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21 febbraio 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Peirce mostra che qualunque cosa è un’inferenza, cioè un segno che rinvia a un altro segno. Questione non da poco perché a questo punto siamo indotti a considerare, come dice lo stesso Peirce, non soltanto che qualunque cosa, se è qualche cosa, è un segno, ma che questo segno rinvia a altri segni ed è un segno perché deriva da altri segni. È la semiosi infinita, quindi, non c’è nessun punto di partenza. Questo comporta anche che una qualunque teoria, un qualunque discorso, dal più articolato al più banale, è fatto di segni. Peirce aveva individuato due categorie nella formuletta a è b, l’essere e la sostanza, dove a è la sostanza, ciò che ci appare, e la copula è semplicemente la possibilità che questa a, la sostanza, trovi una sua definizione. Quindi, dicendo che a è b stiamo dicendo che a è un’altra cosa, cioè per potere dire a devo dire un’altra cosa, per dire che cosa è a devo dire b, nel senso che se voglio descrivere questa penna devo dire altre cose che non sono questa penna. Fin qui nulla di nuovo, ovviamente. L’elemento da cui si parte, la sostanza, la a della formuletta a è b, sembrerebbe ciò che è, ciò che appare, però Peirce dice che questa penna, la vedo come una penna, non per una intuizione, ma perché ci sono state altre inferenze. Vale a dire, vedere questo come una penna è la conclusione di una serie di inferenze; ciascuna di queste inferenze procede da altre inferenze, e torniamo così alla semiosi infinita. Ma, allora, tutto ciò che Peirce dice procede da inferenze. Per esempio, dire che la qualità è il riferimento a un rispetto, a un ground, a un mondo, è un’affermazione fatta di inferenze, viene da altre inferenze, e quindi che cosa dice esattamente? Difficile a stabilirsi a questo punto, semplicemente prosegue nella costruzione di altri segni, in un continuo rinvio, senza fine. Quindi, applicando, come abbiamo fatto in altri casi, queste stesse affermazioni alle argomentazioni che troviamo in questo libro, non possiamo non affermare che ciascuna di queste affermazioni procedono da altre inferenze, le quali procedono a loro volta da altre inferenze, e così via all’infinito, senza mai potere fermarsi su nulla, quindi, sono affermazioni fondate su nulla. Questo Heidegger lo aveva inteso, a proposito della nullità: quando si vuole tornare all’Esserci che cosa si trova? Nulla, perché si è già spostato. Questo incomincia a farci notare una volta di più come funziona il linguaggio, come funzionano le parole, ed è un contributo che può essere interessante per intendere di più e meglio il funzionamento del linguaggio. Non so se troveremo cose nuove ma sicuramente le troveremo espresse in modo più semplice, più lineare e probabilmente poste in modo tale da consentirci di aggiungere qualche cosa di più rispetto alla questione del potere, della volontà di potenza, di cui parleremo più avanti. Però, intanto vediamo come prosegue. Come abbiamo visto, Peirce individua due grandi categorie, la sostanza e l’essere. La sostanza non è la cosa, per esempio rispetto alla parola penna, potrebbe anche essere il significante penna, cioè questo suono creato dalla p, e, n, n, a, potrebbe essere la sostanza. Però, questa sostanza deve essere messa in relazione con qualche cosa e ciò che la mette in relazione è il fatto che quando dico che “questa penna è…” e aggiungo una qualunque cosa, questa “è” mi dà la possibilità di dire che cos’è, cioè di definirla. Infatti, lui divide l’essere in qualità, relazione e rappresentazione. La qualità è il riferimento a ciò che appare; la relazione è un riferimento a un correlato, ma è il riferimento, il correlato, la pura relazione, dice soltanto che è in relazione con qualche cosa; da ultimo, la rappresentazione, che è il riferimento a un interpretante. Per Peirce l’interpretante non è che sia qualcuno, può anche esserlo eventualmente, ma l’interpretante è ciò che consente, a partire da tutto ciò che si è appreso, di rappresentarsi un qualche cosa. Quando dico “questa è una penna” ciascuno ha già un’idea di che cosa sia una penna, sennò non succederebbe nulla. Tutte queste idee, queste acquisizioni sono quelle cose che consentono di stabilire quella che Peirce chiama rappresentazione o simbolo. Vi ricordate l’esempio “questa stufa è nera”. La prima cosa che si fa, secondo Peirce, è mettere insieme tutti gli elementi che compongono il ciò che appare, perché appare sotto una forma che è un insieme di elementi, la forma, il colore, l’altezza, la lunghezza, ecc. Quando dico “è” e come se mettessi insieme tutti questi elementi, li unisco in un’altra cosa e quest’altra cosa che compare è, per Peirce, la rappresentazione: descrivendo questa cosa io la rappresento. A pag. 20 dice Ciò comporta tre circostanze concrete: 1. La messa in opera di un rispetto o ground sotto il quale le varie apparizioni possono fra loro accordarsi;… Altezza, lunghezza, ecc. …2. L’introduzione di un correlato che definisca e delimiti concretamente il rispetto o ground;… Introduzione di un correlato, cioè fornire a questo insieme di cose, che io unisco, chiamiamola “percezione”, la possibilità di riferirsi a qualche cosa. Sapete che un segno è qualche cosa che si riferisce a qualcos’altro. 3. L’introduzione di un interpretante che metta concretamente in atto la relazione, stabilendo un terreno di comparazione o rappresentazione intermedia. Che cos’è che opera questo? Quella che lui chiama rappresentazione è tutto ciò che io so, ma non soltanto questo, rappresenta anche, e questo lo dirà più avanti, lo chiamerà l’abito, ciò che io sono abituato a pensare, tutto ciò che, per esempio, Heidegger chiama la chiacchiera, tutte le cose che io ho acquisite negli anni. Sono tutte queste acquisizioni che costituiscono l’interpretante, vale a dire, ciò che darà un senso a ciò che vedo. Si tratta solo di questo: dà un senso a quello che vedo, consente di dare un senso a qualcosa che appare. A pag. 22. La logica, scrive Peirce, “tratta del riferimento dei simboli in generale ai loro oggetti”. Tenete sempre conto che quando parla di oggetto, a cui si riferisce un simbolo, è un altro simbolo, non è mai la cosa in sé. Simbolo va qui inteso nel senso, ancora molto generico, di segno, e cioè come “ciò che sta al posto di” (supponit pro), secondo la definizione dei logici medioevali. Ma dal momento che qualsiasi oggetto è potenzialmente un segno … allora potremmo anche dire, nel senso più generale, che la logica è la scienza di tutte le cose, in quanto esse possono funzionare come segni. In altri termini, la logica coincide, senza residui, con la semiotica. In fondo, questo è uno degli aspetti più importanti in Peirce, cioè, intendere che la logica è una scienza dei segni. Detto questo in generale, si tratta ora di precisare meglio la natura del segno, compito che Peirce svolge, nel saggio che stiamo esaminando, esclusivamente in riferimento alla teoria categoriale appena costruita. L’elenco delle categorie, cioè, fornisce la base per una prima classificazione dei segni. Innanzitutto, il campo complessivo dei segni è circoscritto alla terza categoria intermedia, e cioè alla rappresentazione. Perché la rappresentazione è quella che fa di un segno un segno; gli altri due aspetti, da soli, non esistono, cioè l’apparire di qualche cosa e poi il fatto che questo qualche cosa sia in relazione con qualche cos’altro. Occorre che l’essere in relazione con qualcos’altro si concreti in una effettiva relazione. Il punto essenziale, però, concerne il modo in cui le rappresentazioni si rapportano ai loro oggetti, ovvero, nei termini tradizionali della logica, il modo in cui le intenzioni seconde si rapportano alle prime. Le intenzioni seconde sono per Peirce le rappresentazioni; le prime sono le percezioni, quelle immediate, che poi non sono mai immediate ma mediate. Peirce riconduce tale modo alle già studiate circostanze concrete che occasionano l’inserimento delle tre categorie intermedie (o accidenti) fra l’essere e la sostanza. (pagg. 22-23) Quelle che abbiamo visto prima. Ciò significa allora che i segni sono rappresentazioni del modo in cui l’essere (la copula “è” come apertura di uno spazio logico di determinabilità infinita) riconduce a unità la sostanza (che è, come sappiamo, il semplice atto dell’attenzione che esibisce il molteplice delle impressioni). E, cioè, questa rappresentazione, il significato che do a una certa cosa, è ciò che unifica le mie sensazioni, per esempio, tattili, visive, acustiche. Poi, stabilisce tre punti. 1. La rappresentazione si rapporta ai suoi oggetti, o rappresenta i suoi oggetti, in riferimento al rispetto (ground), prescindendo dal correlato e dall’interpretante. Cioè, la rappresentazione si rapporta unicamente a ciò che appare, non al correlato, che sarebbe la sua potenzialità, né al segno e al suo significato. In questo caso, la rappresentazione della “nerezza” come segno che unifica un molteplice. Vedo tante cose ma tutte queste cose si unificano nella nerezza. Segni di questa natura sono chiamati da Peirce somiglianze (più tardi icone). Sul piano logico essi corrispondono ai termini. L’icona è semplicemente ciò che si mostra, che ha una somiglianza fra le sue varie parti. Per esempio, il fermaglio, il cappuccio, tutte le cose di cui è fatta questa penna, hanno una somiglianza tra loro, anche se, torno a dire, tutte queste cose sono possibili da pensare solo se c’è il significato, cioè la rappresentazione. 2. La rappresentazione si rapporta ai suoi oggetti in riferimento al rispetto e al correlato, prescindendo dall’interpretante. Avremo allora una relazione o corrispondenza di fatto fra due oggetti. Ad es., un cartello in un museo con una freccia che indica l’uscita e la porta donde si esce dal museo. In questo caso abbiamo la sostanza, cioè il cartello, ma anche qualche cosa che indica. E, infatti, lo chiama indice, è una cosa che indica. Sul piano logico essi corrispondono alle proposizioni (una proposizione, dice Peirce, indica sempre un generale rapporto fra un relato e un correlato, che fungono in essa come soggetto e predicato). Una proposizione indica sempre un qualche cosa, cioè parla sempre di qualche cosa. Se io parlo, parlo di qualcosa. 3. La rappresentazione si rapporta ai suoi oggetti in riferimento al rispetto, al correlato e anche all’interpretante. Avremo allora una relazione a tre termini in cui la rappresentazione si rapporta ai suoi oggetti tramite un’altra rappresentazione. Ad esempio, la relazione tra la parola homme e un uomo reale è resa possibile dalla rappresentazione intermedia “uomo” come quell’animale terrestre, bipede, razionale, ecc. Segni di questa natura sono chiamati da Peirce segni generali o simboli. Sul paino logico corrispondono ai ragionamenti (argomentazioni, sillogismi). Poco dopo. La sensazione dunque è un segno ipotetico… In quella divisione che fa Peirce la sensazione sarebbe la sostanza, rivela la sostanza. …che ha la potenzialità di entrare in relazione con un correlato, stabilendo con esso una corrispondenza di fatto (ogni volta che “c’è del nero”) ci aspettiamo la “stufa”, e poi con un interpretante che lo sollevi a simbolo vero e proprio (allora il nero diviene una rappresentazione consapevole all’interno di un ragionamento relativo alla qualità-colore di questa stufa). Questa forma, che muove dalla sensazione, è un segno ipotetico, cioè fa un’ipotesi, parte da ciò che vedo e raggiunge non una certezza ma un’ipotesi. Peirce fa un esempio per distinguere l’ipotesi, o come la chiama lui, l’abduzione, la chiamava così anche Aristotele, dall’induzione e dalla deduzione. Fa tanti esempi, ne posso riprendere qualcuno. C’è stato un blackout, la lampadina non si accende e non si accende perché c’è stato il blackout. Forse… ma non siamo sicuri, potrebbe anche essersi bruciata la lampadina o può essere successa qualunque altra cosa. Quindi, parte dalla sensazione per trarre un’inferenza ipotetica. Infatti, dice che la sensazione è una correlazione che stabilisce, come segno ipotetico, una relazione, una corrispondenza di fatto: ogni volta che c’è del nero c’è la stufa. Forse… magari è qualcos’altro. Però, questa forma di inferenza, l’abduzione, è l’unica forma, secondo Peirce, che non soltanto è la più diffusa in assoluto, non dà una certezza, certo, ma è quella che, aprendo a un’ipotesi, consente una maggiore ricchezza di pensiero. Dico “forse è questo…” e questo mi costringe a riflettere sul fatto che può essere questo ma anche quest’altro e verificare eventualmente quale di queste sia quella giusta, per esempio. Cosa che non avviene nell’induzione. L’esempio più banale di induzione: ieri è sorto il sole, ieri l’altro anche, il giorno prima anche, da un milione di anni è sorto il sole, dunque sorgerà anche domani. Anche questa non è una certezza, però non lascia, secondo Peirce, la possibilità di articolare ulteriormente questa inferenza. L’induzione ha a che fare con l’indice, cioè tutte queste particolarità, ieri, ieri l’altro, un milione di anni fa, vengono raggruppate in un universale. Dice, allora, Gli indici sono a loro volta segni astratti che possono entrare successivamente in relazione con un interpretante. Il principio logico che presiede al sorgere di questi segni è quello della inferenza induttiva (in cui si stabilisce una corrispondenza di fatto progressivamente generalizzata fra un relato e un correlato). E, cioè, il fatto che se il sole è sorto da sempre, allora sorgerà anche domani. Sul piano fisiologico ciò corrisponde alla formazione degli abiti o abitudini. Ci ha abituato a pensare così, nessuno organizza la sua giornata di domani pensando alla eventualità che non sorga il sole. Come mai? La relazione o corrispondenza di fatto fra il colore nero e la stufa (il suo calore, ecc.) funziona come segno per il nostro comportamento (o abito di condotta)… (pagg. 24-25) Come dire che è ciò che stabilisce semplicemente un’abitudine, come siamo abituati a fare: uscendo da quella porta ciascuno di voi immagina di incontrare quello che ha lasciato prima, e cioè un androne e poi una strada. Restereste sorpresi se non trovaste più nulla. Perché pensate di trovare queste cose? Per induzione, perché è sempre stato così, quindi, non c’è motivo di pensare che adesso cambi tutto. I simboli sono finalmente segni concreti, o segni generali, come dice Peirce, che implicano somiglianze, indici e le loro relazioni in virtù di un terzo, che è appunto il simbolo stesso. Ciò equivale, sul piano fisiologico, all’attenzione, e su quello logico all’inferenza deduttiva che presiede alle argomentazioni o ragionamenti. Ogni ragionamento, dunque, esige la presenza di una rappresentazione intermedia, e cioè di un simbolo o segno generale. In un ragionamento, osserva Peirce, le premesse formano una rappresentazione della conclusione… cioè, l’anticipano. …poiché esse indicano l’interpretante del ragionamento stesso. Vale a dire, indicano qual è quell’abito di pensiero entro il quale si trarrà la conclusione. Ma noi sappiamo che la rappresentazione si rapporta ai suoi oggetti in tre modi, e cioè in riferimento al rispetto o ground, in riferimento al correlato e in riferimento all’interpretante. Ciò corrisponde, come si è mostrato, alle tre classi di segni che Peirce chiama somiglianze, indici e simboli o segni generali. Ne consegue allora che le premesse di un ragionamento potranno rappresentare in tre modi la conclusione, ovvero fornendo una somiglianza, un indice o un simbolo della conclusione stessa. Il primo caso… quello della sensazione come segno ipotetico. …ci riporta al ragionamento o all’argomento ipotetico… … Per es.: i fagioli che sono sul tavolo sono tutti neri; ma tra i vari sacchi di fagioli che sono nella stanza questo solo contiene dei fagioli neri; dunque i fagioli sul tavolo sono stati presi da questo sacco. È Peirce che fa questo esempio dei fagioli, anche se lo fa diverso, per distinguere i tre tipi di inferenza. Altri modi di inferenza non esistono, dice, esistono solo questi tre. Qualunque discorso si faccia, qualunque argomentazione si costruisca, abbiamo a disposizione solo questi tre modi di inferenza: abduzione, induzione e deduzione. Cosa dice la deduzione? Utilizziamo l’esempio dei fagioli di Peirce. Tutti i fagioli di questo sacco sono neri, questi fagioli vengono da quel sacco, pertanto, questi fagioli sono neri. La deduzione non lascia altre possibilità, non è un’ipotesi. Deduce, cioè sottrae da qualche cosa qualcosa mantenendo il qualche cos’altro. Nell’induzione, invece, è totalmente diverso. Questi fagioli sono neri, questi fagioli vengono da quel sacco, tutti i fagioli di quel sacco sono neri. Non è sicuro che sia così. Però, prendo un fagiolo, ne prendo poi un altro, alla fine mi convinco che tutti i fagioli che prenderò saranno neri. Un po’ come il sorgere del sole al mattino, è la stessa cosa. Invece, nel caso dell’abduzione si conclude con un “forse”. Infatti, dice …i fagioli che sono sul tavolo sono tutti neri; ma tra i vari sacchi di fagioli che sono nella stanza questo solo contiene dei fagioli neri; dunque i fagioli sul tavolo sono stati presi da questo sacco. Forse, perché potrebbero essere stati presi da qualche altra parte. Questa forma di inferenza, l’abduzione, è quella che, per esempio, si usa nelle indagini di polizia: tutti gli assassini tornano sul luogo del delitto, questo è sul luogo del delitto, quindi, è l’assassino. Forse…, magari passava di lì per caso. Però, apre una possibilità, questa è la cosa importante: l’abduzione apre alla possibilità. Le altre due forme no, l’induzione passa dal particolare e arriva a un universale, dice “tutti”, poi, non ha la certezza ma lo afferma. La deduzione procede, invece, dall’universale al particolare, mantenendo ciò da cui è partita. Infatti, l’esempio che fa lui: tutti fagioli contengono acqua, questi sono fagioli, dunque, contengono acqua. Non c’è un’apertura verso qualche cosa. L’abduzione, dicevo, è quella forma di inferenza che consente un’apertura verso altre possibilità, che conclude sempre con un “è così… forse, potrebbe anche non essere così”. Il prossimo capitolo a pag. 26, molto interessante si chiama Semiosi e realtà. Due ordini di questioni rendono particolarmente problematici i risultati conseguiti da Peirce con i suoi primi saggi. … vi è la questione già ricordata delle prime premesse o delle impressioni elementari sulle quali l’inferenza dovrebbe poggiare. Qualunque inferenza poggia su ciò che si vede, su una sensazione, ovviamente, e quindi bisogna vedere se questa sensazione, se questo primo elemento da cui si parte, procede anche lui da inferenze oppure no, c’è invece qualcosa di solido, di stabile, di sicuro, da cui partire. Seguendo invece il filo della questione che ci sta a cuore (la semiosi infinita), procederemo delimitando la traccia del discorso peirceano ad essa relativa. Peirce … inizia con un attacco a fondo contro la teoria dell’intuizione. L’intuizione è generalmente considerato un modo di accedere al significato, alla sostanza delle cose, immediato, quello che, per esempio, cercava Husserl, è quell’idea fulminea che fa comprendere le cose, apparentemente senza nessuna relazione con altro. È l’idea, che qualcuno aveva formulato, del colpo di pistola, viene in mente la cosa immediatamente, senza nessuna relazione con niente. Possiamo tentare di sintetizzarne così le argomentazioni. Innanzi tutto: una cosa è avere un’intuizione e un’altra è rendersi conto intuitivamente di aver avuto un’intuizione… Ho avuto un’intuizione? Come lo so? Anche questa è un’intuizione? …ora, come sappiamo di aver avuto un’intuizione? Forse per intuizione? Ma la questione è proprio di sapere se ci sono delle intuizioni e che cosa esse sono. Forse che noi abbiamo il potere intuitivo di distinguere un’intuizione da qualsiasi altro tipo di conoscenza? Certo, un tale potere ci potrebbe sembrare di averlo, ma di fatto non lo abbiamo. Ce lo testimonia una gran quantità di fatti contrari ai quali nessun fatto positivo si contrappone, salvo la nostra mera convinzione soggettiva di aver avuto un’intuizione. Così, per esemplificare, i filosofi e gli uomini in genere non si sono mai accordati su quelle nozioni che, secondo alcuni o secondo altri, sarebbero intuitive e perciò fuori discussione;… in altri termini: ciò che ora ci appare evidente, intuitivo, all’inizio non fu né intuitivo né evidente; la prima volta dovemmo procurarci tali conoscenze mediante un’azione mentale e cioè mediante un’inferenza in uno dei suoi tre tipi o in una loro combinazione. Un’analisi più ravvicinata di alcuni casi tipici mostra inoltre che proprio quelle conoscenze che siamo soliti considerare intuitive derivano da un’inferenza. Ogni sensazione, ad es., non è per nulla un fatto elementare e originario, ma un processo di inferenze fisiologiche (inconsce); anche la conoscenza del nostro io deriva dal rapporto con gli altri io e dal linguaggio; e persino la conoscenza dei nostri stati d’animo non dipende affatto da un supposto potere intuitivo di introspezione, ma ancora una volta da un’inferenza rivolta alle cose a ai fatti esterni: è dal valore che diamo alle cose che ci circondano, dal loro apparirci belle o brutte, gradevoli o sgradevoli, che noi apprendiamo di essere felici o tristi, allegri o adirati e simili. L’inferenza, in conclusione, si sostituisce a ogni caso di supposta intuizione. (pagg. 27-28) Dice, dunque, dal valore che diamo alle cose. Questo ci rimanda a quello che diceva Nietzsche: è dal valore che noi diamo alle cose che queste cose ci appaiono vere, importanti, ecc., ma noi diamo un valore alle cose in base a che cosa? Al fatto che ci servano oppure no, direbbe Nietzsche, per il superpotenziamento, per avere più potere. E qui ci si mostra qualcosa che potrebbe essere importante riprendere più avanti, e cioè che la prima sensazione che ho ovviamente non procede da un’intuizione ma da un’inferenza, ma questa inferenza, o questa serie infinita di inferenze, non sono casuali. Questo lo direbbe Freud. Non sono casuali, e questo lo direbbe Nietzsche, perché sono quelle che sono utili al superpotenziamento. Prosegue dicendo Ma l’inferenza non si può porre in un istante come un atto assoluto, come un assoluto incominciamento; essa è, per sua natura, relativa, il che significa che il contenuto conoscitivo di un’inferenza è sempre determinato da precedenti contenuti conoscitivi. “Nessuna conoscenza, dice Peirce, che non sia determinata da una conoscenza precedente, può venir conosciuta”… Come la conosco se no ho altri elementi prima? …e d’altronde una conoscenza che non può venir conosciuta non esiste. Bisogna assumere dunque la tesi di una serie infinita di conoscenze, anche se ciò possa apparire a tutta prima paradossale. Ciò che conosciamo e sappiamo, lo conosciamo e sappiamo per inferenza, non per intuizione. Ma inferire comporta attivare una relazione tra un fatto non ancora noto e un fatto già noto, sicché ogni inferenza presuppone uno stato di conoscenza anteriore, e questo stato un altro stato, in una serie infinita. Lo stesso è da dirsi del processo del pensiero. “Il solo pensiero che possa venir conosciuto, scrive Peirce, è pensiero nei segni (thought in signs). Ma un pensiero che non possa venir conosciuto non esiste. Perciò tutto il pensiero deve essere necessariamente nei “segni”. Detto in altro modo: noi non possiamo pensare senza segni. Ma, “dalla proposizione che ogni pensiero è un segno segue che ogni pensiero deve rivolgersi a qualche altro pensiero, dal momento che questa è l’essenza di un segno”. Il pensiero non può “accadere in un istante”, come un atto di intuizione assoluto; esso richiede tempo. Ma ciò equivale a dire “che ogni pensiero deve essere interpretato in un altro, o che tutto il pensiero è nei segni”. … La demolizione del concetto di intuizione e il concomitante rifiuto del concetto di “inconoscibile”… qualcosa di inconoscibile è una contraddizione in termini per Peirce. … comportano una revisione profonda dei concetti di realtà e di conoscenza. Secondo la comune opinione vi sono due modi di conoscere: per apprensione diretta e per ragionamento o inferenza. Inoltre, la conoscenza costituirebbe un modo di approccio alle cose intese come autonomamente reali rispetto al processo conoscitivo stesso. (pagg. 28-29) Pensate alla metafisica: le cose sono così come sono per virtù propria. In terzo luogo, l’atto conoscitivo avrebbe il compito di rispecchiare le cose così come sono. In altre parole, la conoscenza raggiungerebbe il suo scopo quando riuscisse a rispecchiare in modo veritiero le cose nella loro realtà… Era l’idea di partenza di Husserl: le cose stesse, l’idea che le cose potessero da sole manifestarsi immediatamente, cioè senza nessun mezzo, senza linguaggio, quindi, ma soltanto apparire così come sono. Questi tre modi di vedere risultano invece, alla luce delle premesse peirceane, del tutto insostenibili e inconsistenti. Sappiamo giacché non esiste conoscenza per apprensione diretta, ma che ogni conoscenza è un atto di inferenza che rinvia a una serie infinita, a un processo di cominciamenti, come anche dice Peirce. Una serie di cominciamenti. Ogni volta che io affermo qualche cosa, questo qualche cosa procede da un’altra cosa, questa da un’altra, e così via all’infinito, per cui, ogni volta che io dico qualche cosa, è un modo di incominciare un’altra direzione, un incominciare un’altra cosa, che è data dal sapere, ecc. Però, non c’è conoscenza diretta della cosa ma ogni volta si incomincia a conoscere, e si incomincia a conoscere a partire da ciò che già si sa, perché si passa da ciò che è noto all’ignoto, questo ignoto diventa noto e questo consentirà di affrontare qualche altra cosa di ignoto. Secondo l’opinare comune questo modo di presentare la conoscenza sarebbe prima di tutto assurdo e in secondo luogo, qualora si fosse costretti ad accoglierlo, comporterebbe la vanificazione di ogni atto del conoscere e la riduzione a un totale relativismo scettico. Secondo Peirce è vero precisamente il contrario. La comune opinione chiede: non è forse assurdo negare che la conoscenza abbia un inizio definito? (pagg. 29-30) Il senso comune dice: si parte pure da qualche cosa, che deve essere così? Se la conoscenza è un processo che indefinitamente risale all’indietro, quando e come essa sarebbe allora cominciata? Queste sono le domande che si pone il luogo comune. Non dobbiamo forse ammettere un punto di partenza, una prima apprensione di qualcosa, un dato semplice e originario? Peirce risponde: che significa “prima apprensione” e “dato originario”? che si esprima o no questa supposta prima apprensione, questo supposto dato originario, questa premessa supposta immediata, essa non potrebbe fare a meno di essere un predicato, ovvero ciò che si dice o che si potrebbe dire della cosa appresa; ma poiché “predicare una cosa di un’atra equivale a stabilire che la prima è un segno della seconda”, la premessa altro non sarebbe che un segno, il quale, come ogni segno, non farebbe che trasmettere una informazione sulla cosa, cioè non farebbe che significarla, trametterne il significato, e niente affatto presentarla nel suo supposto essere reale in sé. Ciò che mostra è che viene da un’altra cosa, non è reale in sé. Io vedo una cosa, una montagna, questa è reale in sé? No, viene da un’altra cosa, che io ho appreso. È la cosa che Heidegger chiamava pre-comprensione. O si sostiene che l’apprensione, l’intuizione, o come altro si voglia dire, presentano la cosa com’è in se stessa, e allora bisogna spiegare come questo miracolo sia possibile, come sia possibile cioè che la realtà si “travasi” nel conoscere sic et simpliciter, e bisogna spiegare altresì che tipo mai di conoscenza sia questa che non è un rapporto, ma anzi la cosa in carne e ossa, proprio lei come è in sé e niente altro. Come avviene che questa conoscenza si travasa in me a un certo punto? Ma che tipo di conoscenza è mai questa, che non è un rapporto tra una cosa un’altra? Come fa una conoscenza a non essere un rapporto tra una cosa e un’altra? Se non lo fosse non avrebbe alcun significato, perché un significato è un rapporto, uno spostarsi da una cosa all’altra, sarebbe cioè fuori dal linguaggio. Tutto ciò è palesemente arbitrario, misterioso e anzi autocontraddittorio. Oppure bisogna ammettere che l’apprensione, l’intuizione e simili, “significano” la cosa, e allora bisogna anche ammettere un processo di inferenza tra segni che non può per essenza arrestarsi a un supposto cominciamento immediato. Questo cominciamento immediato, infatti, da dove arriva se non da un’altra cosa? ma se si è compresa sino in fondo questa alternativa, allora ci si accorge che se le cose stessero come l’opinare comune crede, non sarebbe per principio possibile alcuna conoscenza veritiera, laddove una conoscenza che raggiunga l’oggetto è possibile proprio se essa è un inferire relativo e infinito. (pagg. 30-31) Io non posso stabilire un punto di partenza. In base a che cosa, in relazione a che cosa lo stabilisco? Se è una reazione allora è un’altra e allora non è più il punto di partenza, ce n’è un altro prima. L’unico modo per dar conto dell’atto del conoscere consiste dunque nel riconoscere che la realtà e la conoscenza stanno insieme in un unico universo, e cioè che “le cose reali, come dice Peirce, sono di natura cognitiva e perciò significativa”. Il che comporta che la cosa non se ne stia come un in sé prima e fuori del processo del conoscere, ma che essa sia essa stessa in cammino nel processo del conoscere, in un long run. Questo però è lo stesso che dire che tutta la realtà è un segno, un processo di significati in cammino. Verso il significato successivo. La semiosi infinita non è una proprietà esclusiva del conoscere, ma è anche e al tempo stesso una proprietà del reale. A pag. 32. “Reale”, dunque, è un segno, ovvero, ciò che chiamiamo “reale” non è una mera “cosa”, o un mero “fatto” semplicemente e univocamente collocato al di là della catena infinita delle inferenze, ma è invece un fatto interno, o un significato, di quella catena. Come dire che “reale” è nel linguaggio, è nella catena linguistica o, come la chiama Peirce, segnica. Come significato il reale è pertanto rivolto a un interpretante, e anzi in primo luogo a quell’interpretante che, come dice Peirce, è la mente o il pensiero. È rivolto a un interpretante, cioè se non c’è un discorso, un racconto, una narrazione, entro la quale una qualunque cosa possa inserirsi, questa cosa non significa niente. È soltanto lungo questa catena che qualcosa può significare, soltanto se questa cosa appartiene a questa catena di segni è qualche cosa, e il reale non è altro che l’essere in cammino di questa catena di segni, un cammino infinito.