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21/2/96

 

Riconsiderando la Sofistica nelle sue le varie sezioni, sono giunto a considerare che la condotta di chi si trova nella posizione di analista, segua questa sorta di andamento. Siamo partiti dalla logica, e la logica dice che non c’è uscita dal linguaggio e considera la struttura del linguaggio, e considerandola giunge appunto a questa conclusione, che non c’è uscita dal linguaggio. Ora, detto questo, allora le cose non possono non dirsi, e si dicono per ciascuno in un certo modo e con questo avevamo indicato l’aspetto retorico, dopo di che, le cose dicendosi in un certo modo producono qualche cosa inevitabilmente, ciò che indicavamo con la poetica, la poiesis, la produzione e, tenendo conto di questo, considerare che ciò che si fa, la condotta di ciascuno, non è per nulla esente da ciò che dice, da ciò che pensa, dalle proposizioni di cui è fatto il discorso in cui si trova. Perché è importante una cosa del genere? Considerate il trovarsi di fronte ad un discorso, uno qualunque non importa di chi, vi trovate di fronte a una persona che vi parla, che vi dice delle cose. Qual è la posizione nei confronti di questo discorso che si va svolgendo o, se volete dirla in un altro modo, come cogliere questo discorso? Dal momento che ciascuno può attribuire a questo discorso qualunque cosa, cioè interpretarlo nel modo che gli pare più opportuno, come poi di fatto avviene. E in questa operazione che cosa avviene? Succede che questo discorso che viene fatto si traduce, si interpreta, cioè si da un senso a questo discorso. Può un discorso che ascolto non produrre alcun senso in me che lo ascolto? Questione di un certo interesse, ciò che ascolto, cioè i vari elementi che si seguono l’uno all’altro non possono non avere un significato, se non avessero un significato non potrebbero essere significanti, dunque non potrebbero essere accolti come atti linguistici e quindi non si porrebbe nessun problema, ma questa è un’altra questione. Ciò che intendevamo dire è che di fronte a un discorso, qualunque esso sia, non si tratta di applicare, come volevano gli scettici, di una sorta di epoché, cioè di sospensione del giudizio, non è di questo che si tratta propriamente, ma di un altra cosa, e cioè se questa stringa di significanti che ciascuno di voi ha di fronte, in quanto tale è nulla, è assolutamente nulla, cioè non dice nulla. Ma come è possibile un fenomeno del genere? A quali condizioni ciò che io ascolto è qualche cosa? Ècome se qualcuno, ascoltando un discorso di un altro dicesse: lui dice così, ma in realtà vuol dire quest’altra cosa. Questa sembra forse l’unica via per potere interpretare un discorso, cioè di dirsi, anche se evidentemente non è che sia sempre in questi termini, che in realtà voleva dire questo. Pensate a tutta l’ermeneutica per esempio, in definitiva fa questo. Ma se non so ancora che cosa l’altro vuole dire dicendomi qualcosa, non so assolutamente che cosa mi sta dicendo, badate bene, qualunque cosa mi dica, la sola cosa che posso fare è prendere atto del fatto che mi sta dicendo queste cose, cioè mi sta dicendo questi significanti in quella successione, in quel modo, in quel momento. Di fatto in quel momento nulla mi autorizza a fare nulla più di questo, prendere atto che mi ha detto qualcosa. Che cosa? Qualunque traduzione io pensi o immagini, risulta assolutamente arbitraria, anche se è pur vero, l’abbiamo detto in varie occasioni, che si da una sorta di gioco linguistico a cui ciascuno grosso modo si attiene. Pensate per esempio ai luoghi comuni, sono fatti apposta per potere consentire al linguaggio di svolgersi in un certo modo, se uno dice una qualunque cosa, io capisco quello che mi dice, potremmo dirla così: capisco quello che mi dice ma non so cosa mi dice. Come se voi vi trovaste di fronte a un frammento di iscrizione, girate a Pompei e trovate un coccio con su una iscrizione latina, con una frase presa da un testo che è scomparso, voi capite cosa c’è scritto ma non sapete che cosa sta dicendo, anche se capite tutte le parole. Questa distinzione che sto facendo, anche se molto approssimativa, molto rozza, allude a una questione che può risultare tutt’altro che marginale. Quando vi trovate ad ascoltare qualcosa, capite chiaramente ciò che vi viene detto, ma non sapete che cosa vi si sta dicendo. Ora tutto ciò è già implicito nella Sofistica, in ciò che ho scritto, però si tratta di esplicitarne alcuni aspetti e questa sembra piuttosto importante, perché in definitiva ne va di ciò che fa il Sofista. Ora provate a volgere tutto questo rispetto non a ciò che ascoltate di altri, ma a ciò che voi dite, al discorso in cui vi trovate. Io parlo e quindi produco una serie di significanti, capisco quello che dico il più delle volte, ma so che cosa sto dicendo? La domanda intorno al “che cosa” sto dicendo allude al “che cosa” produco, che cosa si produce in ciò che dico. Ora immaginate che io dica qualche cosa, per esempio le cose che sto dicendo e supponga, per qualche motivo, che le cose che dico non facciano null’altro che descrivere uno stato di cose che io ho reperito, che io ho trovato ecc. A questo punto evidentemente ciò che dico è soltanto una descrizione, un’illustrazione, ciò che le mie parole producono è soltanto la manifestazione di qualche cosa che mentre dico si configura così com’è, in questo caso le mie parole sono uno strumento, uno strumento per esprimere un qualche cosa che è al di là o al di qua di qualcos’altro. Mentre ciò che andavamo dicendo va probabilmente in un’altra direzione, e cioè che le cose che sto dicendo non manifestano, né esprimono assolutamente nulla che sia da qualche parte, semplicemente costruiscono altre proposizioni utilizzando un criterio che è quello che ho deciso di adottare. D’altra parte è quanto posso dire, qualunque altra cosa sarebbe assolutamente arbitraria, gratuita, negabile in qualunque momento. Il criterio che ho deciso di adottare, come sapete, è quello di formulare proposizioni che non possono essere negate, ma questo ci dice soltanto che ci atteniamo a ciò che la struttura del linguaggio ci impone, null’altro che questo, ma facendo questo troviamo anche qualche cosa di più sorprendente, e cioè che qualunque cosa mi trovi a dire, a pensare o immaginare inevitabilmente e irreversibilmente delle parole in cui mi trovo, come dire ancora...

- Intervento:...

certo, tiene conto di una struttura. Perché tenere conto di questo criterio in questa operazione anziché di un altro? Per una questione di libertà, se volete metterla così, perché è il criterio che mi consente di accogliere effettivamente qualunque cosa che il discorso produca, senza limiti di sorta e non ci sono limiti perché non c’è nulla che venga accreditato come vero, come necessariamente vero, vero nell’accezione di corrispondenza alla realtà, in accezione antica come adæquatio rei et intellectus. Tutto ciò che dico non è né vero né falso, né è sottoponibile a questo criterio, nel senso che se voglio posso sottoporlo a questo criterio come a qualunque altro, ma non faccio nulla di straordinariamente interessante, allora dunque ciò che dico in quanto tale è nulla di per sé, ma è qualche cosa in quanto rinvia inevitabilmente a ciò che segue. Ma perché questo rinvio possa darsi e perché questo rinvio possa acconsentire a un altro rinvio ancora, è necessario che nulla intervenga ad arrestare questo percorso. Che cosa interviene ad arrestarlo? La supposizione che ad un certo punto ciò io dico corrisponda a qualche cosa che è fuori da ciò che dico, solo a questa condizione si arresta, se no, non si arresta. Ma non arrestandosi mi impedisce ovviamente di potere pensare che quello che io dico sia altro all’infuori della stringa di significanti in cui mi trovo e che produce, con tutto ciò che questo comporta, e vale a dire l’impossibilità di credere ciò che dico. Se non credo ciò che dico, allora effettivamente posso parlare. Ecco, riflettevo su questa nozione di libertà, libertà assoluta, estrema, la libertà di potere confrontarsi con qualunque discorso intervenga in ciò che dico, se questo discorso è immaginato la manifestazione o l’espressione di qualche cosa che è fuori della parola non posso confrontarmi, posso soltanto adeguarmi e attenermi a questo. Allora voi vi trovate di fronte a un discorso, torniamo a ciò che dicevamo all’inizio, qualcuno vi parla, cosa vi sta dicendo? Non avete alcuna idea di cosa vi sta dicendo, anche se, come dicevo, capite quello che dice. Consideriamo due aspetti: o ciò che vi sta dicendo non vi interessa minimamente, e allora il problema è subito esaurito, oppure per qualche motivo invece vi interessa, ma allora, in questo caso, è soltanto la persona che sta facendo questo discorso che potrà dire di che cosa si tratta e cioè che cosa sta dicendo, voi di fatto non avete nessun elemento per poterlo dire, e quindi qualunque cosa pensiate che questa persona stia, dicendo vale quanto qualunque altra e il suo contrario. Differente è, dicevamo, il caso in cui sia io a parlare, allora sì, è vero che ciò che dico di per sé è nulla, è nulla cioè mi lascia libero di accogliere ciò che segue e così via, una sorta di costruzione continua dove ciò che si costruisce sono parole, nulla al di fuori di questo. L’unica difficoltà sta nel considerare che laddove vi sia una fortissima tentazione di arrestare questo percorso, come se l’eventualità di inarrestabilità di questo percorso potesse mostrarsi come assolutamente intollerabile, allora sorge la formulazione che afferma che è così perché non può essere altrimenti che così, e quindi deve essere così. Non sempre si formula in questo modo però. Non è propriamente neanche il nichilismo, dicevamo venerdì, non si tratta di piangere la perdita di qualcosa, anzi, non si perde niente, si acquista continuamente altro, altri elementi, ciò che si perde è la necessità di attribuire un valore o di stabilire come stanno le cose. In questo senso tutto ciò che andiamo facendo è un lavoro prettamente teoretico, mettiamo una piccola variante alla nozione di teoresi così come è comunemente intesa, ponendola come una riflessione, una considerazione intorno alle condizioni e agli effetti della parola. C’è una questione importante a questo riguardo, potremmo dirla così, in modo un po’ bizzarro, sapete perché una persona si affanna, si angoscia, si preoccupa, si dispera? Perché non ha niente di meglio da fare, letteralmente.

- Intervento: il piacere non è più piacere...

Facciamo un esempio, immaginiamo che io mi trovi di fronte a una situazione che mi da un grande piacere, per qualche motivo, ora provo questa sensazione evidentemente, e allora posso o tenermi questa sensazione, questo piacere, fin che dura, oppure aggiungere a questa sensazione altre cose che non tolgono nulla a questo piacere, ma è come se utilizzassero questa sensazione piacevole che ho provata, per cogliere altri elementi. che poi magari con quella sensazione...

- Intervento:...

se c’è l’angoscia evidentemente qualche cosa si è fissato in modo tale da non potere essere considerato come un elemento linguistico ma, così come nel caso più frequente dell’angoscia come attesa di un pericolo non identificato, ma credo all’esistenza di questo pericolo...

- Intervento: se uno sa che l’angoscia è nella parola, tutto questo si smonta, questo montare e smontare...

Sì e no, ci sono due aspetti che occorre considerare, il primo è che l’angoscia, come il piacere, come qualunque altra cosa attenendoci a ciò che dicevo prima, in quanto tale è nulla, è nulla e pertanto a questo punto la sensazione che provo di piacere o di angoscia, non ha nessun modo per potere stabilirsi in modo tale da creare e consolidare la supposizione che ciò che sto pensando corrisponda esattamente alle cose così come sono. Stavo dicendo che qualunque sensazione io mi trovi a sentire, non è che mi metto lì e la interrogo...

- Intervento:...

Sì, parlavo del piacere in un’accezione particolare, cioè di una sensazione che comunemente è nota come tale, ma ho parlato di piacere tempo fa in un’altra accezione, e in questa accezione il piacere non può togliersi né sospendersi, laddove proceda dall’accogliere ciò che mano a mano, lungo il discorso si va producendo, così, con curiosità e con sorpresa.

- Intervento:...

Allora sì, in questo caso nell’accezione comune, ha breve durata è piuttosto effimero...

- Intervento: anche l’angoscia allora ha breve durata.

Sì, talvolta ha breve durata anche questa, però ciò che a noi interessa è intendere qualcosa di più preciso rispetto non tanto al piacere o all’angoscia, ma a una sorta di disposizione nei confronti di ciò che mi trovo a pensare o a dire, qualunque cosa sia e in qualunque circostanza. Quando può accadere che una cosa che si considera piacevole cessi di esserlo? A quali condizioni?

- Intervento:...

Anche, certamente, anche un differente modo di pensare le cose, tante cose che per esempio da bambini facevano un gran piacere, da adulti possono lasciare indifferenti, qualche cosa accade per cui il piacere può variare, ciò che rimane è qualche cosa che non ha più moltissimo a che fare con la situazione che ha fornito il pretesto, l’innesco per provare il piacere, ma con ciò che si produce nel mio discorso in seguito a qualche cosa che è avvenuta. Ora di questo posso rendermi conto e tenere conto, che questa cosa che è avvenuta è tale perché esiste nel discorso di cui vado dicendo e di cui sono, per così dire, “l’autore”. Ed è questo che dicevo tempo fa, rispetto al piacere propriamente...

- Intervento:...

In un certo senso, dicevamo che di fatto ciò che si cerca in moltissime occasioni produce sì del piacere, ma la differenza sta che in alcune circostanze questo piacere non è ammesso in quanto tale, allora si faceva l’esempio della sofferenza, se vi ricordate, ci chiedevamo come avviene che una persona soffra pur non essendo obbligata a farlo, dicendo anche altre cose evidentemente, ma ciò che rimane in tutto questo è che se io mi trovo a provare una sofferenza, di qualunque tipo, nessuno me l’ha ordinata questa sofferenza, ciò che io considero tale è ciò che si produce dal mio discorso, e a questo punto sono rinviato al mio discorso e accolgo la responsabilità, come se io “volessi” mettiamolo fra virgolette, volessi ciò che si sta producendo. Posta la questione in questi termini, magari incontro l’occasione di chiedermi per quale motivo io cerchi una cosa del genere o che funzione ha (Freud lo chiamava il tornaconto), cioè inserisco elementi tali per cui cesso di pensare che questa cosa mi sia capitata così, fra capo e collo, ma la considero come un elemento che attiene al mio discorso, al discorso che sto facendo, che pertanto non avendo nessun referente fuori da ciò che dico è lì che va considerata, esattamente in ciò che dico e non fuori di questo, e quindi sono rinviato, come dicevo prima, al discorso in cui mi trovo, ai suoi effetti, alle sue produzioni e di conseguenza considero questa sofferenza che mi è capitato di provare come una produzione de mio discorso, già questo potrebbe condurmi in una posizione molto differente, e cioè cessare, per esempio, rendendomi conto che è una produzione del mio discorso, cessare di pensare che possa esserne la vittima, di subire una cosa che mi accade così perché gli dei me l’hanno imposta, ma come una proposizione, cesso di soffrire a quel punto? In una certa accezione sì, nel senso che non è più sostenibile, e non è più sostenibile in quanto esistono delle condizioni, esistono delle condizioni perché si possa soffrire, condizioni precise,...

- Intervento:...il fatto che soffrire sia altro...

Infatti è questo ciò a cui sto per giungere, dicevo che, in una certa accezione, non posso più soffrire, non c’è più modo proprio. Ma allora non si pone più come sofferenza, cessa di essere tale e rimane una proposizione che può dire tutta una serie di cose. Alcune le ho accennate, cioè che condizione ha, quali altri elementi mi induce...

- Intervento: come intendere che la sensazione è nella parola...

Noi in effetti non siamo partiti dalla domanda dove si trovi esattamente la sensazione, diciamo che è nella parola perché è ciò che di fatto ci consente di potere dire di un’emozione, quindi di potere accogliere una emozione, se in effetti fuori dalla parola io non posso né dire di provare un’emozione, né in nessun modo neanche pormi il problema, allora può esistere un’emozione? La questione l’abbiamo affrontata ultimamente in molte circostanze, giungendo alla considerazione molto banale che in effetti non potendone dire nulla di nulla, né quindi potere porsi la questione se si prova oppure no un’emozione, e quindi dire di provare un’emozione non significa assolutamente niente, allora non posso neanche dirlo, cioè non c’è proprio, posso dire che anche una pietra prova emozione però non ho detto un granché tutto sommato, cioè posso dire qualunque cosa e il suo contrario, però come dicevo proprio all’inizio, in questo lavoro ci siamo attenuti ad un criterio che ho ritenuto fosse meno arbitrario, cercando di eliminare quanto più fosse possibile proposizioni, affermazioni assolutamente gratuite. Se io dico che le sensazioni sono nella parola, faccio un’affermazione che dice qualcosa che non può essere altrimenti, che se la parola non si desse non potrei neanche farmi questa domanda, dire che la sensazione è nel cuore o nelle vene, sì, posso dirlo certo, ma allo stesso modo e altrettanto legittimamente potrei dire in qualunque altro posto, però non andrei molto lontano, posso anche dire che le emozioni me le trasmette dio, quando e come piace a lui, altrettanto legittimamente, perché no? Però non abbiamo accolto queste proposizioni a causa di questo, e cioè che ci impediscono di prendere una direzione. Nel senso che potremmo prenderne una qualunque altrettanto legittimamente, però tutto sommato questo non ha nessun interesse. Ecco perché abbiamo sottolineato questo aspetto, abbiamo utilizzato un criterio....

- Intervento:...

Non è neanche che risieda nella parola letteralmente, diciamo che attraverso la parola si può parlare di emozioni...

- Intervento: Peirce parlava di inferenze rispetto alle sensazioni.

Si, può anche provarsi effettivamente, come faceva lui, che ciascuna emozione non è altro che l’ultima proposizione di una serie di inferenze, che precedono necessariamente...

- Intervento: Ciascuna emozione interviene in modo diverso per ciascuna persona, se le emozioni esistessero di per sé dovrebbe esserci un criterio universale...

- Intervento: Emozione come inferenza?

- Intervento: È un prodotto di inferenze, una serie di proposizioni che si connettono l’una con l’altra...

- Intervento: Produzione della parola come un volere continuare a descrivere il fuori e dentro della parola. Quale l’economia, come la funzione?

La sofferenza può essere fuori dalla parola? No. Dunque se mi riguarda attiene al discorso in cui mi trovo. Può essere isolata da ciò che precede o da ciò che segue? No, sarebbe di nuovo fuori dalla parola.

- Intervento: Ma perché questa produzione interviene come descrizione....

- Intervento: Può essere isolata da ciò che precede o da ciò che segue? No sarebbe di nuovo fuori dalla parola.

- Intervento: Ma perché.. .all’infinito....

Ecco, immaginiamo, adesso io penso che mi succederà una cosa terribile, generalmente cosa avviene? Prendo atto di questa proposizione...

- Intervento: Perché cose terribili?

Perché sono quelle che preoccupano i più, uno non è preoccupato di stare bene, è preoccupato di stare male...

- Intervento:...

anche se sta male, a meno che non ci chieda di intervenire, se sta benissimo e lo stesso ci chiede di intervenire, noi interveniamo lo stesso. Non ci interessa che stia bene o che stia male, ci interessa quello che dice, poi che stia bene o stia male...

- Intervento:...

Perché interviene talvolta che una persona incominci a interrogarsi, proprio prendendo spunto da questo, da un disagio, da un malessere, è il più delle volte un’occasione, non sempre però...

- Intervento: Voglio sapere questa questione del piacere, non mi è chiara...

Una persona prova piacere, che problema c’è?

- Intervento: Se uno prova piacere di cosa ha bisogno?

C’è una variante. Il piacere che posso provare, se non mi rendo conto che questo piacere attiene al discorso in cui mi trovo o se invece tengo conto di questo, mi accorgo di questo, non è esattamente la stessa cosa, c’è una variante...

- Intervento: Ecco se io ne tengo conto, provo un altro piacere...

Possiamo dirla anche così

- Intervento: Tutto ciò che accade, tutto ciò che provo non è fuori dalla parola

- Intervento: Che cosa mi spinge...?

La libertà, nel senso che provare piacere per qualche cosa che si suppone fuori dalla parola vincola questo piacere a “quella cosa” supposta tale, e allora cosa succede? Che limita ciò che indicavo prima con libertà, cioè che se questa cosa per qualunque motivo cessa di porsi come tale, anche soltanto di porsi come piacere, può subentrare la necessità di possedere, di accaparrarsi questo elemento che produce piacere, ma ciò che si produce non è soltanto questo, è anche mano a mano il consolidarsi dell’idea che il mio piacere sia vincolato e direttamente dipendente da quella cosa, il che molto probabilmente non è. In questo senso dicevo che c’é una variante...

- Intervento: Posso anche non essere così ingenua.

Si, anche se non è solo questione di ingenuità, ma di struttura di pensiero.

- Intervento: Si, questo è il luogo comune, facevo il verso al luogo comune. Ma se è una cosa x che ti produce piacere, se io sono fermamente convinto che sia la cosa x a produrre questa cosa, come se effettivamente fossi vincolato alla necessità della presenza di questa cosa x, questo può impedirmi di muovermi con una certa libertà

- Intervento: Posso scegliere?

Scegliere? Ciascun elemento che si pone richiama inevitabilmente altri, può accadere che si faccia di tutto per impedire che questi altri si pongano, si faccia di tutto per barrarli, per continuare a pensare che è proprio quella cosa lì, la cosa x che produce piacere...

- Intervento:...è la questione del trauma. Nella civiltà occidentale si parla dell’oggetto di piacere...

Diciamo che è riferito all’oggetto, può esserlo.