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20 ottobre 2021

 

Aristotele Metafisica Θ 1-3 di M. Heidegger

 

Aristotele sta rispondendo a una delle domande che gli umani si sono fatti da sempre: da dove vengono le cose e dove vanno. Questo generalmente è riferito a sé: chi sono io? Da dove vengo? Questa risposta l’ha fornita Aristotele. Aristotele non se ne avvede un granché, sfugge anche ad Heidegger, però, la questione riguarda questo. Qui Heidegger si accorge che Aristotele pone la questione centrale nel λόγος, nel discorso, nel dire, cioè, δύναμις e ένέργεια sono nel λόγος. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che tutto ciò che ha a che fare con l’avviarsi di qualche cosa è nella parola: la potenza e l’atto sono nella parola, nel λόγος. Ma, soprattutto, Aristotele risponde alla domanda “da dove vengono le cose?”: vengono da qualche cosa che in potenza avvia qualche cosa per essere atto, simultaneamente, perché poi a un certo punto non c’è più distinzione, e cioè: le cose vengono dal linguaggio e vanno nel linguaggio. Questo è ciò che sta dicendo Aristotele, che descrive la δύναμις, la potenza, in un modo che sarà straordinariamente simile a come poi la riprenderà Hegel. La mia idea è che ciò che fa qui Aristotele nella Metafisica vada al di là di ciò che ha fatto Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Hegel dà una sorta di determinazione a questi due momenti, l’in sé e il per sé, coscienza e autocoscienza, Aristotele no, non avverte questa esigenza di determinare in questo modo la potenza e l’atto, li lascia in un modo totalmente astratto; cosa che a me pare più interessante. In effetti, ciò che per Hegel è l’in sé, la coscienza o la percezione o qualunque cosa vogliamo dire, è comunque un qualche cosa che è in potenza finché non trova ciò che gli si oppone; se non lo trovasse mai non sarebbe mai esistito, così come la potenza, se non giungesse all’atto, non sarebbe mai esistita, non c’è una potenza se non c’è l’atto o la materia senza la forma, non si dà. Aristotele ha inteso che la condizione di qualunque cosa è il λόγος, anche se non è che avesse inteso molto bene il funzionamento del λόγος, però ha capito che il λόγος funziona così: c’è un elemento che è in potenza qualunque cosa, ma diventa qualcosa nel momento in cui è in atto, allora è qualcosa, è quella cosa. Così come la materia diventa forma, diventa quella forma lì: la famosa statua di bronzo, di cui Aristotele parla spessissimo. Quindi, il lavoro che sta facendo Heidegger in questo libro – d’altra parte, è quello che ci aspettiamo da lui – è che ci evidenzi delle cose che dice Aristotele e che ci possono essere sfuggite. A lui non sfugge nulla; non ne coglie tutte le implicazioni e le connessioni, ma non gli sfuggono questi aspetti. E, infatti, nelle pagine successive vedrete come lui stesso, Heidegger, coglie come Aristotele determini in modo assolutamente preciso il funzionamento del linguaggio, ancora più di quanto abbia fatto Hegel. Aristotele non ne ha tratto tutte le conseguenze, ovviamente; Heidegger avrebbe potuto, però… Ma riprendiamo la lettura di Heidegger. A pag. 57. Il tema ora è costituito dalla δύναμις κατά χίνεσις (la potenza secondo il movimento) nel significato usuale e autentico. Questo significato, a sua volta, mostra più significati, ma lo fa πρός τό αύτό εδος (secondo la stessa forma, secondo il modo in cui si dice). In base a questo unico ed identico significato conduttore fissiamo quattro punti: 1) άρχή, 2) μεταβολή, 3) έν λλω, 4) λλω (1 - principio, l’incominciamento, 2 – trasformazione, mutamento, 3 – l’uno come altro, l’alterità dell’uno, 4 – l’uno in quanto altro. C’è l’uno altro da sé e l’uno in quanto altro). Indipendentemente dall’interpretazione, abbiamo, per penetrare a fondo nella comprensione della cosa, esposto fenomeni che ricadono sotto il titolo di δύναμις e che noi abbiamo indicato con le parole: forza, capacità, autorizzazione, attitudine, idoneità, dote, abilità, destrezza, facoltà, potenza, potere. Questi sono i significati più usuali di δύναμις. Questo non significa che procediamo tra i significati lessicali senza sapere dove poggiare i piedi. Queste espressioni sono ordinate in qualche modo secondo certi ambiti dell’ente, e noi avvertiamo che si tratta di determinazioni fondamentali di tali ambiti, i quali senza tali determinazioni resterebbero per noi assolutamente inaccessibili. Di volta in volta ciascuno di questi significati ha una sua valenza specifica all’interno di una precisa proposizione. Da un punto di vista formale-astratto, tutti questi fenomeni potrebbero essere colti riassuntivamente come un “saper fare”. Il saper fare sarebbe qui quel significato dal quale dipendono e discendono tutti gli altri significati. Il saper fare è un’“esperienza vissuta” che facciamo noi stessi: viviamo l’esperienza del saper fare e non saper fare in noi stessi. Qui, allora, in un’esperienza soggettiva, risiede l’origine del concetto di forza. Secondo Heidegger, che legge Aristotele, il concetto di forza viene da qui: dal saper fare o non sapere fare, dall’essere capaci o non capaci di fare qualche cosa. A pag. 59. Se vogliamo trattare a ragion veduta di qualcosa come la forza, allora bisogna, a quanto pare, aver prima stabilito che vi sia qualcosa del genere. Come facciamo, dunque, a stabilire che una forza c’è? Trovare delle forze è altrettanto semplice quanto trovare alberi, case, monti, corsi d’acqua oppure i tavolo e la sedia? /…/ A questa domanda rispondiamo certamente di no; infatti, per esempio, della capacità di carico di un ponte facciamo esperienza solo nella prestazione fornita dal ponte stesso; ugualmente, percepiamo la forza luminosa del colore solo dal suo splendore, come suo effetto, e valutiamo la facoltà di agire solo in base al successo ottenuto o all’insuccesso. Non ci sono forze di cui sia possibile stabilire immediatamente l’esistenza, incontriamo sempre e solo prestazioni, risultati, effetti. /…/ Ma è poi vero che incontriamo immediatamente degli “effetti”? Il rilucere del colore è senz’altro un effetto? Il “cadere” del sasso è senz’altro un esser astratto, un effetto? /…/ Una cosa ci è data nell’esperienza come un effetto solo se la cogliamo come prodotta in forza di altro, quindi, come proveniente dalla forza come causa. Ci sta dicendo, anche se non esplicitamente, che noi cogliamo la forza perché questa forza è già presente, cioè, noi sappiamo già che cos’è la forza, che cos’è un saper fare, che cos’è la δύναμις, e lo sappiamo perché parliamo e parlando mettiamo in atto questa forza: ecco perché lo sappiamo. Gli effetti in sé sono altrettanto reperibili quanto le forze in sé; le forze non sono meno comprensibili degli effetti; gli effetti, cioè, sono altrettanto enigmatici quanto le forze. /…/ C’è bisogno di retrocedere, o meglio di riflettere e di interrogarsi retrospettivamente sul passaggio dall’effetto nella sua particolarità alla causa, solo quando e solo se si voglia determinare più esattamente la causa, posta già come reperibile. Questa causa c’è già in noi perché, come dicevo, la esperiamo nel parlare, nel saper fare. Il saper fare originariamente è il saper parlare: quando si incomincia a parlare, lì si incomincia a sapere fare. Che cosa si fa? Si parla, appunto. A pag. 61. La delimitazione essenziale data da Aristotele della δύναμις, è stata invece considerata come una definizione assodata, e mai nessuno in essa ha colto realmente la domanda o ha cercato di chiedersi che cosa si nascondesse dietro di essa. Così, restò muta e finì per diventare banale. A causa del mancato riconoscimento del suo contenuto e del suo ruolo di guida, le si attribuirono, all’inizio della scienza moderna e della natura, pretese che essa non poteva e non voleva soddisfare. La si dichiarò “scientificamente” inutilizzabile, intendendo con “scienza” l’indagine matematico-fisica sulla natura. Ma in questo modo, dal punto di vista filosofico, non era stato deciso nulla. Da sempre, il modo più sicuro e comodo, per rendere innocuo e privo di importanza qualcosa è quello di concedere e di riconoscere una volta per tutte che si tratti di qualcosa di ovvio. Una volta stabilito come ovvio è cancellato. Si ha così la fondata speranza di ottenere l’approvazione generale. È quel che è successo a δύναμις e ένέργεια nel giudizio della storia della filosofia. E così noi posteri ci troviamo in una situazione particolare: dobbiamo far sì che qualcosa di ovvio torni ad avere per noi dignità di domanda. Compito che peraltro si è prefissato Heidegger: riportare delle cose che appaiono ovvie alla dignità di domanda. A pag. 62. Il compito è dunque quello di superare Aristotele; non in avanti, nel senso di un progresso, ma all’indietro, nella direzione di un disvelamento che mostri più originariamente quel che da lui è stato pensato. Questo significa anche che non si tratta di correggere la definizione in questione, di lambiccarsi astrattamente il cervello intorno a singoli concetti senza vita; questo superamento all’indietro è invece, in se stesso, il odo in cui ci sforziamo di riportarci di fronte alla realtà che governa segretamente quei concetti che la tradizione considera ormai morti. A pag. 65. Dopo aver introdotto il significato conduttore di δύναμις, Aristotele prosegue dicendo: “Il primo modo (dell’esser-forza) è infatti una forza del patire, forza che nel paziente stesso è in quanto punto di partenza di un mutamento passivo, che può essere subito a partire da altro o a partire dallo stesso in quanto altro. L’altro modo (dell’esser-forza), però, è il contegno (l’atteggiamento) dell’intolleranza di fronte ad un mutamento verso il peggio e di fronte ad un mutamento nel senso di un annullamento ad opera di altro, o, nella misura in cui quel che muta è altro, ad opera di altro proprio in quanto punto di partenza di un possibile mutamento. Tutte queste delimitazioni (dei modi dell’esser-forza) recano in sé e nel loro fondamento il significato di δύναμις che noi abbiamo nominato per primo, ossia il significato conduttore”. Due δύναμις, dunque: 1) la forza di patire qualcosa a partire da altro; 2) il contegno dell’intolleranza (insofferenza) di fronte ad un mutamento verso il peggio o addirittura nel senso dell’annullamento ad opera di altro. Quindi, c’è un patire da parte di qualcun altro, ma anche il resistere a questa forza esercitata dall’altro. A pag. 67. L’intero contesto deve quindi essere afferrato in questo modo: il significato fondamentale non intende un tipo isolato di δύναμις preso per sé (ποιείν), accanto al quale debbano poi essere allineati gli altri, ma gli altri hanno con il primo un rapporto costitutivo, tanto che è proprio questo rapporto a dare anche al significato conduttore senso e contenuto. La πρώς δύναμις (la forza originaria) è il tratto fondamentale dell’essenza, nella quale per la prima volta dev’essere disegnato il pieno contenuto di tale essenza; solo il disegno più riuscito caratterizza l’intera essenza della δύναμις e, quindi, anche il pieno contenuto del significato conduttore. Non si può dire, dunque che la δύναμις τού ποιείν (potenza in quanto produzione) sia la prima e quella che dà la misura… Cioè: la potenza che impone un cambiamento, che fa qualcosa. …della forza dell’agire, del produrre, con la δύναμις τού παθενMette in connessione le due δύναμις, l’una che agisce e l’altra che patisce. …con la forza del sopportare e del resistere. E infatti questo rapporto non viene chiarito a partire dalla δύναμις τού ποιείν, bensì a partire dalla δύναμις τού παθεν. È la δύναμις τού παθεν ad essere nominata per prima, “per prima” nel senso della caratteristica che svolge la funzione di guida. Quindi, secondo Aristotele, letto da Heidegger naturalmente, la prima cosa non è tanto la potenza che agisce su qualche cosa ma il patire di qualche altra cosa di questa stessa forza, patire e quindi resistere: qualcosa agisce e qualcosa resiste. A pag. 68. …ci troviamo di fronte ad una situazione completamente diversa: quando, nell’esperienza di qualcosa che resiste, cogliamo per il suo tramite forze che producono effetti, allora la resistenza non viene considerata e spiegata come l’effetto di una causa che starebbe dietro di essa, giacché quel che resiste è esso stesso luogo della forza e forza. La forza qui diventa la forza che resiste a un mio moto. Come dire ancora che è da questa resistenza che io traggo l’idea della forza; se nulla mi resiste, se non c’è qualcosa che la ferma, che in qualche modo la impedisce, non ho motivo di pensare a una forza. Questo che cosa ci fa pensare? Ci fa pensare a una cosa interessante, e cioè che parlando io impongo qualche cosa; ma imponendo questo qualcosa incontro una resistenza, incontro la resistenza del mio stesso dire, che non dice ciò che dovrebbe, quello che vorrei. Come la trovo questa resistenza? La trovo perché per dire che cos’è qualcosa devo dire ciò che quella cosa non è, devo cioè dire altre cose. Potremmo quasi dire che qui nasce l’idea di forza nel senso di Aristotele, cioè, nel senso di avvertire un qualcosa che resiste, che impedisce al mio dire di essere tutto, di essere completo, di essere esaustivo, ma incontra una resistenza, qualcosa che resiste. A pag. 68. Quel che è dotato di forza non è colto in primo luogo nel soggetto, ma nell’oggetto resistente. E solo a partire dalla resistenza opposta dall’oggetto avvertiamo il non potere, l’impedimento, e lì il voler-potere, il poter-potere e il dover-potere; questo, tuttavia, non deve significare che, all’inverso, il concetto di forza sia trasferito dagli oggetti al soggetto, dall’esterno all’interno. Questo ci dà in un certo qual modo anche la ragione della volontà di potenza, e cioè la volontà di potenza interviene nel momento in cui qualcosa impedisce il mio voler fare, il mio potere: qualcosa lo rallenta, lo blocca, lo impedisce. Lì si instaura la volontà di potenza, come voler-potere, la volontà di potenza nasce da lì. Come abbiamo detto tante volte, è la struttura stessa del linguaggio, tant’è che abbiamo più volte azzardato che la volontà di potenza non sia nient’altro che il linguaggio. È il linguaggio che vuole potere, è lui che dicendo, affermando, enunciando un qualche cosa, vuole imporsi; ma questa imposizione, questo imporsi del porsi di qualche cosa, fallisce perché dilegua nel momento in cui lo pongo, e, quindi, questa operazione, questa imposizione, è fallita, devo ripeterla. Questo mio voler-potere, questo mio poter-potere viene continuamente messo alla prova dal modo in cui il linguaggio funziona: pongo qualche cosa ma mentre lo pongo questo dilegua e la mia volontà di potenza dilegua con lui.

Intervento: Possiamo dire che è il significato ciò che resiste?

Sì. Abbiamo un significante, ciò che si dice, che, secondo Aristotele, è in potenza: non sappiamo ancora cosa vuol dire finché non trova il significato. Il significato dovrebbe chiudere il significante, e in parte lo fa, dall’altra no, lo infinitizza, perché il significato, che è ciò che rende significante il significante, rende anche l’uno, cioè il significante, altro, lo rende altro da sé ma anche altro in quanto altro, cioè, è un’altra cosa rispetto a prima, non è più il significante di prima, significante che peraltro, potremmo dire, in quanto tale non è mai stato, perché finché non c’è il significato il significante non c’è. Questa è la prima traccia della volontà di potenza, della necessità di gestire il linguaggio. Gestire il linguaggio significa gestire questo movimento tra significante e significato, tra potenza e atto, in modo tale che ciascuno dei due sia identificabile, perché se si mette questa cosa, l’entelechia o l’Aufhebung, allora non gestisco più nessuno dei due perché se il secondo, usiamo per il momento questi termini, cioè il per sé, come lo identifico se tornando sull’in sé lo modifica, facendolo diventare un’altra cosa? E così con l’entelechia: l’atto, certo, era ciò che era in potenza prima ma, una volta diventato atto, diventato forma, questa forma – qui c’è una questione interessante che poi Heidegger riprende – è debitrice del fatto che contiene il suo negativo, cioè, è quella forma in quanto non è le altre. Ciascun elemento positivo è necessariamente negativo per essere quello che è: per essere quello che è non deve essere tutto ciò che non è.

Intervento: Quindi, la forza è il tentativo di resistere a dileguarsi.

Sì. La δύναμις è, in effetti, questo movimento verso la sua determinazione, cioè la forma, ma, nel momento in cui è forma, questa forma è anche il negativo, il suo contrario; quindi, in quanto determinazione dilegua nell’indeterminato.

Intervento: Il tentativo di mantenerli separati.

Questo nel momento in cui ci si accorge che c’è dell’impossibilità di gestire tutta l’operazione. E, allora, nasce la religione, in cui da una parte c’è il significante, che è fisso, e poi, dall’altra parte, lo spostamento continuo, un dileguarsi continuo. Addirittura, i Greci antichi si erano inventati due dei per raffigurarsi queste situazioni: Apollo e Dioniso. Apollo, che è la fermezza, la quiete, la stabilità e Dioniso che è, invece, la dispersione totale e, infatti, lo rappresentano spesso ubriaco, ecc. A pag. 69. Il significato conduttore di δύναμις è: άρχή μεταβολής ν λλω λλω (il principio del movimento è l’uno in quanto altro da sé e in quanto altro). /…/ Il significato fondamentale non si pone in modo da non essere né ποιείν (agire) né παθεν (sopportare); esso, certamente, diche anche la δύναμις τού ποιείν, ma la dice in modo che essa resti aperta perché nel suo ambito sia incluso il rapporto essenziale con la δύναμις τού παθεν. Cioè, con ciò che subisce, che resiste al mutamento. E qui ci si affaccia con una questione importante. A pag. 73. Avere forza significa qui: avere la capacità di fare qualcosa in maniera corretta; avere la capacità nel senso del padroneggiare, dell’essere maestro in qualcosa, del possedere la maestria. Di un buon oratore, diciamo semplicemente che è un oratore. L’essere significa qui: avere forza di fare in maniera corretta quel che è richiesto da un compito o quel che ci si è proposti. L’avere forza per qualcosa è una forza solo quando questa forza è tale maniera corretta. Cosa vuol dire questo? Quando si compie, la correttezza della forza sta in questo compiersi. Il τέλος va inteso sia come fine che come perfezione, e questo movimento è perfetto quando si compie nell’atto. A pag. 75. Qui c’è un brano di Aristotele. “Dunque, diviene ora evidente quanto segue: una forza di agire una di patire sono, in un caso (per un verso), tali che un’unica forza è entrambe (come una sola e medesima forza), un’unica forza tale, dunque, da far sì che una delle due sia sempre altra. Una delle due è sempre altra. Da qui il significato fondamentale di δύναμις, cioè, mutamento in quanto uno che è altro, ma proprio in quanto altro, come un’altra cosa. Ciascuno dei due è altro da se stesso ma è anche altro rispetto all’altro. Come vedete, qui c’è tutta la questione della dialettica di Hegel, non c’è nulla da aggiungere rispetto a Hegel, anzi, qui è ancora più preciso. Aristotele dice semplicemente: δύναμις τού ποιείν χαί πάσχειν (forza come produzione e patire) στι μέν ώς μία στι δώς άλλη (in quanto uno sia in quanto altro). Una duplicità di significato nell’essenza e nel concetto della δύναμις viene quindi espressamente respinta. Non è che ha due significati, è lo stesso Hegel direbbe due momenti dello stesso non sono due significati giustapposti, questo è ciò che fa la religione. A pag. 77. Il rapporto (tra i due momenti) è rapporto inclusivo, e inclusiva è la forza in base al suo esser-diretta-verso e al suo oltrepassare. La “forza” presa in questo senso, compresa come esser-forza, è il concetto “ontologico” di forza. Questo risponde alla domanda: che cos’è la forza? La forza è ciò che si scontra contro ciò che resiste. L’espressione “ontologico”, così come ci è stata tramandata, significa: l’essere dell’ente; qui significa l’esser-forza di ogni forza che sia in un qualche modo o che abbia la possibilità di esserlo. L’esser-forza non consiste di due forze già presenti; nella misura in cui una forza è presente, invece, risiede in questo suo esser-presente la direzione che spingendosi verso la corrispondente forza contraria la include… Questo è molto interessante, perché ci dice come queste due forze sono una, non le possiamo disgiungere, come se non potessimo disgiungere azione e reazione, come se fossero la stessa identica cosa. …giacché questo rapporto che include la forza contraria dirigendosi verso di essa fa parte dell’esser-forza della forza. L’esser-forza della forza è questo movimento, potremmo dire sulla scorta di Hegel, dialettico o, per attenerci ad Aristotele, di entelechia. A pag. 80. Ma quale ruolo deve avere nel contesto della nostra interrogazione sulla δύναμις questo riferimento alla στέρησις (privazione)? La στέρησις ha solo il ruolo di mostrare che accanto alla forza c’è anche la non-forza? No. Quel che Aristotele vuol mostrare è invece qualcosa di diverso; lo si trova espresso brevemente nella lin. 30 sg.: “In riferimento alle stesse cose e nella misura loro propria ogni forza è non-forza”. Questo per ribadire il concetto di cui parlava prima: ogni forza è non-forza, ogni azione è reazione e ogni reazione è azione. Sono la stessa cosa e non due movimenti giustapposti. Quel che dev’essere sottolineato è il riferimento della non-forza alle stesse cose nei confronti delle quali la forza è forza; quel che dev’essere sottolineato è la costitutiva appartenenza della non-forza al significato conduttore della forza… Il significato conduttore della forza è l’originario mutamento dell’uno in quanto altro da sé e in quanto altro. Ci sono due momenti dove ciascuno è altro da sé ma è anche altro rispetto all’altro, e queste due cose si compenetrano. Quel che fa sì che 1046 a 19-29 appaia come una semplice ripetizione è solo il fatto che vi si compie il passaggio all’essenziale determinazione unitaria del fenomeno della δύναμις. Che abbiamo vista essere apparentemente scissa in due. Nella formulazione δύναμις τού ποιείν χαί πάσχειν (forza in quanto agire e in quanto patire) trova espressione un doppio significato. La δύναμις è intesa allora: 1) ώς μία, come unitaria, come un essere, 2) ώς άλλη (in quanto altro, uno e molti) come ogni volta l’una e l’altra, come l’ente determinato. Sul punto 1, la forza di agire e di patire intesa come unica forza a partire dal fatto che ciascuna delle due άρχή richiede il rapporto con l’atra; solo questo carattere di άρχή che richiede il rapporto ed è inclusa nel rapporto completa l’essenza della δύναμις. La δύναμις come principio che muove tutto. Ecco la domanda iniziale “da dove vengono le cose?”, che cosa muove tutto? Che cosa fa sì che ogni cosa si muova, che io mi muova, che le cose si muovano, che io sappia che cos’è il movimento? Un bruco non sa di muoversi, per cui il bruco non si muove; noi invece sì. Dunque questo paragrafo non intende affatto parlare della contemporanea presenza ontica di due forse semplicemente presenti come se si trattasse di un’unica forza.

Intervento: …

Le obiezioni che Aristotele muove a Parmenide sono in parte discutibili. In effetti, lui si basa sul fatto che Parmenide ha posto l’uno e ha cancellato tutto ciò che non è uno, ma ciò che non è uno, dicendo che l’essere è pensiero, dice che ciò che non c’è non è pensiero, ciò che non è linguaggio: è questo che non c’è. A pag. 83. Aristotele non tratta della μεταβολή (mutamento) in quanto tale, ma ne parla solo in quanto la δύναμις è determinata come sua άρχή (principio). Il cambiamento ha come principio il movimento: se non ci si muove non si cambia. Che cosa significa, infatti, che la δύναμις sia l’a-partire-da-dove che include dentro il proprio ambito la cosa destinata in se stessa a subire? La forza che agisce ha in sé lo stesso subire. Il suo significato è proprio che la forza, sul fondamento di questa sua essenza, offre un possibile spazio alla trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. Il fatto che qualcosa che resiste sia in se stesso esposto a qualcosa che rispetto ad esso si presenta come attivo significa proprio che nelle due direzioni di questo rapporto è già sottinteso, e sottinteso necessariamente, qualcosa come il mutamento; tanto il materiale formabile quanto l’azione che produce la cosa. Μεταβολή, quindi, nel significato conduttore di δύναμις, quando lo si comprenda pienamente, non indica più in maniera solo unilaterale la trasformazione attiva, nemmeno però il passivo subire, bensì il rapporto che lega le due cose in quanto tali. Quindi, μεταβολή non è soltanto mutamento, come dice… non indica più in maniera solo unilaterale la trasformazione attiva, non è più solo quello e nemmeno però il passivo subire, bensì il rapporto che lega le due cose in quanto tali, cioè, è una relazione. Difatti, il linguaggio non è altro che relazione. A pag. 88. La seconda sezione affronta il secondo capitolo del Libro Θ e ha per titolo La partizione della δύναμις κατά χίνεσις come mezzo per chiarirne l’essenza. Qui fa una lunga disquisizione sul fatto che questa cosa possa applicarsi solo agli enti che parlano, mentre Aristotele voleva vedere se anche gli enti che non parlano hanno oppure no… Qui Heidegger ci riporta da dove eravamo partiti, cioè al λόγος, perché tutto ciò che abbiamo descritto avviene nel λόγος, nel linguaggio. Il λόγος è il discorso, il raccogliente metter qui, l’unificante dar notizia di qualcosa; e lo è nel senso in cui anche l’invito, la supplica, la preghiera, l’interrogativo, l’augurio, il comando e simili sono discorso. Uno dei modi del discorso inteso in questo senso ampliato è la semplice e-nunciazione intorno a qualcosa: qui la prestazione fornita dal discorso consiste nel rendere noto in maniera accentuata ciò intorno al quale verte il discorso, consiste cioè nel far sì che appaia, semplicemente in quanto tale, ciò di cui si discorre. Ma anche il domandare è un rendere noto nel senso del rendere nota la propria richiesta; anche la preghiera è un rendere noto nel senso del rendere nota la propria disposizione, la propria testimonianza /…/ Il λόγος è dunque discorso in tutta l’ampiezza di senso del rendere noto e dar notizia, della comunicazione. Lui ha voluto insistere su questo aspetto del rendere noto, del dare notizia. A pag. 94. Già ad una prima grossolana lettura non può sfuggire che in quel che segue si parla continuamente del λόγος e che se ne parla in rapporto alla δύναμις. L’intenzione conduttrice si sforza, attraverso una chiarificazione della relazione caratteristica esistente tra δύναμις e λόγος, di rendere visibile in maniera ancora più chiara l’essenza della δύναμις e soprattutto di preparare la domanda che è strettamente connessa con la domanda sulla δύναμις κατά χίνεσις, di preparare cioè la domanda sull’ένέργεια κατά χίνεσις. La relazione esistente tra λόγος e δύναμις ottiene il suo chiarimento attraverso una continua contrapposizione della δύναμις μετά λόγου rispetto alla δύναμις λόγος (rispetto alla δύναμις che è fuori dal discorso). La stessa δύναμις μετά λόγου esige una nuova discussione del nesso, già preso in considerazione, che lega δύναμις e στέρησις. A pg. 96. Qui c’è una citazione di Aristotele. “Il fondamento di ciò (del fatto che certe δύναμεις procedano nei confronti dell’opposto) è che l’intendersi-di-qualcosa è (in se stesso) un insieme di notizie (informazione)… Un insieme di notizie: con questo intende il fatto che ci si intenda ma l’informarsi rivela, e lo fa restando identico a se stesso, ciò con cui si ha di volta in volta a che fare e il suo sottrarsi, naturalmente non nello stesso modo. In un certo senso, infatti, l’informarsi riguarda entrambe le cose, in un altro senso però riguarda più la cosa che (di volta in volta già) presente. Di qui la necessità che i modi dell’intendersi-di-qualcosa, ottenuti in questo modo, (cioè sotto la guida del λόγος), per un verso si riferiscano all’opposto (ad una cosa e a quel che le si contrappone), per un altro verso però ad uno solo degli opposti, e lo facciano a partire da se stessi (immediatamente, secondo il loro orientamento), a quello restante non nella stessa maniera; anche l’informazione, infatti, procede a partire da se stessa nei confronti di una cosa e in certa misura solo casualmente nei confronti di una diversa. Giacché è con la negazione e l’eliminazione che essa rende visibile l’opposto; l’opposto, infatti, è in prima linea quel che viene sottratto; quest’ultimo però è la privazione della cosa diversa (rispetto alla cosa)”. Aristotele qui sta dicendo che nel momento in cui si dice qualche cosa, questo qualche cosa dicendosi, intanto comporta il suo opposto ma non solo; è come se dicendo qualche cosa ciò che si dice esigesse una cernita tra una cosa e un’altra, dove una sola è quella che rende il fine di ciò che si sta dicendo, cioè, rappresenta ciò che voglio dire; quindi, devo scartare quell’altra. Ma questo probabilmente, va al di là di ciò che voleva intendere Aristotele, cioè, ci dice che c’è comunque un fine, nel senso del τέλος, che è quello buono, quello che si deve perseguire, come se il dire quasi naturalmente si muovesse verso la sua corretta esecuzione. Parlava di correttezza prima, se vi ricordate: il corretto saper fare; il dire è un fare, anche quello è un saper fare. Quindi, il mio dire è un saper fare e il mio dire è corretto rispetto a un voler dire, rispetto all’intenzione. Ma qui c’è naturalmente un problema. A pag. 98. Ciò che i Greci hanno inteso con έπιστήμη ποιητιχή è stato esso stesso di primaria importanza per la loro comprensione del mondo. Bisogna tenere ben presente quale sia il significato del fatto che l’uomo abbia un rapporto con le opere che produce. È per questo motivo che in un certo libro intitolato Essere e tempo si parla del commercio con l’utensile; non per correggere Marx o per inaugurare una nuova economia politica; nemmeno però lo si fa a partire da una comprensione primitiva del mondo. Che cos’è, dunque, έπιστήμη ποιητιχή, produzione? Quel che si produce, quel che si deve produrre è l’ργονργον si traduce in molti modi, addirittura si traduce con forza, potenza, potremmo dire in questo caso il prodotto. L’ργον non scaturisce casualmente da una qualunque operazione od occupazione; è, infatti, qualcosa che ogni volta deve esser lì, a disposizione, qualcosa che deve mostrarsi in un certo modo, avere un determinato aspetto. Ciò che io voglio produrre alla fine deve essere ργον, cioè deve essere quella cosa lì. Quale sarà l’aspetto dell’opera compiuta deve essere già nello sguardo preliminarmente. Deve essere, cioè, già nella mia intenzione. L’aspetto, l’εδος, è già scorto sin dall’inizio, ed è scorto non in generale e complessivamente, ma proprio in quello che deve risultare alla fine, quando l’opera sarà compiuta, portata a termine. Sta dicendo che l’ργον si va a sovrapporre con l’εδος, con la forma, con ciò che si produce alla fine, con il τέλος, nel senso della perfezione, con ciò che doveva essere compiuto: doveva essere compiuto questo e questo è stato compiuto. Ma questo, dice, deve già essere nell’idea, è già lì prima ancora che qualcuno si metta a fare qualunque cosa, deve già avere l’idea. Prima che Heisenberg inventasse la meccanica dei quanti ha avuto un’idea che poi si è sviluppata, attraverso il suo sistema, i suoi calcoli, nella teoria dei quanti; ma prima c’è stata l‘idea, e questa teoria dei quanti probabilmente è stata ciò che lui voleva ottenere. Naturalmente, può accadere che vi sia qualche impiccio nel processo, che le cose non vadano sempre lisce, questo è previsto, ma se le cose vanno bene, se ci sa fare correttamente, allora ciò che si compie, l’ργον, il τέλος, sarà quello e non altro. Questo ci rimanda a un’altra questione, quella del bene. Anche il bene a questo punto non è nient’altro che la corretta esecuzione di ciò che deve essere eseguito. L’ργον dell’ργον è τέλος. Ma il termine che pone fine è, secondo la sua essenza, limite, πέρας. Produrre qualcosa significa di per sé: calare qualcosa nei suoi limiti, in modo da avere sin dall’inizio nello sguardo la sua limitatezza e vedere tutto quel che essa include ed esclude. Per vedere cosa devo fare devo avere nella mente, sì, tutto ciò che devo fare ma anche ben chiaro tutto ciò che non devo fare. A pag. 99. Proprio perché in questo modo il materiale specificamente è ritagliato sull’εδοςSulla forma, su questa idea che io ho della cosa che devo fare. …proprio per questa ragione gli si contrappone come l’illimitato. Tutto ciò che non devo fare rappresenta l’illimitato rispetto ai limiti entro i quali devo stare per compiere la cosa che voglio fare. Pur così distanti l’uno dall’altro, il materiale e l’εδος sono tuttavia rivolti l’uno verso l’altro; dunque, uno star di fronte, il necessario star di fronte di cose che si contrappongono, e una vicinanza, quella delle cose più lontane. Perché quando faccio qualcosa ho ben presente quello che non devo fare: darmi una martellata sul dito, per esempio. Questo è il concetto dell’ναντίον (contrapposto) greco: l’uno contro l’altro, il rivolgersi all’altro mostrandoglisi contrario: l’ναντίοτης (contrapposizione), che solo Aristotele ha pienamente chiarito nella sua essenza, non è ciò che separa semplicemente le cose l’una dall’altra, senza che esse abbiano nulla in comune, ma è il fronteggiarsi. L’εδος, in quanto τέλος e πρας, si procura necessariamente un tale contrasto nell’πειρον; nell’πειρον limitato (nell’λη (materia)), l’εδος diventa così la μορφή dell’πειρον. Cioè: il limitato prende forma. Forma-materia: nella filosofia questo schema è diventato ormai qualcosa di scontato, ma non è piovuto dal cielo già confezionato e pronto perché ci si servisse di esso. E solo perché nell’essenza del produrre sussiste questa vicinanza di εδος e λη, nasce la necessità che il produrre, nelle singole fasi del suo decorso, costantemente operi esclusioni, disponga strutture, nelle quali introduce certi elementi lasciandone fuori altri. Che è esattamente ciò che accade parlando.