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20 novembre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 189, al capitolo sull’Autocoscienza. L’autocoscienza come verità della coscienza. Dice, dunque, Heidegger: La prima sezione della Fenomenologia dello spirito aveva per titolo: A. Coscienza. Facciamo bene attenzione: questo titolo non viene ulteriormente determinato. Vediamo di contro: B. Autocoscienza. La verità della certezza di se stesso. Ed anche: C. Ragione. Certezza e verità della ragione. Non è un caso. In A non abbiamo ancora in generale nessuna verità, e dunque non ne può esser fatto cenno. E all’interno di A non abbiamo alcuna verità, perché la verità è costruita preliminarmente sull’intero in quanto verità del sapere assoluto. In A il sapere non è ancora affatto il vero, ma solo l‘oggetto in quanto l’altro estraneo del sapere, ed invero in modo tale, che nel senso del sapere l’oggetto non è inizialmente neppure saputo come l‘altro del sapere, perché questo, sapendo conformemente al proprio senso, ha dimenticato e solamente perso sé nell’oggetto. Sarebbe il sensibile. Si raggiunge la verità del sapere, cioè il sapere in quanto il vero, solo dove il sapere stesso diviene oggetto per esso, dove il sapere è tale per esso, dove la certezza non è più sensibile, bensì “certezza di se stesso”. Certezza vuol dire qui, lo si ricordi, non l’intellezione della sicurezza di un sapere, oppure certezza in quanto certezza-dell’io nel senso del fondamentum absolutum inconcussum di Cartesio, ma il sapere stesso nella forma unitaria del come del sapere e del che cosa del saputo. Solo dove il sapere, la certezza, sa se stesso sussiste in generale la possibilità di verità, in quanto la verità viene preliminarmente intesa in senso assolvente. Perciò verità e certezza non vengono giustapposte, bisogna invece parlare di “verità della certezza di se stesso”. È importante quello che sta dicendo qui Heidegger. In effetti, ciò che è saputo viene saputo nel momento in cui c’è un ritorno, cioè, quando io so di sapere. Prima non posso sapere niente, non c’è nessuna possibilità di sapere alcunché finché io non so di sapere. Ciò che appare sensibilmente – per sé – non comporta nessun sapere; non c’è neanche la possibilità di sapere, perché il sapere è qualche cosa che mi ritorna dopo che c’è la possibilità di accorgermi che io so. Finché non mi accorgo di questo non c’è sapere di niente, è tutto totalmente insaputo. È un po’ come per l’animale: ciò che gli si para contro non è un sapere, non sa di quella cosa, perché non sa di sapere, cioè, il sapere non ha la possibilità di ritornare sulla coscienza, quindi non c’è un’autocoscienza che dice “Io sono io”, per cui, non essendoci autocoscienza, non torna alla coscienza in quanto sapere, potremmo dire, dalla coscienza alla co-scienza. A pag. 192. Quanto più la coscienza e il sapere tornano in se stessi, nel sapere assoluto, dalla loro estraniazione, tanto più autenticamente diventano ciò che noi stessi siamo sin dall’inizio; il sapere assoluto, cioè, venuto a se stesso in modo assolvente, subentra al nostro posto, esso riempie dunque autenticamente il nostro posto, e non v’è poi null’altro di cui noi, a partire da noi stessi, potremmo o dovremmo farci rappresentanti. Noi stessi, i “noi”, siamo portati alla nostra vera ipseità. Il ruolo, che fu nostro sin dall’inizio della Fenomenologia dello spirito, si è ora, esaurito dopo aver dovuto più volte cambiare, nel corso della storia della fenomenologia. Questo movimento, per cui dalla coscienza si torna alla co-scienza – uso questo termine per indicare il ritorno alla coscienza dopo essere passato dall’autocoscienza – porta al sapere assoluto. Questo sapere assoluto, come abbiamo detto altre volte, io sono portato a intenderlo come il sapere del linguaggio, cioè, il sapere di essere linguaggio. Questo sapere è assoluto, non perché sia il migliore di tutti, è assoluto nel senso che oltre non c’è più niente, oltre il linguaggio non c’è più niente che io possa o debba sapere, perché qualunque cosa io possa o debba sapere è all’interno del linguaggio, sennò non è possibile saperlo. In questo senso, dunque, sapere assoluto, e cioè come sapere del linguaggio. Assoluto, nel senso che non c’è altro al di fuori del linguaggio e, quindi, se so del linguaggio so tutto ciò che c’è da sapere, non c’è altro, da nessuna parte, perché non posso uscire fuori del linguaggio. A pag. 196. Non si tratta né d’una dimostrazione dell’esser-assieme-semplicemente-presenti di coscienza e autocoscienza, né d’una prova dell’eterogeneità di entrambe, ma del disvelamento del fatto che l’autocoscienza è la verità della coscienza. Che cosa ci sta dicendo qua se non che il significato è la verità del significante? Il significato non è altro che il significante che diventa effettivamente quello che è, cioè significante. “La coscienza è autocoscienza”. In effetti, se non ci fosse autocoscienza, non ci sarebbe neanche la coscienza, perché se non posso dire “io sono io” non poso nemmeno dire “Io”, che lo dice. Questa frase deve essere intesa nel suo significato speculativo. Lo “è” non significa: negli atti di coscienza che si dirigono verso le cose è sempre presente anche un atto di riflessione che li accompagna, ma la frase “la coscienza è autocoscienza” significa: l’essenza – nel senso dell’essenza assoluto-speculativa – della coscienza sta nell’autocoscienza. il significante sta nel significato, il significato sta nel significante. Il significato non è qualcosa che si aggiunge al significante; è questo che sta dicendo o, meglio, lo sto dicendo io, ma si può intendere anche così. Il significato non è una cosa posticcia, che si può mettere o togliere al significante; no, sono lo stesso. La coscienza si essenzia in quanto autocoscienza. Cioè: la coscienza esiste in quanto autocoscienza; il significante esiste in quanto significato. Ciò corrisponde alla proposizione di carattere generale: “La diversità è la medesimezza”. Un non-senso, per l’intelletto comune, diversità, essa è proprio l’esser-diverso e differenziato, non è affatto la medesimezza. Ma per l’appunto! dice la filosofia: la diversità di due diversi è possibile in ciò che essa è, solo per il fatto che i diversi sono riferiti all’unità di un medesimo, in riferimento alla cui medesimezza soltanto la diversità può essere ciò che essa è nella sua essenza. Cosa ci sta dicendo qui? Che la diversità è medesimezza: come so che qualcosa è diverso? Occorre che ci sia un identico per potere stabilire una differenza, occorre che ci sia un identico perché qualcosa differisca. “Differisca” nella doppia accezione, sia di essere differente, sia di differire, cioè, di spostarsi, quindi, di un movimento. Ecco che allora la diversità e la medesimezza sono lo stesso. Anche rispetto al discorso che faceva prima, della coscienza che ritorna in quanto co-scienza, è sempre il medesimo, è sempre la coscienza, ma allo stesso tempo è altro da sé. La coscienza, per essere se stessa, per essere il medesimo, deve essere altro, cioè, deve avere compiuto questo percorso in cui l’autocoscienza ritorna sulla coscienza volgendola in co-scienza; quindi, la coscienza è quello che è perché c’è l’autocoscienza. Il significante è quello che è perché c’è il significato, che è altro dal significante; quindi, il significante, per essere quello che è, deve essere un significato, che non è un significante; pertanto, per essere quello che è deve non essere quello che è. La diversità ha la sua essenza nella medesimezza. E viceversa corrispondentemente: la medesimezza non significa la vuota uniformità del qualcosa con se stesso, ma: unità dei coappartenenti. Ecco la nozione di medesimezza in Heidegger: è l’unità degli elementi che si coappartengono. Medesimezza è coappartenenza, cioè allo stesso tempo, in se stessa, diversità. Per essere quello che è deve essere altro da sé. Qui è detto in modo preciso. A pag. 201. Il presso-di-sé, che appartiene all’essere-in-sé del sé, il ritorno in sé come la verità, viene inteso come desiderio, come la braa di se stesso del sé, tale che l’appagamento di questo desiderio si svolge sul cammino della coscienza degli oggetti e perciò non giunge al suo fine, bensì produce sempre soltanto nuovo desiderio. Si esprime così il fatto che il sé non è per esso semplicemente presente solo per venir colto nello sguardo riflettente, ma il sé deve necessariamente diventare sé nel suo stesso essere. Solo che questi momenti dell’autocoscienza – l’essere-per-sé e l’essere-per-altro – non sono due determinazioni semplicemente presenti l’una accanto all’altra, ma si appartengono l’un l’altra secondo una modalità che, per quanto detto prima, potremmo esprimere così: la coscienza dell’oggetto non è – nel venire a se stessa della coscienza e diventare autocoscienza – tralasciata e abbandonata, ma tolta e insieme inclusa nel sapere della coscienza di essa stessa. Intanto, la questione che solleva qui Hegel attraverso le parole di Heidegger: la questione del desiderio. Come la pone? Lui dice la “brama di se stesso del sé”, la brama di se stesso di tornare presso di sé, cioè, di essere il Sé. Lo abbiamo visto: per esempio, la coscienza si volge verso l’autocoscienza, quindi, diventa altro da sé, per poi tornare e divenire per sé. Ma questo movimento, in cui viene posto qui il desiderio, è quello stesso movimento che avviene nel funzionamento del linguaggio nel momento in cui, dicendo qualche cosa, questo qualche cosa diventa altro da ciò che io voglio dire e, quindi, è come se dovesse ritornare a sé per essere, invece, quello che io voglio veramente dire. Chiaramente, anziché trovare quello che io voglio veramente dire, trovo uno spostamento. Ecco perché dice non giunge al suo fine, bensì produce sempre soltanto nuovo desiderio, per via di questi oggetti… Che cosa sono qui gli oggetti? Sono le cose che dico, che costantemente si rinnovano: io voglio dire una cosa, questa cosa si mostra differente, e allora devo riprenderla per poterla dominare, in definitiva; ma, nel tentativo di riprenderla, questa cosa si trasforma in un’altra. È come l’esempio banalissimo che facevo tempo fa: se qualcuno mi chiedesse che cosa ho voluto veramente dire, io gli dico che cosa ho voluto veramente dire, ma dicendo altre cose e che, quindi, non sono quello che ho voluto veramente dire. Se poi l’altro insiste, chiedendomi che cosa ho voluto veramente dire con queste nuove cose, gli dirò altre cose ancora. È come se per afferrare l’oggetto, nel movimento di afferrare l’oggetto, l’oggetto facesse sempre un passo in là. E, in effetti, quando la coscienza, divenuta autocoscienza, ritorna in quanto co-scienza, la coscienza ritrova, sì, se stessa, ma in quanto altro; quindi, è se stessa perché è altro. Se non fosse anche altro non sarebbe neanche se stessa, non sarebbe niente. Ce lo diceva prima: se la coscienza non diventa autocoscienza, e la coscienza non torna presso la coscienza, non c’è neanche la coscienza, perché la coscienza di per sé è niente, è soltanto l’avvio, l’incominciamento, un gesto, potremmo dire, un gesto che non ha nessun senso finché non c’è questo ritorno, questa cosa che appunto dà un senso. Pag. 203. L’assoluto.. L’essere, l’intero, il concreto. …resta per l’autocoscienza l’estremo. Estremo tra che? Tra la coscienza e ciò che indicavo come la co-scienza, cioè, la coscienza che sa di sé. Potremmo dire, sempre utilizzando questa metafora di de Saussure, che il significato è il medio, il medio tra due estremi: il primo estremo è il significante, il sensibile, che di per sé non significa assolutamente niente; l’altro estremo è il segno, cioè, la relazione tra i due, l’intero, il vero. Il significato, quindi, è il medio, è ciò che media i due, è ciò che fa esistere questi due in quanto momenti di un intero, che è il segno. Sapendosi così (il sapere assoluto), essa si sa in quanto il sapere che lotta essenzialmente per l’assoluto, ma in questo lottare si fa avanti nella lotta in un costante soccombere. È la lotta che vi indicavo prima, del volere sapere qualche cosa. Nel volere sapere qualche cosa, questo qualche cosa che so si sposta continuamente. In questa lotta soccombo sempre, non vincerò mai. Il tentativo di vincere questa lotta impari, il tentativo posto in atto dagli umani da quando esistono, è uscire dal linguaggio, o immaginare che ci sia qualcosa fuori dal linguaggio che faccia da garante. La coscienza … dell’esistere e dell’operare è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare”;… Il dolore di non raggiungere mai. …il sapere de non venir a capo di ciò cui tende la sua essenza. L’autocoscienza è dunque, proprio là dove si dispiega nella sua propria essenzialità, infelice; la coscienza infelice. Essa non può considerare e concepire se stessa autenticamente in quanto ciò che così già comprenda in certo modo la sua propria verità, in quanto l’assoluto intrasmutabile che non trova sé, cioè la verità, né nell’obietto (Objekt), nell’oggetto (Gegenstand), né esclusivamente nel soggetto di quest’oggetto, bensì in un sé superiore che sa sé come l’unità della prima autocoscienza e della coscienza dell’oggetto, in quanto spirito oppure – nella forma preliminare di questo – in quanto ragione. A che cosa tende questa brama? Vuole, sì, dominare l’oggetto sapendo l’oggetto… cosa che non può fare, perché io faccio un passo in avanti per afferrare l’oggetto ma lui fa un passo in là e si sottrae. Ma, mentre la coscienza infelice si danna per il fatto di non potere giungere mai all’assoluto, che è dio, per Hegel invece no, l’assoluto per lui è raggiungibile, ed è raggiungibile nel momento in cui arrivo alla ragione, ragione che mi dice che ciò che io sto cercando è già qui, adesso, non devo cercarlo chissà dove. L’intero, la verità, l’assoluto, l’essere, è già qui, in questo momento. È questa la cosa preziosa di Hegel. Ci sta dicendo che l’essere, ciò che gli umani hanno sempre cercato e che è ciò che garantisce l’enticità di qualunque ente, tutto questo è già qui, presente, adesso; non devo cercarlo, devo soltanto accogliere che io sono linguaggio e che non c’è altro fuori di me, cioè, non c’è altro al di fuori del linguaggio. A questo punto sono la stessa cosa: dire che non c’è altro fuori del linguaggio è come dire che non c’è altro all’infuori di me, perché io sono linguaggio.  Quindi, occorre giungere alla ragione. E, infatti dice Se ciò accade, allora “è un’autocoscienza per un’autocoscienza; e soltanto così in effetti essa è; perché soltanto così divien per lei l’unità di se stessa nel suo esser-altro”. “Così per noi è già presente i concetto di spirito”. Perché “la ragione è la certezza della coscienza (cioè dell’autocoscienza) di essere ogni realtà”. Questo sta dicendo, tra l’altro citando Hegel. Dice che si tratta di un’autocoscienza per un’autocoscienza; anche l’autocoscienza ha il suo negativo, cioè, quando pone se stessa come altro da sé, perché in fondo anche l’autocoscienza ha un suo negativo. Se io penso all’autocoscienza, ciò che sto pensando non è propriamente l’autocoscienza, l’autocoscienza è un’altra cosa, e allora voglio raggiungerla, voglio definirla, voglio appropriarmene, ma la verità è questo movimento, non è il reperimento dell’autocoscienza in quanto tale, che peraltro, come diceva prima, non è altro che un medio. Se ci riferiamo qui all’autocoscienza come al significato, è chiaro che volere conoscere il significato ultimo delle cose, è la cosa che gli umani da sempre hanno cercato. E che cosa hanno trovato? Per Hegel sarebbe da trovare questo movimento che produce questa ricerca, movimento continuo, perché è in questo movimento che c’è la verità: la verità è questo movimento, è la dialettica. Non ce n’è un’altra, e questa è la ragione; dice che la ragione è la certezza della coscienza (cioè dell’autocoscienza) di essere ogni realtà. Più chiaro di così! A pag. 204. La coscienza infelice non è né semplicemente priva di felicità né solo successivamente preda dell’infelicità, ma essa non è ancora felice – ma in modo tale da sapere della felicità proprio nel sapere la sua infelicità. Il sapere dell’infelicità non è un relativo, astratto appurare l’esser-semplicemente-presente d’una situazione fatale, ma il rovello del sapere, la lacerazione del non-potere-conseguire la felicità. Così in certo modo già anche, e appunto, nell’autocoscienza, il vero essere, l’assoluto perviene alla certezza. Nel momento in cui mi rendo che questa infelicità, che viene dal desiderio, quindi, dalla lotta che metto sempre in atto per stabilire che cosa ho veramente voluto dire, lì c’è la possibilità di accorgersi che ciò che sto cercando, ciò che dovrebbe rendermi felice, è già qui, presente, adesso. Questo naturalmente pone una questione interessante, perché se pensate al modo in cui si muovono gli umani, sempre nell’affannata ricerca di un qualche cosa che li renda felici – continuiamo a usare questi termini di Hegel – tutto questo darsi da fare non è altro che un movimento rispetto all’apertura che il dire apre e che nega la possibilità di afferrare il significato, perché sempre spostato, e che pertanto mette in moto questo movimento che dal significato mi fa tornare al significante e dà un significato al significante, lo fa essere quello che è. Quindi, in realtà che cosa si cerca? Si cerca ciò che si ha già; ma ciò che gli umani cercano è di fermare questo movimento, fermarlo, cioè, stabilizzare finalmente il significato, stabilire che cosa una cosa veramente è. È il mito della scienza; in fondo, la scienza, anche se non se ne rende conto o non vuole rendersene conto, cerca l’essere, l’essenza della cosa, ciò che la cosa veramente è. Per quale motivo? Per impossessarsene, quindi, per farla funzionare come vuole lei. Il tentativo estremo messo in atto da ciascuno, perché non può non farlo, fino al punto in cui non ci si avvede in qualche modo che siamo già nella verità. La verità non è altro che l’intero, il concreto. Perché? Perché nel concreto questi elementi che intervengono, cioè ciò che sto dicendo e ciò che ho detto, si integrano, non sono più due momenti separati; certo, rimangono distinti ma si integrano nel concreto. Il concreto è appunto l’integrazione dei due momenti che l’atto di parola instaura in questa separazione. La separazione, ovviamente, non può togliersi. Ma intendere il concreto, un po’ come diceva Severino, è importante. Il concreto mi mostra l’apparire di ciò che appare non in quanto somma o accostamento di elementi astratti ma come un qualche cosa che è quello che è in quanto è inserito in un racconto. È quel racconto che sto facendo che rende ciò che sto dicendo quello che è; non sono gli astratti che rendono il racconto quello che è, per nulla, anzi, se considero gli astratti come astratti mi sposto totalmente dal racconto e non capisco più niente. Intendere il concreto è intendere che qualunque cosa è quella che è perché inserita nel mio racconto, nella mia storia, nel mio mondo e, quindi, ciò che mi appare mi appare all’interno del mio mondo, e non potrebbe essere altrimenti. Dicevamo prima che io sono linguaggio, per cui non posso uscire fuori, in nessun modo. Ma la verità non è ciò che appare, anche se in Hegel sì, in parte, per cui l’essente è in quanto appare come essente; sì, certo, anche, ma non è solo questo, cioè l’essente appare così com’è proprio perché inserito nel racconto, un racconto che è fatto di tutto ciò di cui io sono fatto. Fuori da questo racconto, astraendo da questo racconto, questa cosa non c’entra più niente, diventa un’altra cosa, che sarà inserita, nonostante tutto, in un altro racconto. Ricordate la famosa frase di Severino “questa la lampada che è sul tavolo”: se io astraggo gli elementi, il tavolo, la lampada, ecc., astraendoli stravolgo il concreto e, facendo questo, mi ritrovo a inserire questi elementi in un altro racconto ancora, che non è più il primo, naturalmente. È come se questi elementi astratti, per essere astratti, dovessero comunque avere un concreto; anche se astraggo la lampada e la considero per sé, questo considerarla per sé è comunque all’interno di un racconto, non può non esserlo, non può essere, per citare Husserl, al di fuori della Lebenswelt, al di fuori del mondo della vita, o del mondo semplicemente, come diceva Heidegger. Non può esserne fuori, sarebbe come essere fuori dal linguaggio. Quindi, anche se compio questa astrazione, è chiaro che facendo questo non intendo più il concreto da cui sono partito, perché in un certo senso l’ho alterato. Cogliere il concreto significa intendere che tutto ciò che mi appare mi appare in questo momento, qui e adesso, perché inserito nel racconto che io sto facendo qui e adesso. A pag. 210. Comprendiamo realmente questo brano solo se sappiamo leggere e concepire compiutamente cosa vi sia detto: la vera essenza dell’essere, l’infinità, è l’essenza del tempo che ha la figura dello spazio. La vera essenza dell’essere è l’infinità. Che è quello che ha appena detto: la vera essenza dell’essere, il concreto, è l’infinità di quegli elementi di cui è fatto. Chiaramente, tutti questi elementi poi vengono accolti come uno, ma questo uno è fatto di molti, non esisterebbe senza i molti. Si osservi soltanto che per Hegel l’Allora, cioè il passato, costituisce l’essenza del tempo. Ciò corrisponde alla concezione fondamentale dell’essere secondo la quale è autenticamente essente ciò che è tornato in sé. In senso assolvente, ciò vuol dire: essente è il sempre già avvenuto, rispetto al quale null’altro può essere prima, ma è ciò che sempre tardivo e giunto-troppo-tardi. Qui si intende perché per Hegel la questione del tempo si riduce al passato. Ciò che è stato non è altro che ciò che è tornato in sé. Io posso cogliere il passato nel senso che qualche cosa è ritornato, è tornato come altro. Se noi prendiamo il suo schema – coscienza, autocoscienza – la coscienza potremmo dire che in un certo senso è il passato, ma questo passato esiste soltanto nel ritorno dall’autocoscienza alla co-scienza. Rispetto al passato dice null’altro può essere prima; no, non c’è un prima, è già sempre stato. È un po’ come il discorso che fa Peirce rispetto al segno: non c’è il primo segno, non c’è il prima del segno, perché non sarebbe un segno e, quindi, sarebbe fuori del linguaggio. A pag. 212. Il primo momento è il sussistere delle figure indipendenti; sta in esso un negare la differenziazione perché il differenziare in sé non è altro che essere messo in relazione,… Il differire, dicevo. Il differire anche come un portare oltre, uno spostare. …essere teso nel riferimento, non essere in sé, non avere alcun sussistere. Il primo momento, quello della coscienza, l’inizio, il cominciamento, non ha nessun sussistere, perché se non è in relazione con qualcosa, se è irrelato, non c’è, non sussiste. Se il significante non ha un significato, questo significante non esiste. Quest’unità che risulta nel movimento stesso dell’intero è l’unità più alta ed autentica della vita, ed è quindi altra da quella immediata. Lui si riferisce all’unità nel senso del concreto, dell’essere, del sapere assoluto. Quest’unità superiore stessa non si sfalda però per così dire per sé, in quanto risultato per sé sussistente, ma la vita, in questa sua unità superiore, rimanda al punto più alto dell’altezza in cui si situa ogni superamento, cioè ad un sapere che deve ora esso stesso essere vita, indipendenza. Quest’altra vita è l’autocoscienza. essa si dispiega sul filo conduttore dei momenti della vita ora riportati, che possono essere compresi in quanto momenti solo se vengono ripresi nel movimento circolare. Aggiungo io: della dialettica. Senza questo non c’è la vita perché, qualunque cosa intendiamo con vita, ciò che intendiamo in ogni caso è l’essere in continua relazione con qualcosa, quindi, l’essere presi in questo movimento perpetuo – lui dice circolare – che è la vita stessa. Con vita possiamo intendere anche ciò che Heidegger chiama il mondo, il mondo di cui io sono fatto, che non è altro che un insieme di relazioni. Questo lo aveva inteso molto bene Peirce. Relazioni dove il funzionamento che osserviamo è sempre lo stesso, cioè, c’è un primo momento, ma che non esiste senza il secondo, e questo secondo non ci sarebbe ovviamente senza il primo. È il secondo elemento che fa esistere il primo. Ma è la relazione che fa esistere questi momenti. Non è lontano da ciò che dicevo prima rispetto all’atto di parola. Io sto dicendo qualcosa, questo qualcosa che dico non c’è senza il mio dire, ma il mio dire senza il qualcosa che dico è niente. Quindi, abbiamo la necessità di entrambi i momenti: il mio dire e il qualcosa che dico. Lo dicevamo forse l’altra volta: questo qualcosa che dico è il primo qualcosa che compare, il primo oggetto. Quindi, non c’è necessità di oggetti, come si suol dire, esterni, che arrivino da chissà dove; no, è ciò che dico il primo qualche cosa, il primo qualche cosa che mi estranea, naturalmente, perché dicendo dico qualche cosa ma questo qualche cosa non è ciò che sto dicendo, c’è una distanza, un differire, letteralmente in tutti e due sensi. E io sono questo stesso differire continuo. In questo per Hegel sta la verità, non sta nella cosa o chissà dove, ma nella relazione, che è appunto un differire in entrambi i sensi: di essere differente e di spostarsi. Quindi, ogni volta che parlo io differisco, cioè, produco differenza, produco continuamente differire. Questo differire continuamente mi differisce sempre da ciò che voglio dire, cioè, mi sposta, mi porta via da ciò che voglio dire. Perché voglio sapere ciò che voglio dire? Per dominarlo, perché quello che dico sia quello che è e non altro. È chiaro che qui la volontà di potenza la fa da padrone, nel senso che si gioca tutto intorno a questo, al volere stabilire con certezza ciò che dico, che non è altro che l’idea che le cose stiano così come io dico. In effetti, tutto si riduce a questo: io dico come stanno le cose. Ma per potere fare questo occorre che ciò che io dico sia quello che è e, quindi, non differisca. Devo assolutamente evitare il differire. Ma come lo evito? Immaginando che questo qualche cosa, questo primo qualche cosa di cui parlavo prima, che è il mio detto, non sia più nella parola ma sia un qualche cosa di esterno al linguaggio. Questa è la prima idea che gli umani si sono fatti: il primo qualche cosa che è un qualche cosa che non è più linguaggio, perché ciò che ho detto è come se non mi appartenesse. Quando dico qualche cosa, questo qualche cosa che dico viene ascoltato da altri, ma io non so come viene ascoltato, può essere ascoltato in mille modi diversi, magari in modo opposto a quello che io intendo, e quindi è come se non mi appartenesse più. E allora devo controllarlo. Per controllarlo devo fare in modo che questa cosa sia esattamente quella che è, cioè non differisca, mettendo in atto tutta una serie di procedure, che gli umani metto in atto da sempre. Potremmo riassumere il tutto in questa espressione: parlando io differisco, sia nel senso che differisco da me che sto parlando, sia nel senso che mi sposto, che sono poi due aspetti della stessa cosa. Parlando io differisco e non c’è nulla cui io possa aggrapparmi o appoggiarmi per evitare di differire, perché è il linguaggio che funziona così. Se non funzionasse così non esisterebbe. Questa stessa cosa che gli umani cercano di evitare è ciò stesso che consente loro di pensare di evitarlo o di poterlo evitare, e cioè il dire. È una ben bizzarra situazione.