustizia in una gara consiste in un certo tipo di ingiustizia e si configura come una sorta di combattimento ingiusto… Ingiusto, cioè, non si attiene alle regole stabilite; vuole vincere a tutti non adeguandosi alle regole stabilite da Aristotele. È sufficiente che il sofista chieda ad Aristotele di rendere conto della necessità di tali regole che il sistemai incomincia a vacillare. Quindi, coloro che hanno l’obiettivo di vincere sono considerati “uomini litigiosi” e “amanti della disputa”, mentre coloro che hanno l’obiettivo di diventare famosi per ricavarci del denaro sono considerati sofisti; la sofistica, infatti, come abbiamo detto, è la capacità di ricavare denaro da una sapienza apparente; è per questo motivo che gli amanti della disputa e i sofisti mirano ad una dimostrazione apparente e utilizzano le stese argomentazioni, anche se non per gli stessi scopi, e la stessa argomentazione sarà “sofistica” ed “eristica”, ma non dallo stesso punto di vista… Sta dicendo una cosa strana perché, dice, da una parte utilizzano gli stessi strumenti, mentre ciò che fa la differenza è che l’uno lo fa per denaro mentre l’altro no. Sarebbe, dunque, questo che distingue un’argomentazione filosofica da una sofistica o eristica, perché, lo dice qui che utilizzano le stesse argomentazioni; e allora che differenza c’è? A pag. 1743. Infatti, anche uno che non conosce una realtà può essere in grado di mettere alla prova un’altra persona che, allo stesso modo, non la conosce, dato che quest’ultimo accetterà quello che viene affermato non sulla base di cose che conosce, né a partire da principi specifici, quanto piuttosto da ciò che ne deriva, e queste sono tali che, se uno le conosce, nulla impedisce che costui non conosca anche la tecnica, ma, non sapendole, necessariamente le ignora (di conseguenza, è evidente che quella investigativa non è scienza di nulla di determinato. Ed è per questo che ha per oggetto tutte le realtà; infatti, tutte le tecniche usano anche alcuni elementi comuni; perciò, tutti, anche coloro che sono incompetenti, in qualche modo si servono della tecnica dialettica e investigativa; in effetti tutti, fino a un certo punto, si sforzano di mettere alla prova coloro che si dichiarano sapienti. Per apparire più sapienti di loro, naturalmente. Tutti, dunque, fanno delle confutazioni; infatti, partecipano, senza il possesso della tecnica, e chi è capace di investigare mediante la tecnica sillogistica è un dialettico. Dice che anche gli incompetenti di una certa disciplina possono interrogare quello che è competente in quella disciplina, anche ignorando quella stessa disciplina. Ma perché può farlo? Tra l’altro, era quello che facevano i sofisti, i quali non erano esperti di tutto, erano solo esperti del funzionamento del linguaggio. Quindi, tutto ciò che la persona, anche lo scienziato, afferma i sofisti non lo valutano sulla base della tecnica che sta utilizzando, ma sugli asserti su cui si fonda per affermare quello che afferma. È un po' come se dicessero, di rimando a Kronecker che dice che i numeri non mentono: va bene, ma come lo sai? Dimostralo. A pag. 1775. …ogni volta che si prevede una domanda, bisogna anticipare l’avversario e prendere la parola prima di lui. In questo modo, infatti, si ostacolerà massimamente chi interroga. Quando si avverte che l’altro sta per fare una domanda che può mettere in difficoltà, occorre interromperlo all’istante, in qualunque modo. A pag. 1779. …se ci si accorge in anticipo dell’ambiguità, bisogna rispondere che la proposizione in cui si presenta il duplice significato di un nome o di un discorso è vera in un senso ma non in un altro, come nel caso dell’espressione “dire ciò che sta zitto”, che in un senso è vera mentre in altro no… E qui arriva alla questione: trasformare l’uno nei molti e trasformare i molti nell’uno: se uno sostiene l’uno gli rimando i molti, se sostiene i molti gli rimando l’uno. …e “le cose che si devono”, in alcuni casi significa che devono essere compiute e in altri no, dato che “le cose che si devono” si dicono in molti modi; se, invece, l’ambiguità rimane nascosta, bisogna correggere alla fine, aggiungendo alla domanda una precisazione del tipo “forse che è possibile dire le cose che stanno zitte?”. No, ma è possibile se intendono le cose che stanno zitte in questo senso. E lo stesso vale per quei discorsi che hanno il dirsi in molti modi nelle premesse: “forse non si comprende ciò che non si conosce?” – “Sì, ma non coloro che conoscono in questo modo”. Infatti, non è la stessa cosa dire che “non è possibile conoscere ciò che si sa” e dire che “una cosa non è possibile per coloro che conoscono in questo modo”. In generale, poi, bisogna opporsi, anche se l’avversario ha dedotto il sillogismo, dicendo che egli non ha negato la realtà che era stata affermata, ma soltanto il suo nome e, quindi, non vi è confutazione. Distingue, separa la realtà dal nome, cosa che nelle Categorie Aristotele poneva sullo stesso piano. A pag. 1781. Quindi, chi risponde deve distinguere; infatti, non è la stessa cosa “vedere con i propri occhi qualcuno che viene colpito” e affermare di “aver visto uno che viene colpito con i propri occhi”. Questa è un’altra tecnica, cioè, trasformare un’affermazione in un’altra, spostando la posizione delle parole, allo scopo di ridicolizzare l’affermazione. E c’è anche la questione posta da Eutidemo: “sai tu, in questo momento, stando in Sicilia, che al Pireo ci sono delle triremi?”. E ancora: “è possibile che un ‘uomo buono’ sia un ‘cattivo calzolaio’?; d’altra parte, è vero che un uomo buono può essere un cattivo calzolaio; di conseguenza, esisterà un ‘buon calzolaio cattivo’. Gli oggetti delle conoscenze buone sono buoni? Ma la conoscenza del male è buona, e dunque il male è una conoscenza buona. Sono giochi di parole. È vero dire, in questo momento, che tu sei nato? Dunque, sei nato in questo momento”. Che scopo hanno questi giochi di parole, che appaiono tra l’altro molto banali? In retorica hanno uno scopo: sminuire l’avversario, mostrando che le cose che sta dicendo possono apparire ridicole, inconsistenti. Ridicolizzare l’avversario è una delle modalità più potenti per eliminare qualcuno; una volta ridicolizzato, tutto ciò che avrà detto prima e che avrà detto dopo non conterà più nulla. A pag. 1791. Allo stesso modo si dovrà dire anche a proposito di “Corisco” e “Corisco istruito”: sono la stessa cosa o sono due cose diverse? Infatti, l’uno significa “questa realtà qui”, mentre l’altro significa “che ha una certa qualità”, e quindi non lo si può considerare separatamente. E a produrre il “terzo uomo” non è il fatto di considerarlo separatamente, ma il fatto di considerarlo come “questa realtà qui”. Infatti, non è possibile che esista come “questa realtà qui”, come ad esempio Callia. Né le cose cambiano se qualcuno dice che ad essere considerato separatamente non è il qualcosa di determinato ma la qualità; infatti, ci sarà comunque, al di là dei molti, qualcosa di uno, come per esempio la nozione di “essere umano”. Dunque, è evidente che non si deve accettare che ciò che è predicato di tutte le realtà in comune significhi “questa realtà qui”, ma che significhi o una qualità, o una quantità o qualcuna delle altre categorie. Qui Aristotele ha individuato la questione, e cioè che non possibile separare la realtà dalle sue determinazioni. La realtà è sempre legata alle sue determinazioni; quindi, quando parlo di qualche cosa, sto parlando delle sue qualità, della quantità o di qualcuna delle altre categorie: della cosa non posso parlare mai se non attraverso le categorie. A pag. 1799. Tutti i discorsi di questo tipo, poi, hanno queste caratteristiche: “è possibile che ciò che ‘non è’ sia? Tuttavia, dal momento che ‘è’ ciò che ‘non è’ è qualcosa. E allo stesso modo ciò che è ‘non sarà’, dato che non sarà nessuna delle cose che sono. “Ma è possibile per la stessa persona, nello stesso tempo, ‘essere fedele al giuramento’ e ‘spergiurare’?”. Qui sta facendo un esempio rispetto alla trasformazione complicatissima, come quella dell’essere e del non essere, riducendola a un’altra domanda che, utilizzando l’analogia, appare simile. Come dire: è possibile che qualcosa che è non sia? Dice no, proprio allo stesso modo in cui non è possibile che uno sia fedele a un giuramento e nello stesso tempo anche spergiuro, non è possibile, o è una cosa o è l’altra. Questa seconda cosa è quella conosciuta attraverso la δόξα: tutti sanno che, se uno è spergiuro, vuol dire che non è fedele alla propria parola. Che cosa ha a che fare qui l’essere con il non essere? Niente. Se io volessi affermare che l’essere è necessariamente differente dal non essere, utilizzando questo esempio dello spergiuro, è chiaro che dovrei immediatamente distinguere le due cose, e cioè dire che tra l’una cosa e l’altra non c’è alcuna relazione. “Ed è forse possibile che la stessa persona obbedisca e disobbedisca simultaneamente alla stessa persona?”. Oppure, si deve dire che l’“essere qualcosa” e l’“essere” non sono la stessa cosa (infatti, ciò che “non è”, se “è” qualcosa, non si può dire che per questo “sia” in senso assoluto… Qui fa intervenire l’assoluto. Questa cosa non è, va bene, ma non è non in senso assoluto. Tutto questo è in parte ripreso da Platone, che aveva usato per risolvere il problema del non essere di Parmenide. È interessante perché che cosa vuol dire che non è in senso assoluto? Che non riesce a cancellare i molti. Che non è in senso assoluto vuol dire che lascia questa porta aperta, non riesce a chiudere, non riesce a contenere i molti. Quindi, sì, non esiste, ma non esiste in un certo senso, non in senso assoluto perché, se cancello i molti, allora questa affermazione che faccio risulta, direbbe Gödel, incompleta. A pag. 1803. Per quanto riguarda, poi, i discorsi che dipendono dalla definizione della confutazione, come abbiamo detto nel breve accenno che abbiamo fatto precedentemente, ad essi bisogna opporsi esaminando la conclusione rispetto alla contraddizione, in modo da verificare se si tratterà della stessa cosa, considerata “nello stesso senso”, “in relazione alla stessa cosa”, “nello stesso modo” e “nello stesso tempo”. Qualora poi la domanda non sia stata fatta all’inizio, non bisogna accettare che è impossibile che la stessa cosa sia “doppia” e “non doppia”, ma bisogna affermarlo, anche se non in modo che, una volta accordati, si sarebbe poi possibile essere confutati. Tutti questi discorsi si fondano su questioni come le seguenti: “Chi sa che una determinata realtà è una determinata realtà, conosce quella realtà?”. Non necessariamente. E anche chi non conosce si trova nella stessa situazione. Ma uno che sa che Corisco è Corisco potrebbe non sapere che è istruito. Di conseguenza, la stessa cosa “la conosce” e “non la conosce”. Forse che quattro cubiti non è maggiore di tre cubiti? Ma da tre cubiti potrebbero derivare quattro cubiti in lunghezza e ciò che è maggiore è maggiore di una cosa minore. È la medesima questione, e cioè di fronte ai molti ricondurli all’uno e di fronte all’uno ricondurlo ai molti. D’altra parte, non c’è un’altra via. A pag. 1815. …altri sfuggono anche ai più esperti (ne è prova il fatto che spesso si disputa sui nomi: per esempio, se “ciò che è” e “l’uno” significano la stessa cosa o hanno un significato diverso per tutte le cose. Alcuni, infatti, ritengono che “ciò che è” e “l’uno” significhino la stessa cosa, mentre altri risolvono il discorso di Zenone e di Parmenide con l’affermazione che “l’uno” e “ciò che è” si dicono in molti modi, e le cose stanno in modo simile anche per i discorsi che si fondano sull’accidente e su ciascuno degli altri elementi… La questione dell’uno in Aristotele. Questione poi ripresa e su cui si fonda tutto il neoplatonismo. Per Aristotele l’uno e l’essere sono la stessa cosa, per Platone no. Platone viene utilizzato dai neoplatonici, per cui dall’uno procede l’essere. Aristotele, invece, non può essere usato dai neoplatonici perché Aristotele identifica l’uno con l’essere e questo comporta che anche l’uno non è altro che ciò che se ne dice. A pag. 1821. Dunque, ci eravamo proposti di scoprire una certa capacità di creare sillogismi su un problema proposto, a partire da quelle realtà che si danno come opinioni condivise; questa, infatti, è la funzione specifica della dialettica in quanto tale e della tecnica investigativa. Partire dalle opinioni comuni condivise. Ma poiché, a causa della sua vicinanza rispetto alla sofistica, bisogna non solo essere in grado di condurre dialetticamente un esame, ma anche “sembrare” farlo, per questo non abbiamo posto come compito della ricerca solo quello che si è detto, cioè il fatto di essere in grado di sviluppare un discorso, ma anche quello di difendere la tesi mediante le opinioni massimamente condivise. E di questo abbiamo anche spiegato la ragione, poiché era anche per questo che Socrate domandava ma non rispondeva; infatti, ammetteva di non sapere. È ovvio che è molto più facile interrogare che rispondere, e Socrate si metteva sempre nella posizione di chi interrogava, se invece doveva rispondere diceva di non sapere. Aristotele parla della vicinanza tra la dialettica dimostrativa e la sofistica, come ci stesse dicendo che le differenze tra loro sfumano. Lui lo aveva detto prima, in modo molto chiaro, che l’unica vera differenza sta nell’obiettivo: il sillogismo dimostrativo ha come scopo la conoscenza. La raggiunge? No, perché, come sappiamo, il sillogismo dimostrativo muove dall’analogia, dalla δόξα e, quindi, la conoscenza che trae è una conoscenza già presente nella δόξα, non va oltre. Il sillogismo dialettico, invece, ha come fine il dibattito con l’altro per vedere chi dei due ha ragione, cioè, chi dei due sostiene il vero. Mentre il sillogismo dimostrativo può essere fatto da soli con il pensiero, quello dialettico presuppone un confronto per cercare la verità. Quello sofistico ha come scopo, invece, il proprio guadagno. Ma la tecnica è la stessa, non c’è nessuna differenza, è soltanto l’obiettivo che cambia. Quindi, anche rispetto alle confutazioni sofistiche, non c’è una tecnica particolare per confutare. L’unica cosa che dice Aristotele è che i sofisti non si attengono alle regole stabilite, dice “attenetevi alle regole!”, ma l’altro giustamente dice: “perché?”. Quindi, è tutto assolutamente confuso e indistinguibile, così com’era indistinguibile la certezza sillogistica dalla δόξα: il sillogismo dialettico, dimostrativo e quello sofistico sono gli stessi, lo dice continuamente. Cambia l’obiettivo: quello dimostrativo vuole raggiungere la verità, quello sofistico vuole soltanto il guadagno, ma la verità non la raggiungono né l’uno né l’altro. Quindi, se dovessimo essere coerenti, è più infingardo e più mistificatore quello che costruisce sillogismi dimostrativi perché illude che, attraverso il sillogismo dimostrativo, si raggiunga la verità, quando sa perfettamente che non è così; almeno quell’altro lo sa e, quindi, è libero perché sa che non c’è la verità e, quindi, dove la andiamo a cercare? Certo, nella δόξα, in ciò che si crede, va bene. Ma è quell’altro il vero ingannatore, quello che costruisce sillogismi dimostrativi. Potremmo dire che lui è colui che mente senza nemmeno accorgersi di mentire; l’altro mente, ma almeno sa di mentire, sapendo perfettamente quello che fa. Bene, con questo abbiamo terminato la lettura dell’Organo, che è stata importantissima perché ci ha detto finalmente di che cosa parliamo quando parliamo di logica. Di ciò che abbiamo letto dovremo avvalerci per le letture successive, e la lettura successiva sarà la Fisica di Aristotele.