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20 dicembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

Stiamo concludendo gli Analitici, siamo alle ultime battute. Che cosa ha detto Aristotele fino ad adesso? Ha detto soprattutto una cosa riguardo alla logica, e cioè che la logica non può fare nulla di ciò che promette. Il problema che Aristotele riscontra continuamente – si potrebbe quasi dire ad ogni pagina – è che la logica muove da un asserto arbitrario, procede lungo l’arbitrarietà e conclude in modo arbitrario. Anche qui, nelle ultime pagine, dove vuole stabilire i criteri per potere affermare che delle cose ineriscono ad altre, si ritrova anche in questo caso ad avere qualcosa che gli scappa di mano. Bisogna leggerlo attentamente e ci si accorge del fatto che Aristotele non riesce a chiudere ciò che all’origine aveva aperto con la speranza di poterlo chiudere. La chiusura perfetta sarebbe stata il reperire una verità incontrovertibile, e cioè una verità costrittiva, una verità che costringe altri ad accoglierla necessariamente. Questo non è accaduto, non solo non è accaduto ma si ritrova, alla fine di tutto, a considerare il fatto che… Ma devo cominciare dalla fine. A pag. 1077. Allora, se non abbiamo nessun altro genere che sia vero oltre la conoscenza scientifica, l’intellezione sarà principio della conoscenza scientifica. L’intellezione è il νούς, parola greca che indica anche il pensiero. Dunque, nessun altro genere che sia vero oltre la conoscenza scientifica, che però non è fondabile né fondata, quindi, non ci rimane che l’intellezione, il pensiero, il νούς. E, da un lato, l’intellezione sarà principio del principio, dall’altro la conoscenza scientifica nel suo complesso sta nello stesso rapporto rispetto al suo oggetto, nel suo complesso. Conoscenza scientifica, sì, ma ha bisogno di un principio o, per usare le sue parole, di una definizione: se non si parte da una definizione, cioè da un universale, non si va da nessuna parte. Chi fornisce questo universale? Il νούς, l’intellezione, il pensiero. Potremmo prenderci una libertà e sostituire νούς con λόγος o, più propriamente ancora, con λέγειν, con il dire. In questo caso, sì, gli Analitici trovano una conclusione. Tutto questo percorso, che ha iniziato con le Categorie, con il De interpretazione e gli Analitici Primi e Secondi, trova il compimento; ma quello stesso compimento che diede Hegel al sillogismo, con il sillogismo compiuto di Hegel, quello che tiene conto del fatto che tutto ciò che afferma deriva dall’Aufhebung, dall’integrazione. Ora, anche qui, anche se si tratta di duemila anni prima, Aristotele dice che c’è qualche cosa prima della conoscenza scientifica, una condizione che la rende possibile, ed è in questo senso che pensa teoreticamente, cioè, pensa la condizione della conoscenza scientifica, che non è che arrivi così a caso, ma ha un fondamento. Quale? Aristotele dice che è il νούς. Certo, ma il νούς è pensiero, è linguaggio.

Intervento: Generalmente, il pensiero non è accostato al linguaggio…

Sì, è vero. E questo dà da pensare, nonostante Parmenide: essere e pensare sono lo stesso. Come doveva dirlo in modo più chiaro? Aristotele conosceva Parmenide, ovviamente. Eppure, questa cosa di Parmenide, che essere e pensare sono lo stesso, non è mai stata accettata. E, quindi, Aristotele si ritrova a dire che il fondamento, il principio della conoscenza scientifica è il νούς, il pensiero. Il che evoca qualcosa di ancora più antico, e cioè Pitagora. I pitagorici diedero la prima e unica formulazione ontologica sul numero: l’uno è l’εἶδος, l’immagine, però questa immagine è tale in quanto non è le altre, la posso distinguere, e tutte le altre sono quindi necessarie perché ci sia quell’una. Tutte le altre immagini sono il due, e devono stare insieme, non possono stare l’una senza le altre, e questo è il tre. E poi c’è il quattro: il νούς, il λέγειν, il dire, e sono io che dico, che parlo. Ecco il νούς: il νούς sono io che penso, io che parlo. Dunque, la conoscenza scientifica, se non ci fosse il νούς, se non ci fosse il pensiero, se non ci fosse il λόγος, il λόγος non avrebbe nessun motivo di esistere, né potrebbe esistere nessun tipo di conoscenza, né scientifica né di altro tipo. Noi possiamo conoscere perché parliamo: è questo che sta dicendo Aristotele. Lui usa il νούς, il pensiero, ma il pensiero è fatto di parole. Questo è il gran finale degli Analitici. Potremmo dire che queste poche righe riassumono tutti gli Analitici. Alla fine, ciò che rimane è il pensiero, è il λέγειν, il fatto che io penso queste cose, le dico. A fronte di questo anche la conoscenza scientifica si svuota, nel senso che la dimostrazione necessita di un universale che non è dimostrabile, cioè, per dimostrare qualche cosa devo avere qualcosa di non dimostrabile: solo a questa condizione posso dimostrare. D’altra parte, lo ha spiegato bene Aristotele: il principio primo, se è primo, non procede da una dimostrazione, sennò non è primo. E, quindi, se non procede da una dimostrazione, non ha dimostrazione, dunque, è indimostrabile; tuttavia, è la condicio sine qua non di qualunque dimostrazione: per dimostrare ho bisogno di qualcosa di non dimostrabile, sennò non dimostro niente. Dice ancora poco più sopra. …i principi della dimostrazione sono più noti e ogni conoscenza scientifica s’accompagna alla ragione, non vi sarà conoscenza scientifica dei principi; e poiché non è possibile che nulla sia più vero della conoscenza scientifica, eccetto l’intellezione, l’intellezione sarà dei principi. Cosa vuol dire che l’intellezione, il νούς, è del principio? Vuole dire che il mio pensiero stabilisce qualcosa, e il verbo che utilizza in questi casi è ύπάρχειν: io stabilisco questo e, una volta stabilito questo, ecco che posso incominciare a dimostrare cose. Dire che l’intellezione è dei principi e dire che l’intellezione è della δόξα sono la stessa cosa, perché il principio, non essendo dimostrabile, non è altro che δόξα, ciò che si pensa, si immagina, si crede: è una definizione, una. Ora, se pensiamo bene a tutto il percorso che ha fatto Aristotele dalle Categorie fino a questo punto… nelle Categorie lui mostra che ciascuna cosa è quella che è in virtù di altro. Aristotele mantiene questa posizione fino alla fine, perché dicendo che il principio del principio è l’intellezione, il νούς, sta dicendo che il principio di ogni cosa sta nel pensiero, quindi, nel dire, in ciò che se ne dice. È come se fosse tornato al punto di partenza, cioè, alle Categorie, ai praedicamenta, κατηγορήματα, come l’unica cosa che c’è, che possiamo dire che c’è. E, infatti, lo possiamo dire e lo diciamo. Quando diciamo della sostanza diciamo, diciamo cose. È questo il principio del principio: che di ciascuna cosa se ne dice, cioè, ciascuna cosa è ciò che se ne dice, ciascuna cosa rinvia a un’altra.

Intervento: Che relazione c’è a questo punto con il motore immoto?

La nozione di motore immoto di Aristotele è abbastanza controversa. È vero che lui cerca qualche cosa che non debba nulla ad altro se non a se stesso, ma questa è l’idea di Platone, molto più e molto prima di Aristotele. Non possiamo non considerare, alla fine degli Analitici, che il motore immoto non c’è. Dicendo, come sta dicendo qui, che l’intellezione, il νούς, è principio del principio, sembrerebbe corrispondere in un certo qual modo al motore immoto, ma il νούς è pensiero e se è pensiero è sempre pensiero di qualche cosa: come Aristotele stesso sa perfettamente, Dio è appunto pensiero di pensiero. Verrebbe da pensare che l’idea del motore immoto sia più platonica che aristotelica: qualcosa che muove, ma che è inamovibile, indicibile, ineffabile, ecc. In Aristotele non è così: se è qualcosa è qualcosa in quanto se ne dice, quindi, in quanto altro; e, quindi, se è mosso, è mosso necessariamente da qualcosa. Vedremo poi bene anche nella Fisica come in un certo qual modo sconfessa l’idea del motore immoto, reperendo il movimento tra la δύναμις e l’ἐνέργεια e nella loro simultaneità, l’έντελέχειᾳ, dove è lì che c’è il movimento. Quindi, nessun motore immoto, non c’è perché è in moto in quanto dire: se è dire è già in moto. Ora, però, torniamo indietro di qualche pagina. A pag. 1047. Tra le cose che ineriscono sempre a ciascuna cosa, alcune si estendono a più cose, seppur non al di fuori del genere. Intendo con “inerire a più cose” quelle che ineriscono universalmente a ciascuna cosa, ma nondimeno anche ad altro. Aristotele sta cercando quella definizione che s’attaglia perfettamente alla cosa e che, quindi, non ha più bisogno di altro. Però, questo suo tentativo urta continuamente con la considerazione che qualunque definizione io fornisca non riesco a delimitarla; sì, posso delimitarla con un atto di forza, per cui stabilisco che è così, però lo stabilisco io, non è che sia così. Ciascuno di questi predicati inerisce a più cose, i primi due ineriscono anche a tutti i dispari, l’ultimo anche alla diade: tutti insieme, però, a nient’altro. Questo è ciò che sta cercando Aristotele: qualche cosa che inerisca a una certa cosa e a nient’altro. Il problema è: come lo so? Come lo determino? Come so che una certa cosa inerisce unicamente a quella cosa lì e, quindi, la definisce, la determina? Qual è il problema contro cui continua a urtare Aristotele? È quello dell’uno e dei molti. Per determinare, per fare uno, necessito dei molti, e non c’è verso, non c’è modo di far fuori Parmenide, in nessun modo. Aristotele ha provato con gli insulti, con tutti gli strumenti possibili, ma non c’è stato verso e, infatti, Parmenide è quello che lui tratta peggio di tutti, non lo perdona; con Parmenide ha visto il fallimento del suo, di Aristotele, progetto: l’uno e i molti sono due momenti dello stesso; dunque, la logica non è possibile. Fa poi vari esempi sempre per trovare quella definizione che letteralmente de-finisca, che cioè si possa attribuire a una sola cosa, una e una soltanto. Considera anche le divisioni secondo le differenze. A pag. 1051. Le divisioni secondo le differenze sono utili nel procedere così: in che modo provano, tuttavia, lo si è detto in precedenza. Soltanto in questo modo possono essere utili in riferimento al ricapitolare il che cos’è. A dire il vero sembrerebbe che non servano a niente, se non ad assumere tutti i predicati immediatamente, come se qualcuno li assumesse dapprincipio senza divisione. /…/ Se, infatti, ogni cosa è costituita da due e animale domestico è una singola e, di nuovo, l’uomo (o qualunque cosa sia mai ciò che risulta essere l’uno) è costituito da questo e dalla differenza, è necessario allora domandare la definizione mediante la divisione. Di nuovo, si ritrova qui sottomano qualcosa che non gli va bene, perché l’uno è costituito da questo e dalla differenza. Cosa dirà poi de Saussure? Che il significante è determinato dall’essere in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, cioè, è uno in quanto costituito da una differenza; esattamente quello che dice Aristotele, né più né meno. Il fatto è che questa cosa qui, che è poi il problema dell’uno e dei molti, Aristotele non riesce in alcun modo a eliminarla, non se ne sbarazza; nonostante tutte le definizioni, le determinazioni, ecc., i molti rimangono lì. Addirittura, quando descrive la dimostrazione: la dimostrazione è tale perché parte dall’uno, però per dimostrare questo uno necessita dei molti, l’uno non c’è senza i molti. Non ci siamo allontanati di un passo da Parmenide in questi ultimi ventisei secoli. A pag. 1053. Non è affatto necessario che chi cerca la definizione e opera la divisione conosca tutte le cose che sono. Tuttavia, alcuni dicono che sia impossibile conoscere le differenze rispetto a ciascuna cosa senza conoscere quest’ultima… Non hanno tutti i torti: come faccio a sapere che questo differisce da questo se non so nulla di questo? …ma senza le differenze è impossibile conoscerla, perché qualcosa è identico a ciò da cui non differisce, mentre è altro da ciò da cui differisce. Ora, in primo luogo ciò è falso, perché qualcosa è altro non in riferimento a ogni differenza. Infatti, molte differenze ineriscono alle cose identiche per specie, ma non secondo l’essenza e neppure per sé. Qui c’è un’altra caratteristica di Aristotele: parte a dire “è falso”; però, ciò che dice subito dopo mette in dubbio proprio questo, e cioè che sia falso. Dice è falso, perché qualcosa è altro non in riferimento a ogni differenza. Sì, può darsi che non sia diverso rispetto a ogni differenza, ma è sicuramento diverso rispetto a qualche differenza. Quante? Come le stabilisco? C’è un unico modo per stabilirlo: l’analogia. Infatti, molte differenze ineriscono alle cose per specie, ma non secondo l’essenza e neppure per sé. Sta parlando per analogia, lo sa per analogia, lo sa per sentito dire. Infatti, è manifesto che col procedere così si arriva a quelle cose di cui non c’è più una differenza a si avrà la formula definitoria della sostanza. Che sia manifesto è discutibile; col procedere così si arriva a quelle cose di cui C, cioè, si arriva alla stessità. Non c’è più una differenza, pensateci bene, cosa vuol dire? Se non c’è più differenza non le posso distinguere; quindi, come faccio a sapere che sono differenti? Non posso. Lui stesso, volendo a tutti i costi stabilire l’assoluta certezza si ritrova continuamente a dovere dire e contraddire la stessa cosa. Lui vuole definire la definizione, ma la definizione è tale in quanto non è qualche altra cosa: è di questo che lui cerca di sbarazzarsi a tutti i costi. Platonicamente, perché era Platone che credeva di avere fatto questo con le sue idee, che stanno nell’iperuranio. Ma Aristotele no, già nelle sue Categorie smentisce tutto questo, dicendo che di ciascuna cosa se ne può solo dire, e quindi anche delle differenze se ne può solo dire. Le differenze ricadono in quale categoria? Potrebbe essere la quantità, la qualità. Queste differenze sono tali in quanto ne diciamo qualcosa, non esistono in natura: questo Aristotele lo dice chiaramente nelle Categorie. Qui è come se non ne tenesse più conto e volesse trovare quel qualche cosa, quella definizione che non è più quel qualche cosa che se ne dice, ma che è quella che è per se stessa. A pag. 1057. Ogni definizione, poi, è sempre universale. Infatti, il medico non dice ciò che è salutare per un occhio, ma per ogni occhio o per una determinata specie di occhi. Ed è più facile definire il particolare rispetto all’universale, perciò bisogna passare dai particolari agli universali. È l’induzione. Infatti, le omonimie passano più inosservate nelle realtà universali che in quelle indifferenziate. In verità, come nelle dimostrazioni deve esserci il trarre a conclusione sillogisticamente, così anche nelle definizioni deve esserci la chiarezza. E questa si avrà se mediante i particolari che sono stati assunti sarà possibile definire per ciascun genere separatamente; per esempio, il simile non in relazione a ogni cosa, ma ai colori e alle figure, l’acuto ai suoni, e così procedere verso ciò che è comune, avendo cura di non incorrere in un’omonimia. Soprattutto, aggiungiamo noi, di non averne saltato nessuno. La distrazione è sempre in agguato. Cosa ci sta dicendo qui? …sarà possibile definire per ciascun genere separatamente; per esempio, il simile non in relazione a ogni cosa, ma ai colori e alle figure, l’acuto ai suoni, e così procedere verso ciò che è comune…: questo modo di procedere è noto come analogia; si procede analogicamente, il suono con il suono perché simile, perché sembra la stessa cosa. A pag. 1065. È possibile che la causa della stessa cosa non sia la medesima per tutti i casi, ma diversa, oppure no? Se si è dimostrato per sé e non in base a un segno o per accidenti, forse non è possibile, perché la formula definitoria dell’estremo è il medio; ma se non si è dimostrato così, è possibile. A pag. 1067. La causa del fatto che un colore è simile a un altro colore e una figura a un’altra figura è diversa di caso in caso. Infatti, in questi casi l’essere simile è omonimo, perché nell’ultimo esempio consiste, con ogni probabilità, nel fatto che i lati sono proporzionali e gli angoli sono uguali, mentre per i colori nel fatto che c’è una singola percezione o qualche altra cosa del genere. È evidente che sta continuamente parlando dell’analogia: l’analogia è l’unica cosa alla quale si può aggrappare. A pag. 1071. Se non si perviene subito a ciò che è indivisibile e il medio non è uno soltanto, ma più di uno, anche le cause sono più di una. Ma quale dei medi è causa per le realtà particolari, quello primo in riferimento all’universale o quello che lo è in riferimento al particolare? È chiaro che è quello più vicino a ciascuna cosa rispetto a cui è causa. Più vicino o più lontano: è chiaro che sono criteri analogici. Non fa altro che parlare di analogia, è l’unica cosa alla quale Aristotele riesce ad aggrapparsi, l’unica cosa sulla quale riesce a fondare qualche cosa. A pag. 1073. A proposito dei principi dice. In relazione alla conoscenza dei principi si potrebbe dubitare se sia la stessa o non sia la stessa, ovvero se ci sia conoscenza scientifica in ciascuno dei due casi oppure no, se vi sia conoscenza scientifica per una cosa e qualche altro genere di conoscenza per un’altra e se gli stati si producano non essendo presenti, oppure se non ci si renda conto che sono presenti. Può accadere che io non abbia presenti i principi della conoscenza scientifica. Però, dice, se li abbiamo vi è un assurdo. …capiterebbe infatti di non rendersi conto di possedere conoscenze più esatte della dimostrazione; se invece li acquisiamo senza possedere dapprima, in che modo potremmo acquisirne conoscenza e apprenderle se non a partire da una conoscenza preesistente? Infatti, è impossibile come dicevamo anche nel caso della dimostrazione. È la stessa questione che poneva rispetto al Menone di Platone, della conoscenza, della possibilità della conoscenza: per conoscere devo già conoscere. Che poi è il problema del linguaggio: per imparare a parlare occorre che io sia già nel linguaggio, sennò non posso imparare. Come percepiamo? Percepiamo attraverso la percezione. A pag. 1075. Dalla percezione si produce la memoria, come usiamo dire, e dal ripetuto prodursi di una memoria della stessa cosa l’esperienza. /…/ Ora, gli stati non sono né presenti in forma determinata, né originano da altri stati più conoscitivi, bensì dalla percezione… Qual è l’esempio che fa adesso? …come in una battaglia, quando si verifica una rotta, se un solo soldato si arresta, se ne arresta un altro, poi un altro ancora, finché si arriva all’inizio dello schieramento. L’anima è tale da essere capace di avere questa affezione. Ciò che è stato appena detto non è stato detto chiaramente: diciamolo daccapo. Infatti, se una sola delle realtà indifferenziate si arresta, nell’anima vi è un primo universale (e, in effetti, si percepisce il particolare, ma la percezione è dell’universale… Io percepisco il particolare, ma la percezione riguarda l’universale. …per esempio, di uomo, ma non dell’uomo Callia. Di nuovo, ci si arresta in queste cose, finché non si arrestano le cose senza parti e gli universali, per esempio si arresta tale animale, finché lo fa animale, e allo stesso modo ci si arresta in questo. Allora ci è chiaro che è necessario conoscere le realtà prime per induzione, ed è infatti così che la percezione ingenera in noi l’universale. Attraverso l’arrestarsi di fronte a un qualche cosa che, in fondo, è un particolare: mi arresto, cioè, lo considero. Ma, dice, questi elementi su cui ci si arresta, sì, certo… ma la base dell’induzione non sono ancora il concetto, l’universale, ma sono tutti questi particolari che produrranno l’universale. Poiché alcuni degli stati relativi al pensiero con i quali siamo nel vero sono sempre veri, mentre altri ammettono il falso, come opinione e calcolo, e, poi, la conoscenza scientifica e l’intellezione sono sempre veri e nessun altro genere di conoscenza scientifica è più esatto dell’intellezione… Ci sta dicendo che, sì, i dati particolari, essendo particolari, possono essere veri o falsi, ma soltanto l’universale apparirà come vero. È una situazione bizzarra: da tanti falsi possibili si deriva un vero. Anche questo è curioso, un po’ come nella consequentia mirabilis: se non-A allora A, dunque A. Ci sta dicendo questo in fondo: dai particolari costruiamo ovviamente l’universale, partiamo dalle cose che vediamo, di cui abbiamo esperienza, ma queste cose possono mentire, possiamo sbagliarci; eppure, è da queste cose che costruiamo l’universale, quello che reputiamo il vero assoluto. Ma Aristotele si accorge che qui non va tutto nel verso giusto, si accorge che la dimostrazione, per essere vera, necessità di qualcosa che non è dimostrato. Un particolare è vero o falso? Non lo posso dimostrare, può anche essere contingente, non lo so. Quindi, a che cosa mi affido se anche la dimostrazione precipita, è in rotta anche lei? Al νούς o, come proponevo prima, al λέγειν, al dire, l’unica cosa con cui abbiamo a che fare, nient’altro. Mercoledì prossimo inizieremo i Topici, che è forse uno dei testi più interessanti di Aristotele, perché nei Topici c’è la commistione di logica e retorica: la logica non è altro che retorica.