21-1-2015
Ricordate che l’ultima volta eravamo rimasti sulla questione dell’interpretazione. Si chiede Heidegger: Quale interpretazione è la vera? Quella che non fa che desumere la sua prospettiva da ciò che è risaputo, ovvio, abituale o quella che mette radicalmente in discussione la prospettiva abituale, in quanto potrebbe essere, e di fatto è così, che tale prospettiva non conduca affatto verso quello che si tratta di scorgere? Indubbiamente rinunciare a ciò che è abituale per ritornare verso un’interpretazione problematizzante costituisce un salto, per saltare occorre prendere il giusto slancio, è questo slancio che decide di tutto in quanto significa che noi stessi riproponiamo realmente le domande, e solo in esse ci costruiamo le prospettive. Questo d’altra parte non è un procedere arbitrario e ancor meno attenendosi a un sistema assunto a norma ma soltanto per entro e in base alla necessità storica, alla necessità dell’esserci storico (sta dicendo che questo domandare non può porsi se non all’interno di un orizzonte storico cioè dell’uomo in quanto esserci, cioè in quanto è all’interno di un progetto che è soprattutto storico, è un progetto che non viene dal nulla, è un progetto che è sempre comunque prodotto dalla sua storia, dalla sua esistenza) λέγειν e νοεῖν, “raccoglimento” e “apprensione” costituiscono una necessità e un far violenza contro il predominante (il “predominante” vi ricordate era il permanere della “φύσις”) ma in pari tempo anche sempre a suo favore, così quanti esercitano violenza dovranno provare pur sempre un moto di spavento di fronte a questo uso della violenza non potendo tuttavia indietreggiare, in questo vuoto di spavento pur nella volontà di dominare deve per un attimo brillare la possibilità che il dominio sul predominante si conquisti nel modo più sicuro e più pieno quando si conservi semplicemente all’essere ossia allo schiudentesi imporsi che si fa presente in sé come logos, come insieme raccolto dei contrari la sua latenza inibendogli così in un certo ogni possibilità di apparire (sta dicendo molto semplicemente che è la metafisica che deve dominare le cose, è per questo che ha la necessità di stabilire e di determinare la realtà, di bloccare l’oggetto, di renderlo analizzabile, quindi il dominio sul predominante (φύσις) è l’obiettivo della metafisica propriamente) All’azione violenta del più inquietante compete questa audacia quella di rifiutare all’apparire del predominante ogni apertura per giungere così a padroneggiarlo (sta parlando della metafisica) innalzandosi fino ad esso per il fatto di precludere alla sua onnipotenza il luogo dell’apparire (è la metafisica che impedisce all’essere di manifestarsi, all’essere di apparire, di venire alla luce) se non che rifiutare una tale apertura all’essere non significa per l’esserci che questo: rinunciare alla propria essenza (cioè rinunciando all’apertura, rinunciando all’essere da parte della metafisica si rinuncia all’esserci, dice Heidegger, cioè alla vita autentica in definitiva) Questo richiede di uscire dall’essere oppure di non entrare mai nell’essere // Non aver mai assunto l’esserci με φύσαι vien detto dell’uomo come di colui che in questa essenza è assimilato alla φύσις come raccoglitore di questa (l’uomo assimilato alla φύσις vuol dire che è lui stesso che immagina di diventare l’essere) Questa “φύσις” “φύσαι” sono usati per significare l’essere dell’uomo mentre λόγος è impiegato nel senso di Eraclito come l’ordine predominante dell’essente nella sua totalità (vi ricordate che Eraclito aveva detto, almeno questa era l’interpretazione di Heidegger, che il logos è quell’ordinare dell’essere, ciò che pone ordine) Questa parola del poeta esprime l’intimo rapporto dell’esserci all’essere e alla sua apertura menzionando quello che rappresenta la maggiore distanza dall’essere (il “non esserci” ciò che è più distante dall’essere è il non essere ovviamente) qui si mostra la più inquietante possibilità dell’esserci quella di infrangere il predominio dell’essere esercitando la suprema violenza contro se stesso (questa è la possibilità dell’essere, il “non essere” come possibilità dell’essere ed è la cosa che per Heidegger risulta la più inquietante) Questa possibilità non costituisce per l’esserci una vuota scappatoia, egli stesso è (l’esserci) questa possibilità per il fatto stesso di essere giacché in quanto esserci è necessario che in ogni far violenza egli si infranga sull’essere. // La più alta vittoria sull’essere è rappresentata dal non esserci (potete intendere qui il “non esserci” come la metafisica) L’esserci è la necessità costante della disfatta, della sempre nuova insorgenza dell’atto di violenza contro l’essere e cioè in modo che l’onnipotenza dell’essere costringe letteralmente l’esserci ad essere il luogo del suo apparire e come tale lo domina circondandolo e pervadendolo e lo mantiene nell’essere, (dice che la più alta vittoria sull’essere è rappresentata dal non esserci, è il modo più potente per sconfiggere l’essere, il non esserci semplicemente, quindi l’esserci è la necessità costante della disfatta e della sempre nuova insorgenza dell’atto di violenza contro l’essere, perché l’esserci contiene questa possibilità di non essere) A dire una separazione di λόγος e φύσις ma non si tratta ancora di una secessione del logos, questo significa che il λόγος non si pone ancora di fronte all’essere dell’essente e non appare ancora di fronte a lui in modo da attribuirsi in quanto ragione una giurisdizione sull’essere ed assumere su di sé e regolare la determinazione dell’essere dell’essente, (questa separazione tra λόγος e φύσις di cui parla dice che ancora non è un allontanamento, una eliminazione del logos, cioè non si pone ancora di fronte all’essere, non si contrappone ancora all’essere questo avviene con la metafisica originariamente no, vi ricordate che “logos” era uno dei modi di indicare l’essere) A ciò il logos (infatti qui lo scrive non più in greco ma in caratteri latini per indicare questa differenza cioè quando intende logos come “ragione” quindi non più come era inteso, sempre secondo Heidegger, dai presocratici e cioè come uno dei modi dell’essere) a ciò il logos arriva solo allorché enuncia la sua originaria essenza in quanto l’essere come φύσις viene coperto e travisato (appunto) ne consegue un mutamento dell’esserci dell’uomo, la lenta conclusione di questa storia in cui da lungo tempo viviamo è costituita dal predominio del pensiero concepito come ratio (logos appunto) e sia nel senso che di intelletto che di ragione sull’essere dell’essente (quindi comincia a parlare della vittoria del logos inteso come ratio sull’essere, quindi della metafisica sulla φύσις potremmo dire) è a questo punto che incomincia l’alternativa fra razionalismo e irrazionalismo (cioè a seguito di questo) alternativa che si presenta ancora oggi sotto tutti i travestimenti possibili e sotto le più contrastanti denominazioni, l’irrazionalismo è solo la debolezza divenuta palese e il fallimento finale del razionalismo e per ciò è esso stesso una forma di razionalismo. L’irrazionalismo rappresenta una scappatoia dal razionalismo ma tale da non condurci in territorio libero bensì da irretirci ancor più nel razionalismo (“razionalismo” qui è sempre inteso in accezione di logos latino quindi come ratio appunto) mentre così dissimulato esso risulta maggiormente pericoloso potendo seguitare così il suo gioco indisturbato (lui sta affrontando adesso questa questione “come è avvenuto ciò che è avvenuto?” e cioè che gli umani a un certo punto dopo i greci, dopo l’autentico modo di porsi dei greci, questo λόγος che originariamente per i greci autenticamente era l’essere non era distinto dall’essere, dopo è diventato la ratio latina, si chiede come è potuta accadere questa cosa) Vediamo ora come si giunge a questa secessione, a questa priorità del logos (di nuovo scritto in latino) nei confronti dell’essere? Come avviene la determinazione decisiva, la separazione di essere e pensare? (vi ricordate? la famosa frase di Parmenide “essere e pensare sono lo stesso”) Si tratta anche qui di una storia che possiamo disegnare a grandi linee incominciando dalla fine chiediamo “come si presenta il rapporto fra “φύσις” e “λόγος” al termine della filosofia greca in Platone e Aristotele? come viene intesa la φύσις, qual è la forma e il ruolo che il λόγος ha assunto? Come si giunge a questa fine? In che consiste il motivo vero e proprio della trasformazione avvenuta? (questo è importante perché da questa secessione del logos dalla φύσις diventando il logos dei latini, della ratio, questo ha coinciso con l’abbandono dell’essere e cioè nel passaggio dall’autentico all’inautentico, all’uomo, come dice Heidegger in Essere e Tempo, all’uomo della chiacchiera, dice:) Primo punto: All’essere finisce da ultimo per imporsi la denominazione predominate e basilare di ἰδέα (εἶδος “ἰδέα” questo secondo lui è l’elemento intermedio quello che ha consentito il passaggio fra la φύσις come essere e il logos come ratio) da allora fino a oggi l’interpretazione dell’essere come ἰδέα domina l’intero corso del pensiero Occidentale attraverso tutti i suoi sviluppi questa origine spiega anche il fatto in quello che costituisce la grande definitiva conclusione della prima fase del pensiero Occidentale il sistema di Hegel, la realtà del reale, l’essere in senso assoluto è concepito come ἰδέα e viene così espressamente designato. Ma cosa significa che in Platone la φύσις viene interpretata come ἰδέα? (perché per Heidegger la “colpa” tra virgolette è di Platone, è stato lui ad avviare tutta questa catastrofe) È di fatto innegabile che l’interpretazione dell’ essere come ιδša risulta dall’esperienza fondamentale dell’essere come φύσις (cioè viene da lì) essa è per così dire una conseguenza necessaria della concezione dell’essenza dell’essere come “apparire schiudentesi” (cioè dice che questo passaggio dall’essere in quanto φύσις all’ἰδέα viene proprio dal fatto che l’essere è un apparire schiudentesi che è la forma autentica della manifestazione dell’essere) infatti non vi è più nulla che rappresenti un allontanamento oppure una defezione dal principio (certamente no) ma se ciò che è una conseguenza essenziale viene elevato al rango stesso dell’essenza collocandosi al suo posto che cosa succede? (sta dicendo che sembra una conseguenza questa del passaggio dell’essere come φύσις all’idea di Platone, dice “allora è il declino” e questo produce necessariamente, a sua volta, specifiche conseguenze) così è avvenuto, il fatto decisivo rimane non già che la φύσις sia stata caratterizzata come idea ma che l’idea si ponga come interpretazione unica e determinante dell’essere. Possiamo facilmente apprezzare la distanza che intercorre tra le due interpretazioni valutando la diversa prospettiva in cui si muovono anche queste due determinazioni essenziali dell’essere la φύσις e l’ἰδέα. La φύσις è lo schiudentesi imporsi, lo star lì in sé (è stabilità, Parmenide lo poneva in questo modo) ἰδέα è l’evidenza concepita come darsi alla vista, (badate bene qui “ἰδέα” è in accezione greca, non come ciò che poi ne è seguito anche se mantiene in parte il concetto greco e cioè come il manifestarsi, l’evidenza) è una determinazione dello stabile in quanto e soltanto in quanto sta di fronte a un vedere (l’idea per il greco è l’evidenza) ma la φύσις come schiudentesi imporsi è già anche indubbiamente un apparire, solo che l’“apparire” è ambiguo, apparire vuol dire anzitutto il raccoglientesi portarsi in posizione dell’insieme raccolto e così stare (qui ci ha messo dentro tutto: il raccoglientesi, ciò che raccoglie è il logos, si mette in posizione, nella sua posizione, questo è lo stare, lo stare della φύσις) ma apparire significa allora anche nello stare già presentare una faccia, una superficie, una evidenza che si offre alla vista. Ma il frammento di Parmenide non dice forse già che l’essere e l’apprensione sono reciprocamente connessi e quindi anche l’aspetto veduto è il vedere? È certo che al “vedere” compete un veduto, ma da ciò non consegue che l’esser visto come tale debba e possa determinare da solo la presenza del “veduto” (non ha mica tutti i torti, non è così automatico che l’essere visto in quanto tale possa determinare da solo la presenza del veduto, io posso vedere ciò che non c’è) il frammento di Parmenide non dice affatto che l’essere debba venire inteso solo in base all’apprensione ossia come qualcosa di semplicemente appreso ma invece che l’apprensione esiste per l’essere (sta dicendo che si sta attuando un passaggio tale per cui si giunge a immaginare che l’essere incomincia ad essere inteso solo in base all’apprensione, a ciò che mi si evidenzia, è questo il passaggio chiave, mentre invece per Heidegger, secondo lui per il pensiero autentico l’apprensione esiste per l’essere, mentre nella metafisica l’essere esiste perché lo prendo, lo apprendo, capite che è esattamente il contrario: Parmenide non dice affatto che l’essere debba venire inteso solo in base all’apprensione, come dire che non dipende dall’apprensione, ossia come qualcosa di semplicemente appreso, l’essere, ma invece sempre Parmenide dice che è l’apprensione che esiste perché c’è l’essere) L’apprensione deve aprire l’essente in modo da riportarlo al suo essere (questo è ciò che dovrebbe fare l’apprensione e cioè apre l’essente in modo da riportarlo al suo essere, assumendolo nel “che?” nel “che cosa?” del suo presentarsi e cioè in questo caso mantiene la domanda fondamentale. Mentre la metafisica considera l’oggetto, e in base a questa evidenza desume l’essere, invece dice Heidegger che è esattamente il contrario. Se qualcosa si evidenzia è perché c’è l’essere nella quale apertura è possibile la presenza dell’ente) D’altra parte l’interpretazione dell’essere come idea fa sì che non soltanto una conseguenza essenziale risulti falsata in quanto presa per l’essenza stessa ma che ciò che risulta in tal modo falsificato venga a sua volta frainteso e tutto ciò si verifica pur sempre nel corso dell’esperienza e della concezione greca dell’essere (quindi non è un cosa recente sta dicendo Heidegger, infatti appunto Platone, Aristotele eccetera) L’ἰδέα in quanto evidenza viene a costituire “il che cosa” dell’essente, la quiddità, (la quidditas è il che cosa, è l’ente) in base a questo significato l’essenza ossia il suo concetto risulta del pari ambiguo infatti un essente sussiste, si impone, chiama e compie quanto gli compete compreso precisamente il conflitto. Un essente sussiste come questo e quello, ossia risulta determinato come un quid (già, ma l’essere no, l’essere non è un quid) come risulta nel passaggio dalla φύσις all’ἰδέα il τί ἐστίν? “il che cosa?” e come l’ὅτι ἐστίν, “il che” se ne distingue contrapponendoglisi (cioè si sta chiedendo come ha fatto l’essere, la φύσις a diventare un qualche cosa cioè un ente, che è esattamente …) non è qui il caso di approfondire l’accenno che è già stato fatto all’origine essenziale della distinzione di “essentia” ed “existentia /…/ Dal momento comunque che l’essenza dell’essere è posta nella quiddità (l’idea, ciò che si evidenzia, la “mia” apprensione dell’oggetto) quest’ultima in quanto costituisce l’essere vero e proprio dell’essente diventa anche quanto vi è di più essente nell’essente (il passaggio ormai è compiuto, dice Heidegger, “φύσις” come idea, come evidenza, come apprensione, ciò che si apprende diventa lui stesso essere immaginariamente ma non lo è e si scambia a questo punto l’essere con l’ente) questa idea è a sua volta l’essente per l’eccellenza ὄντος ὄν, l’essere come idea è ora promosso al rango di essente per eccellenza e l’essente stesso che era dianzi predominante decade al livello di ciò che per Platone chiama μή ὄν (l’ente) ciò che propriamente non dovrebbe essere e di fatto anche propriamente non è in quanto deforma sempre l’idea, la pura evidenza con il realizzarla, con l’incarnarla nella materia (questa è tra virgolette la “follia” di Platone e di tutta la filosofia fino a lui e cioè il fatto che l’idea diventa reale, diventa la “pura evidenza” che è apprensione sì ma apprensione che deve la sua esistenza all’essere mentre a un certo punto si sgancia, è questa la questione, appunto l’idea diventa incarnata nella materia, diventa l’ente appunto) Dal suo canto l’idea diventa παράδειγμα (“modello” “paradigma”) l’idea diventa contemporaneamente, necessariamente ideale, la copia propriamente non è (vi ricordate di Platone? C’è il mondo delle cose, che sono immagini, sono finte, la realtà vera che sta su nell’Iperuranio …) ma solo partecipa dell’essere, il χωρισμός l’abisso tra idea intesa come il vero essente il prototipo, l’originale e il non essente vero e proprio l’imitazione, la copia questo abisso è così scavato ormai è fatta. (e cioè l’idea come l’imitazione di un vero, un reale che sta da qualche parte ma questo in Platone) L’apparire riceve ora in base all’ιδša un altro senso ancora, ciò che appare, l’apparenza non è più la φύσις, l’essere, lo schiudentesi imporsi e neppure il mostrarsi dell’evidenza, l’idea in senso greco, l’apparenza è invece l’emergere della copia ecco Platone, siccome questa non raggiunge mai l’originale l’apparente è mera apparenza ossia propriamente un sembrare, una diffettività, una mancanza a questo punto l’ente e il ϕαινόμενον “fenomeno” si separano ne discende un’altra essenziale conseguenza siccome l’essere vero e proprio è l’idea e questa è il modello bisogna che ogni manifestazione dell’essente tenda ad eguagliare l’originale se siamo ormai ridotti all’ἰδέα considerata come il modello di qualche altra, cosa bisogna che ogni manifestazione dell’essente tenda ad eguagliare l’originale appunto, ad adeguarsi al modello, a regolarsi sull’idea. La verità della φύσις, ἀλήθεια concepita come la non latenza che si realizza nello schiudentesi imporsi diventa ὁμοίωσις, la μίμησις l’adeguazione, il regolarsi su, l’esattezza del vedere, dell’apprendere è concepito come un rappresentare, qui in questo punto esatto (Heidegger non lo dice ma lo dico io, nasce la scienza, esattamente a questo punto e cioè:) l’esattezza che occorre verificare a questo punto è l’esattezza del vedere, dell’apprendere concepito (l’ἀλήθεια come non nascondimento si trasforma in ὀρθότης e cioè in adæquatio rei et intellectus – in adeguamento della parola alla cosa – questo adeguamento è possibile perché l’idea così intesa cioè non più in senso greco, come l’essere che si evidenzia ma come un evidenza di un qualche cosa e a questo punto ogni idea è sempre un simulacro, appunto una μίμησις di un qualche altra cosa che deve essere trovato, la realtà vera, quali sono le vere proprietà di una cosa, come la si misura, che cos’è esattamente questo aggeggio, è appunto il momento in cui nasce la scienza) Intendendo bene tutto ciò non è più possibile negare che con l’interpretazione dell’essere come idea si attua un distacco nei confronti del principio originario, d’altra parte se si parla qui di “caduta” si deve tenere presente che non si tratta di una caduta ad un livello troppo basso ma che rimane malgrado tutto a considerevole altezza /…/ Si tratta ora di vedere che cosa succede del logos in corrispondenza al cambiamento dell’interpretazione della φύσις, la rivelazione dell’essente si produce nel logos inteso come raccoglimento (ricordate l’accezione greca di logos? Era appunto il raccoglientesi raccogliere) Quest’ultimo (λόγος) si compie originariamente nel linguaggio è per questo che logos diventa la basilare determinazione essenziale del discorso. Il linguaggio concepito come ciò che è enunciato e detto e ancora dicibile, custodisce di volta in volta l’essente così rivelato, ciò che è stato detto può essere ripetuto e proseguito in un altro dire, la verità che esso custodisce si diffonde ma in modo tale che l’essente reso originariamente manifesto nel raccoglimento non risulta ogni volta sperimentato veramente in se stesso, in ciò che viene ripetuto la verità si distacca per così dire dall’essenza e questo fino al punto che il ri-detto diventa qualcosa di semplicemente re-citato, diventa γλῶσσα (come si dice appunto in Essere e Tempo. Ora considerate questo lui si chiede cosa ne è a questo punto del logos in corrispondenza del cambiamento dell’interpretazione della φύσις come evidenza, quindi della φύσις che diventa “idea” in accezione latina del termine. Il linguaggio diventa ciò che è enunciato e detto, ed è come se di volta in volta questo logos custodisse l’essente che si è rivelato nell’idea, sempre in senso latino, è l’idea che rivela l’essente in questo caso come l’essere dell’essente e il linguaggio diventa ciò che rende ripetibile ciò che l’idea ha evidenziato che non è più l’essere ma è l’ente, è soltanto perché è l’ente che può essere ripetuto, ridetto ed è da qui che si produce la chiacchiera, per Heidegger. Allora riassumiamo su quanto è stato detto sulla φύσις e sul logos. La φύσις diventa idea, diventa il paradigma, la verità diventa giustezza, ἀλήθεια diventa ὀρθότης, il logos diventa enunciazione, ricordate che il logos era uno dei modi in cui si manifesta l’essere, diventa enunciazione, la sede della verità concepita come giustezza, l’origine delle categorie, il principio che decide delle possibilità dell’essere - diventa lui, il logos, a decidere dell’essere) l’idea e categoria costituiscono ormai i due concetti sotto cui ricadono il pensare, l’agire, il valutare dell’Occidente, l’esserci tutto, la trasformazione della φύσις e del logos nonché la trasformazione del loro reciproco rapporto (qual è la trasformazione del loro reciproco rapporto? Perché originariamente è la φύσις cioè l’essere a determinare il λόγος come modo di manifestazione dell’essere ad un certo punto invece in seguito alla trasformazione di φύσις in idea diventa il logos, il luogo della riproduzione dell’essere, appunto riproducendo il dire, il dicibile) la trasformazione della φύσις e del λόγος nonché la trasformazione del loro reciproco rapporto rappresentano la caduta del principio originario tutta la filosofia dei greci perviene a dominare l’Occidente non in virtù del suo originario principio ma della sua fine principiale che raggiunge in maniera grandiosa e definitiva la sua compiuta formulazione in Hegel. La storia quando è autentica non perviene alla sua fine cessando e finendo /…/ che cosa dovette di necessità accadere perché si giungesse nella filosofia greca alla fine principiale e a questa trasformazione della φύσις e del logos? Siamo così giunti al secondo quesito, secondo punto per ciò che concerne la indicata trasformazione si devono fare due osservazioni (aggiunge ancora qualcosa. Tenete conto che per Heidegger la metafisica è l’origine della scienza e della tecnica. La τέχνη è il compimento della filosofia greca, mentre la φύσις era il principio con la τέχνη invece si arriva alla fine, per Heidegger la filosofia è finita non c’è più niente da filosofare, per Heidegger si è compiuta, ha fatto il suo ciclo ed è finita con la tecnica, di cui diremo quando sarà il momento) Essa (questa trasformazione) si opera all’interno dell’essenza della φύσις e del logos o meglio per entro a una loro essenziale conseguenza in tal modo che l’apparente presenza nel suo apparire una evidenza mentre il detto finisce per scadere nella diceria (va beh questo lo abbiamo già visto) ma la trasformazione non avviene dunque dall’esterno ma dall’interno, ma che significa qui dall’interno? Ciò che è in questione non sono né la φύσις né il logos presi separatamente, in Parmenide vediamo che essi sono essenzialmente connessi (diceva “essere e pensare sono lo stesso”) il fondamento che regge e governa la loro essenza e costituisce il loro interno è lo stesso loro rapporto (tra φύσις e λόγος) e ciò anche se il fondamento del rapporto stesso si cela primariamente e propriamente nell’essenza della φύσις /…/ Ma di che tipo è questo rapporto? In ogni caso la trasformazione fa sì che sia dal punto di vista dell’idea sia da quello dell’enunciazione l’essenza originaria della verità, ἀλήθεια si trasforma in giustezza, la non latenza costituisce infatti quello che abbiamo chiamato “interno” ossia il rapporto imponente tra φύσις e λόγος nel senso originario, l’imporsi si verifica come un venir fuori nella non latenza. Ora l’apprensione e il raccoglimento costituiscono l’economia del rivelarsi della non latenza dell’essere, il trasformarsi della φύσις e del λόγος in idea ed enunciazione trova il suo intrinseco fondamento in un passaggio dall’essenza della verità come non latenza alla verità come giustezza. Tale essenza della verità non ha potuto fissarsi ed essere mantenuta nella sua iniziale originarietà, la non latenza vale a dire lo spazio costituito per l’apparire dell’essente è crollato, si sono salvate come macerie del crollo ἰδέα ed “enunciazione” οὐσία e παράδειγμα (sta parlando del crollo della filosofia in sostanza) Da che l’idea e la categoria hanno preso a regnare la filosofia invano si arrabatta per spiegare in tutti i modi possibili e impossibili il rapporto tra enunciazione, il pensare e l’essere (una cosa è quello che penso, una cosa è la realtà di ciò che penso, questo dualismo che si instaura con Parmenide secondo Heidegger) invano in quanto la domanda sull’essere non viene ricondotta al fondamento e al terreno in cui essa si trova radicata, onde trovare su questa base la sua spiegazione (insomma la questione per Heidegger è che si è persa la domanda fondamentale e cioè la domanda non verte più sull’essere ma sull’ente, si chiede all’ente di dire come è fatto, come funziona, come si accende questo aggeggio, ma la domanda non è più la domanda autentica sull’essere e quindi non essendo una domanda sull’essere, non è più la domanda autentica, è una domanda intorno all’ente, alle sue caratteristiche, le sue proprietà ma non si pone più come la domanda fondamentale e cioè “perché qualche cosa appare?” questa è la domanda fondamentale, ricordate la domanda da cui siamo partiti all’inizio “perché esiste l’essente anziché nulla? Perché qualche cosa ci appare? Perché qualche cosa fa sì che qualche cosa ci appaia? Questa è la domanda fondamentale per Heidegger, la domanda che deve porsi la filosofia. Non chiedersi che cos’è questo aggeggio, quali sono le sue caratteristiche, questo è il compito della scienza e abbiamo visto che nasce nel momento in cui cessa il pensare autentico, il pensare autentico cessa e nasce la scienza) Sappiamo da Eraclito e da Parmenide che la non latenza dell’essente non costituisce semplicemente qualcosa di sussistente (sappiamo da Eraclito e Parmenide che l’essere non è l’ente diciamola così) la non latenza accade solo in quanto è realizzata con l’opera (ecco qua: l’opera, il progetto, il progetto gettato, con l’opera, con l’agire, con il fare) la non latenza accade (la non latenza, la verità chiamiamola così per distinguerla dalla verità come ὀρθότης, la verità per adeguamento, l’adeguatezza) solo con l’opera, l’opera della parole che è la poesia (naturalmente qui poesia intesa in accezione greca come ποίησις, come produzione, come ciò che si produce al momento in cui l’essere appare) l’opera della pietra nel tempio e nella statua, l’opera della parola costituente il pensiero, l’opera della πόλις come luogo della storia che fonda e custodisce tutto ciò, opera qui deve sempre essere intesa in base a quanto è stato detto nel senso greco di ἔργον (da qui energia eccetera) cioè sia come l’essere presente prodotto (la ποίησις è la produzione, ciò che e presente, il prodotto della produzione per così dire “ἔργον”) come l’essere presente prodotto nella non latenza. La conquista della non latenza dell’essente e con ciò dell’essere stesso nell’opera, questa conquista che già di per sé non si produce che sotto forma di un costante antagonismo è sempre in pari tempo lotta contro il nascondimento, il coprimento contro l’apparenza (questo prodursi nell’opera dice che l’opera stessa è sempre una lotta tra lo svelarsi e il rivelarsi continuamente dell’essere. Vi ricordate questo movimento dell’essere tra il velarsi e il disvelarsi) l’apparenza (δόξα) non è qualche cosa che si ponga accanto all’essere la non latenza ma appartiene a questa (cioè la δόξα, l’opinione, appartiene alla non latenza, all’oblio dell’essere) la δόξα tuttavia è a sua volta ambigua, essa designa l’aspetto con cui qualcosa si presenta e in pari tempo la visione che gli uomini ne hanno. (sono quegli uomini, diceva Eraclito, che non vedono le cose ma si muovono senza sapere) Se ci si fissa in tali punti di vista i quali vengono espressi e ripetuti, per tal modo la δόξα è una forma del logos, i punti di vista predominanti impediscono ora la vista dell’essente. Questi è privato della possibilità di apparire da se stesso rivolgendosi all’apprensione /…/ L’evidenza che tal volta ci si mostra è una evidenza degenerata in punto di vista (ecco qui la δόξα tra l’idea in senso greco cioè l’evidenza dell’apparire, di ciò che appare che diventa δόξα, opinione) così il dominio dei punti di vista perverte e distorce l’essente. Distorcere qualcosa è quanto i greci denominano ψεύδεσθαι la lotta per la non latenza dell’essente, l’ἀλήθεια, diventa così una lotta contro lo ψεῦδος (da cui pseudo, cioè qualcosa che sembra ma che non è) la distorsione e il pervertimento ma è proprio della natura della lotta che colui che combatte sia che esso risulti vittorioso o perdente venga a dipendere dal suo avversario, siccome la lotta contro la non verità è una lotta contro lo ψεῦδος inversamente in relazione allo ψεῦδος combattuto la lotta per la verità diventa lotta per l’ “a- ψεῦδος” per il non pervertito, per il non distorto (questo è ciò con cui gli umani combattono continuamente, cioè l’autentico e l’inautentico, per Heidegger non è che l’uomo autentico riesca a eliminare l’inautenticità, è sempre presente, è una possibilità costante così come il non esserci è una possibilità costante e presente dell’esserci ininterrottamente) In base a tutto questo si elabora e si afferma ora per l’essere stesso quella definitiva interpretazione che si cristallizza nel termine οὐσία (sostanza) questo designa l’essere come presenza costante, costante sussistenza, ciò che propriamente è, è, conseguentemente l’ognora essente l’¢eˆ Ôn, costantemente presente è ciò cui dobbiamo rifarci fin da principio in qualunque apprendimento, in qualunque produrre, il modello, l’idea costantemente presente è ciò a cui dobbiamo far ricorso come a ciò che ci sta sempre davanti in ogni logos, in qualunque enunciazione, l’ὑποκείμενον, “il soggetto”, quello che ci sta già sempre davanti costituisce dal punto di vista della φύσις, dello schiudersi il πρότερον “l’antecedente” l’“a priori”, questa determinazione dell’essere dell’essente contraddistingue il modo in cui l’essente sta di fronte a ogni apprendimento, a ogni enunciazione, l’ὑποκείμενον preannuncia la successiva interpretazione dell’essente come oggetto (sarebbe quella che Heidegger in Essere e Tempo chiama la “pre comprensione”, per comprendere qualcosa occorre che questo qualcosa sia già da sempre compreso, perché l’uomo, l’esserci è all’interno di un progetto storico, in cui questa cosa già c’è, per questo la comprende) L’apprensione, noeῖn il viene assorbita dal λόγος nel senso di enunciazione, essa diventa così sia nell’apprendere che nel definirsi qualcosa in quanto qualcosa, penetra e attraversa con l’apprendere διανοεῖσθαι ciò che si dà. Questo penetrare enunciante, διάνοια, forma la caratteristica essenziale dell’intelletto concepito come una rappresentazione giudicante così l’apprensione diviene intelletto ragione (è un altro modo per porre la questione di cui dicevamo prima, cioè del passaggio da φύσις all’ἰδέα) Essente è solo ciò che è pensato esattamente ed è in grado di tener testa a un pensiero esatto. Il termine chiave che serve di base per l’interpretazione dell’essere dell’essente è οὐσία, come nozione filosofica la parola designa la costanza della presenza anche nell’epoca in cui questa parola è divenuta già il concetto dominante della filosofia essa continua a mantenere insieme il suo significato primitivo la proprietà sussistente, ma neanche questo significato fondamentale dell’οὐσία, né la strada da esso segnata per l’interpretazione dell’essere hanno potuto mantenersi, anche quella è caduta miseramente, tosto è sopravenuta la trasformazione dell’interpretazione dell’οὐσία in “substantia” (ciò che sta sotto) in questo senso essa perdura come nozione corrente nel Medioevo nei tempi moderni fino ai giorni nostri, la filosofia greca viene allora interpretata retrospettivamente e totalmente falsata sulla base di questo concetto predominante di sostanza di cui quello di funzione non è che la forma matematizzata, resta ancora da vedere come a partire dall’οὐσία assunta come denominazione, oggi decisiva per l’essere, risulti ora possibile concepire le distinzione precedentemente esposte di essere e divenire, e di essere e apparenza. Quello che si contrappone al divenire è la permanenza costante (ciò che non diviene ne è costantemente privo) quello che si contrappone all’apparenza intesa come mera apparenza è ciò che è visto autenticamente (appunto l’idea, l’evidenza che muove dall’essere, dall’orizzonte dell’essere) essa è d’altra parte quale ὄντος ὄν il permanente costante opposto alla cangiante apparenza, divenire e apparenza non risultano tuttavia determinati unicamente in base all’οὐσία, in quanto οὐσία dal canto suo ha ricevuto la propria determinazione decisiva in base al suo rapporto col logos, col giudizio enunciante, con la dianoia, pertanto il divenire e l’apparenza si determinano anche in base alla prospettiva del pensiero. Dal punto di vista del pensare giudicante il quale si ricollega sempre a un qualcosa di permanente (ovviamente se deve significare qualcosa per qualcuno, questo qualcosa occorre che sia permanente, permanga, perché se diviene non posso giudicare niente) il divenire appare come un non permanere, il non permanere si qualifica dapprima per entro al sussistente come un non rimanere nello stesso luogo, mentre il divenire appare come un cambiamento di luogo. /…/ Tutto sta nella domanda fondamentale posta all’inizio “perché vi è in generale l’essente e non il nulla?” il primo svolgimento di questo fondamentale quesito ci ha indotti a porre la domanda “Che cosa ne è in generale dell’essere?” la parola “essere” ci è dapprima apparsa come una parola vuota, di significato evanescente, questo pareva essere un fatto constatabile come altri ma alla fine ciò che all’apparenza sembrava non porre particolari problemi né richiedere di venire ulteriormente indagato ci è apparso come la cosa più degna di indagine, l’essere e la comprensione dell’essere, non sono un mero fatto, l’essere costituisce l’evento fondamentale sulla cui base soltanto l’esserci storico viene mantenuto in seno all’apertura dell’essere e nella sua totalità. (quindi appare qui l’essere come evento, un evento fondamentale senza il quale non accade nulla, perché qualunque cosa accade per via del manifestarsi dell’essere, del suo disvelarsi, cioè l’“esserci” storico viene mantenuto in seno a questa apertura dell’essente, se no non c’è niente) /…/ questo fondamento dell’esserci storico così eminentemente degno di essere indagato non si può cogliere in tutta la sua dignità e nel suo rango che col porlo in questione (ecco questa è un’altra cosa fondamentale in Heidegger, cioè per interrogarsi sull’essere, per intendere qualche cosa dell’essere occorre mantenerlo in questione, se non lo si mantiene in questione vuole dire che la questione è chiusa, se la questione è chiusa è reificata, è oggettivata, non è più l’essere ma è un ente) Le indicazioni che sono state date sull’uso corrente tuttavia oltre modo variato di “è”, ci hanno convinto di questo, è del tutto erroneo parlare di indeterminatezza e di vacuità dell’essere, è l’ “è” che determina il significato e il contenuto dell’infinito “essere” e non viceversa (ve lo rileggo perché è importante “È” l’“è” – copula – che determina il significato e il contenuto dell’infinito “essere” come verbo infinito, l’infinito del verbo essere è appunto essere, e non viceversa, cioè l’ “è” è il qui e adesso, ed è ciò che si mostra, che consente di pensare all’essere come infinito, cioè l’essere lo ricaviamo da ciò che si manifesta. È lì che sta l’essere nel suo apparire, in questo “è” in questo “esserci” potremmo dire “Dasein”) Possiamo ora anche capire perché la cosa sia necessariamente così, l’“è” vale come copula, come piccolo termine di relazione, qui cita Kant, in seno alla proposizione, questa contiene in sé l’“è”, ma siccome la proposizione, il logos, come categoria ha aggiunto la giurisdizione sull’essere, è lei che in base al suo proprio “è” determina l’essere (cioè sta dicendo che è il logos, che è in base al suo proprio l’ “è” che determina l’essere, perché è nella parola, è nel logos, nel dire é adesso qui che è possibile dire “è” e quindi considerare l’apparire di qualsiasi cosa, per questo in altre parti dice che il linguaggio è la dimora dell’essere) L’essere dal quale abbiamo preso le mosse considerandolo un termine vuoto deve perciò contrariamente a questa apparenza avere un significato determinato. Il carattere determinato dell’essere è stato posto in evidenza con l’esame delle quattro distinzioni: l’essere in contrapposizione al divenire e la permanenza; l’essere in contrapposizione all’apparenza è il modello permanente il “sempre identico”; l’essere in contrapposizione al pensare è il sub strato, il sussistente οὐσία; l’essere in contrapposizione al dovere è ciò che si propone di volta in volta come il “dovuto” non ancora o già realizzato. Permanenza, identità, sussistenza, proporsi esprimono in fondo la stessa cosa la costante presenzialità l’ὄν in quanto οὐσία (l’ente in quanto sostanza, cioè l’ente che si può manifestare perché c’è una sostanza rinvia all’essere, quindi l’ente non è che esista di per sé) Questo carattere determinato dell’essere non è accidentale esso risulta dalla disposizione stessa in cui si trova il nostro esserci storico in virtù del suo grande cominciamento presso la grecità. /…/ Dov’è all’opera il vero nichilismo? A questo punto è evidente, là dove si rimane attaccati all’essente consueto, dove si pensa sia sufficiente assumere l’essente come è stato fatto fino ad oggi come essente puro e semplice e basta (come ente) ciò significa respingere la domanda sull’essere e trattare l’essere come un nulla (Nihil. Se io cancello l’essere, l’oblio dell’essere è questo il nichilismo perché cancello l’essere, se cancello l’essere cosa rimane? Non essere. Il non ente, il ni-ente) il che anche in un certo senso esso è in quanto non sussiste l’essente ma si essentia. Il nichilismo è questo occuparsi soltanto dell’essente dimenticando l’essere, è il nichilismo così inteso, e soltanto questo, il fondamento di quel nichilismo che Nietzsche ha messo in evidenza nel primo libro della volontà di potenza, al contrario è sapere espressamente spingersi nel porre la domanda sull’essere fino ai limiti del nulla includendolo in tale domanda costituisce il primo passo, il solo fecondo per un reale superamento del nichilismo. /…/ L’intera concezione dell’essere proprio della tradizione occidentale e per conseguenza il fondamentale modo di rapportarsi all’essere ancor oggi predominante, si possono riassumente nella formula essere e pensare, essere e pensare non più con la copula ma con la congiunzione, essere e pensare significa avere diviso l’essere la φύσις dal λόγος (non sono più la stessa cosa come diceva Parmenide, ma Essere e tempo, è il suo titolo, si sta citando,) è un titolo che non si può in alcun modo collegare alle predette distinzioni, essa porta in tutt’altro orizzonte problematico. Non si tratta in questo caso di sostituire semplicemente la parola “tempo” alla parola “pensare” il fatto è che l’essenza del tempo risulta determinata fondamentalmente e solo nell’orizzonte del problema dell’essere da punti di vista del tutto diversi. Ma perché proprio il “tempo”? perché all’inizio della filosofia Occidentale la prospettiva che guida la manifestazione dell’essere è il tempo, ma in modo che questa prospettiva come tale rimaneva ancora occulta né poteva non rimanerlo (la metafisica è nata da questo: la φύσις è diventata atemporale. Se è “temporalizzata”, permettetemi questo termine, allora l’essere non è più un oggetto ma l’esserci è il progetto per esempio il progetto che si interroga sull’essere, e tutto ciò che è l’uomo nel momento in cui fa qualcosa, pensa qualcosa, decide qualcosa, tutto ciò che accade infatti ad un certo punto parlerà verso la fine di Ereignis, è l’evento la cosa essenziale, l’evento come ciò che accade, e quindi ciò che si manifesta qui e adesso con tutto ciò che questo comporta, mentre la metafisica e quindi, e sottolineo “quindi”, la scienza nascono secondo Heidegger dalla atemporalizzazione dell’essere, l’essere non è più temporale ed è la condizione per poterlo oggettivare, cioè prendere l’essere come un ente) Allorché finalmente l’οὐσία intendendo con ciò la presenza costante (e quindi alla greca) diventa concetto fondamentale per designare l’essere, che cosa rimane nascostamente in fondo all’essenza della costanza della presenza, se non il tempo? (l’essere diventa staccato dal tempo) ma questo “tempo” non è ancora nella sua essenza manifesto ma d’altra parte nell’ambito della fisica è manifestabile (non si vede, la fisica non può vedere il tempo, non si manifesta) così quando succede che alla fine della filosofia greca con Aristotele (Per Heidegger Aristotele è la fine della filosofia greca, da qual momento non è più successo niente) la meditazione si fissa sull’essenza del tempo, il tempo medesimo deve necessariamente venire considerato come un sussistente οὐσία τίς. Ciò si esprime nel fatto che il tempo è qui concepito a partire dall’ora, dal particolare e unico presente, il passato è non più presente, il futuro un non ancora presente, l’essere nel senso della sussistenza diviene la prospettiva per la determinazione del tempo (sottolineo “determinazione” del tempo) ma così il tempo non risulta autenticamente assunto come prospettiva per l’interpretazione dell’essere, diventa anche lui una cosa, un oggetto (un ente) al pari di qualunque altra cosa (per Heidegger essere e tempo non sono scindibili potreste leggere il titolo di Essere e Tempo come se la “e” fosse una copula cioè Essere è Tempo) Essere e Tempo non rappresentano in tale ordine di idee un libro ma un compito, un compito autentico è quello che noi non sappiamo e che nella misura in cui lo sappiamo autenticamente cioè come compito, sappiamo sempre e solo in guisa interrogativa. Ecco ci sarebbe da commentare perché questa ultima parte è importante soprattutto per la nascita della scienza e quindi del pensiero contemporaneo di tutto ciò che ha costituito Heidegger e del pensiero autentico e tutti i misconoscimenti operati dalla metafisica e quindi dalla scienza. Senza metafisica, dice Heidegger, la scienza non sarebbe mai esistita. Tutto questo ci porta alla τέχνη, alla τέχνη come ciò che la metafisica ha inventato una volta che ha dimenticato l’essere. Cancellato, rimosso l’essere ciò che è rimasto è la τέχνη, la tecnica e cioè di potere manipolare, come dice sempre Heidegger: conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente.