20 novembre 2024
Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia
Riprendiamo, dunque, Filone di Alessandria. Siamo ancora alla presentazione di Radice, ed eravamo rimasti ai due corni di un dilemma. Ci si chiedeva: se Dio è immobile, come fa ad avere creato qualche cosa? È immobile, però, ha creato delle cose, quindi, è anche mobile. Ma, allora è mobile o immobile? Erano questi i problemi che si ponevano. A pag. 101. In tal senso, i due corni dell’alternativa prendono, per così dire due direzioni diverse: a) l’immutabilità ontologica di Dio tende a trasformarsi nelle caratteristiche della Sua fedeltà e della immutabilità della Sua volontà e delle Sue deliberazioni, in contrasto con la precarietà dell’umano e del cosmico; invece il motivo della infinita attività assumerà sempre più spesso i caratteri di una incessante azione provvidenziale (una immutabile volontà di bene) in favore del creato… “Quale anima non penserebbe che il padrone e il governatore dell’universo, senza nulla cambiare della Sua natura, restando sempre identico a se stesso, non è sempre buono e instancabile dispensatore dei suoi beni?”. È un primo modo, un primo abbozzo, per risolvere la questione. Resta sempre identico a se stesso, ma restando sempre identico a se stesso. È sempre buono e instancabile dispensatore dei suoi beni. Lui è identico a se stesso, ma in questa identità continua a dispensare i suoi beni. Come avete immediatamente avvertito, è sempre comunque il problema dell’uno e dei molti. A pag. 103. Potremmo pertanto concludere queste nostre osservazioni con le parole del Baskin: “il Dio che non partecipa a nient’altro allo scopo di migliorare è sicuramente il Dio della filosofia greca… Cioè, quel Dio cui non importa assolutamente niente di migliorare o peggiorare gli umani. …ma il Dio che gioisce per le pie disposizioni e per gli uomini che si esercitano nella santità è senza dubbio il Dio dell’Antico Testamento”. Avrete anche colto, sicuramente, che nel Dio, che non partecipa a nient’altro, al quale non importa niente degli umani, è assente l’anima bella, che invece è presente nel Dio dell’Antico Testamento, perché gioisce per le pie disposizioni e per gli uomini che si esercitano nella santità. A pag. 107, Capitolo quinto. Dopo aver trattato della concezione prevalentemente religiosa e teologica di Dio, affrontiamo ora la concezione metafisica, di cui forniamo una presentazione unitaria, con l’espressione globale “sfera del divino”. Riteniamo legittima questa impostazione unitaria per i seguenti motivi: a) innanzitutto, tra le varie figure metafisiche che compongono questo ambito, esiste una costante e strutturale ambiguità di epiteti che si intreccia con una reciprocità di funzioni. b) In secondo luogo, c’è una base filosofica comune per queste varie figure, consistente nella funzione mediatrice fra Creatore e creato. c) In terzo luogo, esiste una precisa struttura logica, che metteremo in rilievo, la quale rende in un certo senso necessario raggruppare in un’unica categoria i vari concetti qui a tema. Anche lui è costretto a fare quello che dicono i neoplatonici: unificare. D’altra parte, per comprendere bisogna unificare. A pag. 108. In particolare, in questo ambito si dovrà spiegare come il carattere della inconoscibilità, della immutabilità, della impassibilità di Dio si concilino con il Suo rapportarsi al mondo, il quale, peraltro, alla luce di quanto si è detto nel capitolo precedente, si pone come il tema essenziale della teologia filoniana. L’Alessandrino cerca di risolvere il problema, distinguendo varie figure concettuali e metaforiche in corrispondenza con le diverse funzioni divine in relazione al creato; tuttavia, proprio nel fare questo, egli ripropone in modo ancora più marcato, anche se ad un differente livello, l’antinomia di fondo fra l’unicità e la molteplicità di Dio, della quale offre soluzioni che rimangono, almeno in parte, problematiche. Ed è per questo motivo che tutto l’ambito della realtà intermedie è dominato dalla dialettica uno-molti, la quale è particolarmente evidente soprattutto nella prima figura metafisica, certo la più importante, il Logos, da cui cominceremo la nostra analisi. Questo tentativo da parte di Filone di eliminare il problema dell’uno e dei molti, in che modo poi lo risolve? Facendo delle distinzioni, ma soprattutto ponendo questo problema dell’uno e dei molti al di sotto di Dio. Ma, naturalmente, mettendolo al di sotto non risolve il problema, semplicemente fa come se non ci fosse. A pag. 112, Qui c’è una citazione dall’Erede delle cose divine di Filone: “Tutte le altre cose sono per loro natura inconsistenti, e, se mai riescono ad avere una qualche consistenza, è perché sono tenuti insieme dal Logos divino. Questo fa il logos divino tiene insieme. Egli è la colla e il vincolo che riempie tutte le cose della sua essenza. Colui che rinserra e tiene insieme ogni cosa è, per eccellenza, ripieno di se medesimo, non avendo bisogno di altro assolutamente”. Il senso precipuo di questi passi, letti alla luce di quanto abbiamo mostrato nel capitolo terzo, è quello di trasmettere al creato il carattere divino della immutabilità e della stabilità, giacché, come dice Filone, “il Logos infinito di Dio eterno è il più forte e il più stabile sostegno della totalità del cosmo. Vedete che c’è sempre bisogno di qualche cosa che, intanto, metta insieme, cioè, unifichi, e che poi mantenga unificato. Sono tentativi di arginare l’irruzione continua e incessante dei molti, che, come sappiamo da Platone, sono i cattivi, e i cattivi vanno arginati, vanno ingabbiati, vanno rinchiusi. Ora, il Logos avrebbe per Filone questa prerogativa di tenere insieme. Poi, farà questa distinzione, che c’è in greco, per la quale si può usare logos tanto come parola quanto come ragione, indistintamente, a seconda della esigenza del momento. Questione questa notevole perché dice di come sono fatte le parole: vengono utilizzate a seconda della esigenza del momento. Ciascuna parola ha un numero indeterminato di significati, ed è questo a costituire la possibilità dell’interpretazione perché, se non ci fossero tutti questi significati, cosa interpreterei? Naturalmente, si tratta di de-cidere, proprio di tagliar via quei significati che io ritengo importanti, e sono importanti quei significati che consolidano la mia volontà di potenza. È per questo che esiste l’interpretazione, perché le parole sono polivoche, non sono univoche. E, allora, c’è il significante e poi c’è l’ἀπείρων, significati a perdita d’occhio, e, quindi, bisogna decidere quali significati accoglieremo, che sono quelli che naturalmente servono alla mia tesi, ovviamente. Questo, da una parte, costituisce la possibilità stessa di parlare, cioè, di rinviare e, quindi, dell’interpretazione; dall’altra, dice anche dell’impossibilità dell’interpretazione, perché l’interpretazione determina un certo significato, un certo numero di significati. E tutti gli altri, perché vengono scartati? In base a quale criterio? In teoria, non dovremmo scartarne nessuno, ma se non ne scartassimo nessuno, non parleremmo.
Intervento: Quindi, è necessaria l’interpretazione?
Sì e no, direi così, di primo acchito. È necessaria perché è quella cosa che consente di mostrare un rinvio, cioè, di avere accesso a quei significati che mi servono per la volontà di potenza; non è necessaria, perché qualcuno potrebbe dire che, per esempio, già soltanto il λέγειν τί è un caso di interpretazione, perché ci si sposta dal λέγειν al dire qualcosa; questo qualcosa sarebbe l’interpretato del λέγειν, che sarebbe l’interpretante. Sì, certo, ma a condizione che il λέγειν e il τί siano separati, ma se sono lo stesso? Se sono lo stesso allora non c’è più l’interpretante e l’interpretato, perché sono la stessa cosa. Per questo dicevo sì e no, cioè, questa simultaneità è quella che, peraltro, consente l’interpretazione, senza questa simultaneità non ci sarebbe neanche la possibilità dell’interpretazione, la quale interpretazione dice quali significati scegliere: l’interpretazione precisa quali significati occorrono, quelli che mi servono. Può farlo perché ciascuna parola ha una quantità sterminata di significati. A pag. 112. Per ciò che concerne l’ambito della mediazione antropologica, è presto detto: basti tener conto che per Filone le anime immortali sono “Parole incorporee” e che l’uomo noetico altro non è che una copia del Logos. Ancora, nella costituzione antropologica Filone pone in massimo risalto il Logos come forza direttiva della sensazione ed è manifesto che ciò avviene per analogia con l’azione del Logos sul cosmo. Ecco l’analogia, che è importantissima nell’interpretazione, perché l’interpretazione ha bisogno dell’analogia, si nutre di analogia. Questa analogia comparirà spessissimo nel logos, analogia con il cosmo. Naturalmente, occorre presupporre che il cosmo abbia un ordine, e allora io posso costruire quell’analogia che dice “siccome il cosmo è ordinato in un certo modo, anche il logos, che grosso modo funziona alla stessa maniera, anche lui avrà un suo ordine. È il pensiero che funziona così, quando pensa funziona così. L’analogia è ciò che, sì, consente di pensare, ma consente di pensare cose che non sono sostenibili in nessun modo. Qualunque opinione non è sostenibile teoreticamente perché non esiste una verità epistemica. L’opinione muove dalla certezza inconsapevole che esista la verità epistemica, altrimenti non avrebbe quella opinione, perché non significherebbe niente, non ce l’avrebbe così come non ha l’opinione opposta, per esempio. L’opinione, la credenza, la percezione tutte queste cose, necessitano dell’idea della verità epistemica, senza la quale crolla tutto. Non c’è opinione possibile senza verità epistemica. Io penso che sia bene così. Posso pensarlo, certo, ma perché lo penso? Cosa me lo fa pensare, se non altre cose che io per qualche motivo ritengo vere? E se non fossero vere? C’è anche questa eventualità. Lo sono e non lo sono simultaneamente. Dove sta la verità? In un certo senso, dappertutto, ovunque, in questa infinita frammentazione, in questo ἀπείρων. Potremmo dire che la verità sta nell’ἀπείρων, in un certo senso. L’ἀπείρων è l’impossibilità dell’opinione: come faccio a avere un’opinione? Non posso appoggiare il piede su nulla, non posso soffermarmi su nulla, perché appena mi soffermo questa cosa scompare: apparendo dilegua. Eppure, si pensa sempre per opinioni, anzi, non c’è altro che le opinioni, cioè la doxa: si pensa così, si crede così? È inevitabile. Ciò che è evitabile, anche se non è facile, è il credere che sia così. Certo, mi avvalgo della doxa, so che questo tavolo può sostenere questo libro, penso che sia così, e mi avvalgo di questo per metterci sopra il libro. Ma anche questa banalissima considerazione, se incominciassi a interrogarla, mi troverei faccia a faccia con l’ἀπείρων, con l’impossibilità di stabilire alcunché, perché, per fare una cosa del genere, devo già presupporre di sapere che cos’è il libro, di sapere che cos’è il tavolo, di sapere cosa significa sostenere, sapere che cos’è la forza di gravità, devo fare come se sapessi tutte queste cose. Ma le so? Cosa dico quando dico che so qualcosa? Che conosco il principio di ragione. Ma questo principio di ragione dove lo trovo? Nella verità epistemica. Ma se non c’è la verità epistemica, che facciamo? A pag. 114. Qui c’è un passo interessante, che si trova nel primo libro del De vita Mosis, dove si introduce la figura dell’orthòs logos... L’orthòs logos proprio sarebbe la parola adeguata alla cosa. …che, nella considerazione del nostro filosofo, viene a corrispondere alla legge di natura (si ha così la retta ragione di natura, che è principio e fonte di virtù) e, per altro verso, anche alla guida dell’uomo virtuoso, in quanto “protettore, tutore, padre del nostro essere composto”. L’orthòs diventa principio e fonte di virtù, perché ci si adegua alla natura. Di nuovo, qui c’è la presupposizione di sapere cosa sia la natura. Ovviamente, stiamo parlando di un discorso religioso, quindi un discorso che è sempre e comunque pilotato dalla credenza in un Dio che garantisce tutto. Il perché ce l’ha mostrato prima: a differenza del greco, dove Dio non garantisce niente, nell’ebraismo e naturalmente nel cristianesimo, Dio, invece, diventa garante di tutto. È un bel passo avanti. Si legge qua e là fra le righe, poi, alla fine, lo dirà più o meno esplicitamente: finalmente poi è arrivato il cristianesimo, con il quale abbiamo risolto tutto. Perché lui è fondamentalmente cristiano, ma è un neoplatonico, tanto Reale quanto il suo allievo Radice. Sempre a pag. 114. …appare chiaro che la forza generativa del Logos non investe semplicemente la sfera morale, ma anche il livello gnoseologico in senso lato (la conoscenza del sensibile e del soprasensibile); e ciò è del tutto naturale, se si tiene conto della stretta connessione che esiste, nel nostro filosofo, fra la sfera etica e quella conoscitiva. Attenersi alla natura è principio e fonte di virtù. D’altra parte, a tale rapporto fa capo anche la vasta tematica del Logos come luce, attraverso la quale si va esplicando un sistema di tipo emanazionistico, che rende conto unitariamente sia degli aspetti noetici, sia di quelli sensibili della conoscenza: Filone fa ben notare che, tanto a livello dei sensi quanto a livello spirituale, la luce e la “illuminazione” sono condizioni essenziali del conoscere. Questo viene da Platone, dal mito della caverna: la luce che illumina e che mostra come stanno veramente le cose. L’illuminazione, certo, è quella che fa vedere le cose, come, per esempio, questa lampada. Ma c’è un’altra illuminazione, quella spirituale, quella che fa vedere la verità, quella vera, quella epistemica. Passiamo ora agli ultimi due aspetti del Logos inerenti al livello di mediazione religiosa: sia il Logos sacerdotale che quello profetico hanno una specifica funzione mediatrice. Il primo esercita questa funzione in due sensi: l’uno, che si dispone dall’alto in basso e cioè da Dio all’uomo, e che consiste nel tradurre in parole la volontà e la natura dell’Ineffabile; l’altro, che si dispone dal basso in alto, e cioè dall’uomo a Dio, e che si risolve invece in una funzione di guida e di purificazione, esercitata nei confronti dell’uomo che intende spiritualmente progredire: in tal senso, esso finisce col coincidere con la nostra coscienza individuale. Questi due movimenti, che, in fondo, sono quelli di Plotino, sono circolari, cioè, dall’Uno l’Intelletto, l’Anima e tutto il resto, che poi risale all’Uno, dopo la purificazione.
Intervento: La necessità di trovare qualcosa di superiore, di una guida, come se non avesse sufficiente fiducia nelle sue possibilità……
Dice bene, in effetti. L’uomo, anche nel pensiero greco, è travolto da infinite cose, cioè, dai molti, e finché è travolto dai molti non riuscirà mai a trovare la sua direzione. Poi, è arrivato Aristotele a dire che non c’è neanche la verità epistemica… Un disastro totale. Quindi, dicevo, è come se il pensiero greco, almeno in buona parte, avesse mostrato l’assenza – pensate ai sofisti - di una direzione, perché non c’è una verità da seguire, non c’è una verità da raggiungere. Non sappiamo da dove siamo partiti né dove siamo diretti; di conseguenza possiamo solo continuare questo racconto, che è il nostro vivere, in fondo. Racconto che, possiamo dirla così, non ha né capo né coda, in un certo senso, perché non è sottoponibile a un criterio vero-funzionale, perché non c’è questo criterio vero-funzionale, lo possiamo inventare, ma rimane una cosa inventata da noi. È sorta a un certo punto, l’idea, l’urgenza, la necessità, invece, di un qualche cosa di stabile - probabilmente, anche in connessione con vicende sociali e politiche - di qualche cosa di fermo, di sicuro, qualche cosa che desse l’opportunità di governare con certezza.
Intervento: Come se l’uomo avesse paura di essere solo…
Sì, anche. Essere solo con i suoi pensieri, cioè, io ho un’idea, però questa idea è evanescente, mi sfugge, quindi cerco altri che la confermino, altri che mi dicano “sì, bravo, hai ragione, è così”. A cosa servono gli altri? Servono a confermare che io sono il migliore. A questo punto è sorta, ma è sorta poi in fondo con Plotino dopo il pensiero greco, che ha mostrato la catastrofe del pensiero, soprattutto con i sofisti: l’impossibilità di costruire qualunque cosa. Da qui la famosa accusa di Platone: voi sofisti distruggete tutto ma non proponete niente. No, non proponiamo niente, perché non c’è niente da proporre, di stabile, di fermo, di sicuro, non c’è nessuna verità epistemica da proporre. Che era quello che Platone chiedeva: mostratemi allora voi qual è la verità! Non c’è e, pertanto, non la potevano mostrare. Quindi, la questione è importante, perché coinvolge qui tutto il pensiero occidentale, almeno da Filone, che è quello che ha proposto l’ermeneutica, in un certo qual modo. Poi, Plotino ha dato una sistemata e, in seguito, è arrivato Agostino e tutti quanti gli altri che hanno costruito il cristianesimo. Sì, Paolo, in parte sì, certo, ma da solo non avrebbe fatto niente senza il supporto teologico dei Padri della Chiesa, dei padri fondatori. Basti pensare ai tre padri cappadoci: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzio. I tre padri cappadoci sono i primi, subito dopo Tertulliano e Origene, e siamo al primo secolo dopo Cristo, il corpo era ancora caldo e già si agitavano per costruire ciò che sarebbe diventato poi il cristianesimo. Ecco, allora, l’ermeneutica: l’ermeneutica serve esattamente a questo: a non essere soli perché, se io dico che cosa vuole dire quest’altra cosa, e faccio in modo che altri lo pensino - perché l’interpretazione è sempre rivolta ad altri, non interpreto per me; sì, posso interpretare per me, ma immaginando che questa mia interpretazione poi possa essere diffusa. L’interpretazione serve a convincere, è anche uno strumento retorico, potente.
Intervento: Quindi costringo gli altri a pensare come me. …in ogni caso, perché anche se non fossero d’accordo, avrei comunque condotto i miei interlocutori a ritenere che la verità epistemica che ho posto io sia degna di dibattito…
Questa è una tecnica che viene utilizzata spessissimo, anche oggi. Per esempio, Gabriele è una persona onesta, però, io insinuo che invece sia un malfattore, senza avere nessuna prova, lo insinuo. Naturalmente, lo faccio utilizzando la grancassa dei giornali, della televisione, ecc. Cosa succede? Succede che a un certo punto le persone incominciano a pensare che, se tutti i giornali, ecc., dicono che è un malfattore, almeno qualcosa di vero ci sarà. Ora, questa è la figura di cui dicevamo, cioè, utilizzare un aspetto particolare, prendere questo aspetto, che non importa se è vero oppure no, anzi, se è falso è meglio, perché se è falso è costruito meglio: essendo falso l’ho costruito io con tutti i crismi. Mentre, se devo dire una cosa vera, se devo attenermi a ciò che è accaduto, che mi dicono che sia accaduto, ho comunque dei limiti. Se, invece, mi invento una cosa, non ho limiti, posso inventarmi tutto quello che mi pare, posso inventarmi, per esempio, che Gabriele ha sottratto un miliardo alle casse del Vaticano.
Intervento: L’interpretazione ha a che fare con il velo di Iside. L’interpretazione cerca di togliere questo, velo.
È il suo compito.
Intervento: Di svelare quello che il testo voleva veramente dire.
Esattamente. Salvo poi incappare nel circolo ermeneutico: io tolgo il velo, quello che mi si rivela, a questo punto come faccio a sapere che è la verità vera? Devo interpretare anche quella e vado avanti all’infinito.
Intervento: Tra l’altro, seguendo la non contraddizione del ragionamento, perché alla fine è l’interprete che interpreta. Può anche aggiungere a una conclusione che di per sé non pensava che all’inizio fosse quella giusta, ma la cosa importante è che il suo ragionamento sia coerente, perché ha bisogno che ciò che interpreta porti alla verità esistente, la quale non deve essere incoerente.
Non deve essere autocontraddittoria, mentre sappiamo che ciascun elemento linguistico è autocontraddittorio, perché è se stesso in quanto è altro. La autocontraddittorietà fa parte integrante di ciascun elemento linguistico. È necessariamente autocontraddittorio, se non la fosse non potrebbe rinviare ad altro. Quindi, evitare la contraddizione è, sì, importante, ma la contraddizione come figura retorica. In fondo, il principio di non contraddizione è una figura retorica, anche se è posto come principio logico. Queste cose è come se venissero utilizzate dalla retorica per limitare la possibilità di parola. Ciascuna parola ha una quantità sterminata di significati, alcuni dei quali anche contraddittori. Quindi, il principio di non contraddizione fa in modo che tutti quelli che si oppongono a ciò da cui sono partito vengano scartati. Bisogna aspettare fino a Hegel, perché qualcuno dica: “beh, non è proprio così, perché anche quello che scartiamo ha a che fare con ciò che invece teniamo”. E, infatti, ha a che fare, perché sono due facce dello stesso, e mostra come ciascun elemento sia necessariamente differente da sé, ciascuna elemento è per forza anche il suo negativo; se non lo fosse, scomparirebbe anche lui. Noi ci troviamo sempre di fronte a questo problema: noi continuiamo a parlare, ma attenendoci all’unica verità di cui disponiamo, cioè la doxa. In fondo, anche quello che stiamo facendo qui è rilevare come dei discorsi, sui quali poi si è costruito tutto il pensiero occidentale, siano fondati su niente, si sono costruiti sul nulla. Sono costruiti anche quelli sulla doxa e dopo che ho operato un lavoro enorme per cancellare questa provenienza dalla doxa, facendo invece procedere tutto quanto da un dio. E Dio, come sappiamo da Guglielmo di Ockham, e anche da Einstein, non mente e, quindi, è così come dice lui. Ecco, qui parla delle idee, che sono un aspetto importante. Siamo a pag. 116. Cominciamo dalla figura metafisica delle idee. Va subito detto che la teoria delle Idee costituisce una verità irrinunciabile per il nostro filosofo. Dice, infatti, Filone: “Non v’è un solo tipo di uomini empi e sacrileghi, ma ve ne sono molti e differenti. Gli uni, infatti, sostengono che le Idee incorporee non sono se non un nome vuoto, privo di vera realtà... Cioè, negando totalmente la posizione di Platone, per il quale, invece, le Idee sono la cosa più reale che si possa immaginare. …eliminando così dagli esseri ciò che costituisce la loro realtà assolutamente necessaria, ovvero il paradigma archetipico di tutte le qualità essenziali, secondo cui ciascuna cosa riceve la sua forma e la sua misura. A pag. 117. La collocazione delle Idee nel mondo avviene per il tramite del concetto di Potenze, come risulta dal seguente testo di fondamentale importanza: “Secondo la dottrina delle Idee, Dio ha creato l’universo, ma senza impegnarsi di persona in questo compito, perché, essendo Egli detentore della felicità perfetta, non poteva entrare in contatto con la materia indefinita e caotica. Egli fece ricorso alle Sue Potenze incorporee, il cui vero nome è Idee, al fine di conferire ad ogni categoria la forma che lei era più propria”. Quindi, in Filone queste Idee non sono altro che le Potenze di Dio. Dio non poteva sporcarsi le mani, ma attraverso le Idee potere costruire tutto quanto. Siamo a pag. 120. …facciamo notare che la maggior parte delle connotazioni della Sophia - le quali possono rapportarsi alla immagine della Sapienza come luogo, come moglie o sposa di Dio in relazione alla creazione del mondo, e come fonte - trovano ampi paralleli anche nella simbologia del Logos. Dobbiamo dunque considerare l’identità dei due termini in senso assoluto e totale? E, in caso di risposta affermativa, qual è il motivo di una tale ridondanza di termini? Bisogna innanzitutto notare che Filone anche in questo caso assume una posizione a prima vista ambigua. /…/ Orbene, questa contraddizione può trovare un’adeguata giustificazione nell’ambivalenza semantica del termine logos, il quale, da un lato significa “parola”, dall’altro “ragione”. La parola significa tante cose. Quindi, possiamo giocare, prendiamo di volta in volta quel significato che ci è più conveniente. Per esempio, anche in ambito giudiziario, quali elementi considera il giudice? Quelli che gli servono per chiudere il caso, quelli che servono per la sua carriera, oltre ad altre considerazioni e ad altri fattori che intervengono, naturalmente. …in quanto significa “ragione”, esso può ritenersi generatore e promotore di Sapienza, se non addirittura identico alla Sapienza, come, peraltro, si verificano nella maggioranza dei casi. Lo stesso riferimento al concetto di parola spiegherebbe altresì la medesima funzione cosmopoietica delle due figure; basterebbe in questo senso interpretare la “parola” di Dio nel suo significato biblico: ovvero come parola che crea e nello stesso tempo ammaestra e redime. Ed è proprio a questo punto e su questa base, che è lecito, rispondendo alla domanda che ci eravamo posti, equiparare le figure di Logos e di Sapienza, ritenendo quest’ultima come la trasposizione in forma biblica della prima. In questo caso la Sapienza sarebbe la corretta interpretazione della parola. Quindi, c’è il significante e il significato è La Sapienza; il sapere è cogliere il significato più appropriato, cioè il significato che meglio si confà a ciò che io voglio. Siamo a pagina 129. Quando Filone parla del rapporto fra le Potenze e Dio come trinam perceptionem uni (la percezione trinitaria dell’uno), o delle Potenze come “ombre” dell’unica e medesima realtà, oppure parla di Dio come “visibile anche separatamente…, e nello stesso tempo rivelantesi nelle Potenze”, certo non ha di mira la riduzione a sistema della realtà del divino, ma la sua strutturale unificazione. In quest’ottica, per lui non è tanto rilevante precisare con esattezza i caratteri specifici e l’ordine dei livelli gerarchici, quanto determinare il loro messo fondativo, per quello che ha unificante. L’importante è unificare, ricondurre tutto quanto a Dio. Finché non avviene questa unificazione permangono i molti e finché permangono i molti non c’è la possibilità di stabilire alcunché. Ecco perché la co-appartenenza dell’uno e dei molti rappresenta sempre e continua a rappresentare un enorme problema: perché impedisce l’unificazione, o meglio, unificando disperde, e disperdendo unifica. Vi ricordate il famoso detto di Eraclito: ciò che sorge sorgendo dilegua. L’uno, sorgendo, dilegua nei molti; i quali molti, naturalmente, dileguano nell’uno, ma si co-appartengono. Co-appartenendosi è impossibile stabilire qualunque cosa, è impossibile dunque avere un’opinione, posso soltanto continuare a raccontare.