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20 settembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

La questione che sta affrontando non è altro che un vedere come e se l’Esserci può essere inteso globalmente. È anche questo un tentativo di padronanza. Come dicevamo, Heidegger pone il fondamento nell’Esserci, l’Esserci è il fondamento ma un fondamento che, ci diceva, è nullo. Adesso vediamo di precisare. Dice a pag. 340 L’Esserci è il suo fondamento esistendo, ossia è tale da comprendersi a partire da possibilità e, così comprendendosi, esser l’ente gettato. Questo è importante. Dice L’Esserci è il suo fondamento esistendo, fintanto che esiste si fonda, si fonda man mano. Infatti, l’Esserci si comprende a partire dalle sue possibilità. Dicevamo appunto che l’Esserci è pura possibilità. Comprendendosi in quanto pura possibilità, ovviamente si comprende in quanto essere gettato in una possibilità. Dal che deriva: essendo come poter-essere, l’Esserci è sempre o nell’una o nell’altra possibilità; non è mai l’una e l’altra, poiché, nel progetto esistentivo, ha sempre rinunciato a una. Il progetto, in quanto sempre gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’esser-fondamento, ma è essenzialmente nullo in quanto progetto. La questione che tratta qui della nullità è importante. Perché dice che questo progetto, l’Esserci in quanto progetto, è nullo? Perché, come dicevamo, nel momento in cui esiste come possibilità, lui, in quanto tale, è niente se non una possibilità, ancora non c’è. In questo senso, l’Esserci, il suo stesso fondamento, è nullo, perché esiste soltanto in questa gettatezza, in quanto pura possibilità, ma lui, in quanto tale, non c’è se non in questa gettatezza continua.

Intervento: Come se si autogenerasse.

Più che un autogenerarsi si potrebbe dire un autofondarsi, però si fonda sul nulla, perché questo fondamento, che dovrebbe essere la base di tutto, è già sempre pro-gettato. Tanto nella struttura dell’esser-gettato quanto in quella del progetto è insita per essenza una nullità. Essa è il fondamento della possibilità della nullità dell’Esserci non-autentico nella deiezione, in cui esso già da sempre effettivamente è. Nella deiezione, ovviamente, questa possibilità è non autentica, ci saranno delle scelte che si basano sul Si. La Cura stessa, nella sua essenza, è totalmente permeata dalla nullità. La Cura è l’Esserci, questo progetto, questo essere gettato verso il mondo, è questa la Cura che è chiaramente una nullità perché procede da un qualche cosa che di per sé non è niente se non sempre un progetto gettato. Perciò la Cura, cioè l’essere dell’Esserci, significa in quanto progetto gettato: il (nullo) esser-fondamento di una nullità. È fondamento nullo di che cosa? Di un progetto che a sua volta è nullo, è una nullità. Il che significa: l’Esserci è, come tale, colpevole; se almeno è valida la determinazione esistenziale formale della colpa come esser-fondamento di una nullità. Il concetto di colpa in Heidegger non ha a che fare con la colpa, direbbe lui, ontica, nel senso di essere colpevole di qualche cosa. Questo senso di colpevolezza per aver fatto o non aver fatto qualche cosa procede da una colpa più originaria. Questa colpa originaria deriva dal fatto di trovarsi a essere nulla. Infatti, subito dopo dice La nullità esistenziale non ha affatto il carattere di una privazione, di una manchevolezza rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto nell’Esserci. È l’essere di questo ente a esser nullo precedentemente a tutto ciò che può progettare e per lo più raggiunge, a esser nullo già come progettare. (pag. 341) In quanto progettante è già nullo, perché non riesce a determinarsi. Più avanti dice L’ente il cui essere è la Cura non solo si può coprire di colpe effettive, ma è colpevole nel fondamento del suo essere; questo esser-colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità che l’Esserci, esistendo, diventi colpevole. Questa colpa originaria deriva dal fatto di muoversi dal nulla e di trovarsi pro-gettato in un progetto che è nullo, ed è questo che secondo Heidegger costituisce il fondamento di qualunque colpa chiunque voglia attribuirsi. Questo esser-colpevole essenziale è cooriginariamente la condizione esistenziale della possibilità del bene e del male “morale”, cioè della moralità in generale e della possibilità delle sue modificazioni effettive. L’esser-colpevole originario non può essere determinato in base alla moralità perché questa già lo presuppone come tale. (pagg. 341-342). La moralità, dice, viene dopo, ed è perché c’è alla base questa colpevolezza originaria che io posso pensare a una colpa, e se penso a una colpa penso al bene e al male, ovviamente. La chiamata è chiamata della Cura. Dicevamo la volta scorsa che la chiamata è la chiamata dell’Esserci che chiama verso se stesso. La chiamata è chiamata della Cura, quindi dell’Esserci che prende cura di sé. L’esser-colpevole costituisce l’essere che noi chiamiamo Cura. Nello spaesamento… da cui l’angoscia, poi. …l’Esserci è in un rapporto originario con se stesso. Cosa succede quando l’Esserci si rapporta a se stesso, cioè si prende cura di se stesso? L’angoscia, perché si rende conto che questo Esserci ha un fondamento nullo, cioè è fondato su niente. Da qui lo spaesamento. Lo spaesamento porta l’Esserci in cospetto di quell’inequivocabile nullità che rientra nella possibilità del suo poter-essere più proprio. Quini, abbiamo da una parte il poter essere più proprio, cioè la morte, come dire che per essere più autentico deve scomparire; dall’altra parte, qualunque progetto faccia, come fondamento ha nulla, non ha qualcosa di stabile su cui appoggiarsi.

Intervento: Se al posto dell’Esserci ci fosse l’uomo.

Ma l’Esserci è l’uomo. C’è, però, un motivo per cui Heidegger parla dell’Esserci e non dell’uomo. Il concetto di uomo è un concetto che filosoficamente è inflazionato e che, quindi, ha assunto talmente tanti significati da non significare più nulla. E, allora, per evitare di parlare dell’uomo, termine che poi ciascuno intende nei modi più disparati, lui volutamente non parla dell’uomo ma dell’Esserci. Quando parla dell’Esserci parla dell’uomo ma dell’uomo come progetto gettato.

Poiché nell’Esserci, in quanto Cura... L’Esserci è tante cose, è anche Cura. È progetto gettato, ma tutti questi aspetti sono come facce di una stessa cosa, l’essere gettato, l’essere pura possibilità, ecc., sono tutti aspetti dell’Esserci, così come la Cura, il modo con cui l’Esserci si prende cura del mondo, ma l’Esserci autentico si prende cura innanzitutto di se stesso. È quando si prende cura di se stesso che trova lo spaesamento, cioè che si trova disperso nel nulla. Finché si rivolge alle cose, al Si, alla chiacchiera, trova sempre dei riferimenti precisi: tutti sanno che è così, che è bene cosà, si fa così, ecc. …è dallo spaesamento che l’Esserci chiama se-Stesso, quale Si-stesso effettivamente deietto, per ridestarsi al suo poter-essere. L’Esserci deve sempre compiere questa operazione di chiamarsi dal Si, uscirne fuori per poter confrontarsi con se stesso, anziché pensare come pensano tutti incominciare a pensare in un altro modo, cioè pensare al perché, per esempio, io penso in un certo modo. Il richiamo è un richiamare-indietro chiamando-innanzi. Innanzi: alla possibilità di assumere, esistendo, quell’ente gettato che l’Esserci è… Cioè, l’Esserci, esistendo, assume questa forma di ente, perché l’Esserci è un ente. Quindi, innanzitutto l’Esserci, nella sua gettatezza, si ritrova come ente. …indietro: nell’esser-gettato, per comprenderlo come il nullo fondamento che l’Esserci, esistendo, ha da assumere. Quindi, c’è un movimento innanzi, in cui l’Esserci si trova come ente tra gli enti, e un movimento all’indietro, in cui l’esserci riflette su se stesso. È quest’ultimo il movimento fondamentale che consente all’Esserci di uscire dalla deiezione, dalla chiacchiera. Tutto questo ci richiama a questioni che, per esempio, già Freud aveva già posto a modo suo: riflettere non tanto rispetto ciò cui la persona pensa ma sul modo con cui pensa e su che cosa determina il suo modo di pensare, cioè, le fantasie. Diciamo che le fantasie sarebbero il Si, la deiezione, tutta questa serie di idee che la persona si fa e che vengono dal mondo che lo circonda. Però, il riflettere sulle fantasie, sul perché io mi trovo preso in queste fantasie, potrebbe essere accostato a ciò che Heidegger chiama la chiamata fuori dal Si per confrontarsi con l’Esserci, cioè, l’Esserci che pensa se stesso, quindi, pensa, come diremmo noi, perché pensa in un modo: perché accoglie quella cosa del Si? Perché? Perché se tutti pensano così anch’io devo pensare così? È una bella domanda. Il richiamare-indietro chiamano-innanzi, proprio della coscienza, fa comprendere all’Esserci che, realizzandosi nella possibilità del proprio essere quale nullo fondamento del proprio nullo progetto, deve tornare indietro a riprendersi dall’essersi perduto nel Si, cioè fa comprendere all’Esserci che è colpevole. Questo movimento, questo tornare indietro, fa comprendere all’Esserci che è colpevole. Potremmo piegare il discorso di Heidegger, nel senso che la colpevolezza sta nell’essere stato immerso nel Si senza riuscire a venirne fuori, cioè, continuando a credere a un miliardo di stupidaggini. A pag. 343. L’ascolto genuino del richiamo equivale all’autocomprensione dell’Esserci nel suo poter-essere più proprio, cioè a un autoprogettarsi nel poter-divenire-colpevole più proprio e autentico. Accorgersi, quindi, di questa colpevolezza e del motivo di questa colpevolezza. In questo tornare indietro dell’Esserci su se stesso, che cosa trova? Nulla, perché si è già spostato. Questa, per Heidegger, sarebbe la colpevolezza: non essere in grado di autofondarsi come fondamento certo, sicuro, ecc. Il comprendente lasciarsi-chiamare-innanzi a questa possibilità porta con sé il rendersi libero da parte dell’Esserci per la chiamata: la disponibilità per il poter-esser-chiamato. L’Esserci, che comprende la chiamata, ascoltando ubbidisce alla possibilità propria della sua esistenza. Ha scelto se stesso. Anziché il Si ha scelto se stesso. Chiaramente, scegliendo se stesso, incontra la nullità, incontra il nulla del fondamento; da qui lo spaesamento, l’angoscia, che per Heidegger è originaria. Quando l’Esserci riflette su di sé, che in un certo senso si ripiglia dalla deiezione, non può che incontrare lo spaesamento, perché mentre il Si gli offre una infinità di agganci, di cose sicure, certe, una volta che torna indietro su se stesso tutte queste certezze scompaiono. È la stessa cosa che accade quando si incomincia a riflettere intorno al linguaggio. Facendo il verso a Heidegger: se io torno al linguaggio, cioè a ciò che mi è più proprio, che cosa trovo? Una dispersione infinita. Con questa scelta, l’Esserci rende possibile a se stesso quel più proprio esser-colpevole che resta invece precluso al Si-stesso. Nel Si questa consapevolezza non c’è, questo sentirsi senza fondamento, questo sapere che il fondamento è nullo non c’è nel Si, perché il Si è costruito proprio per evitare una cosa del genere. La comprensione comune, propria del Si, non conosce che l’ottemperanza o la violazione di regole pratiche e norme pubbliche. Questo si fa, questo non si fa. Essa procede computando manchevolezze ed escogitando compensazioni. Si è già sottratta all’esser-colpevole più proprio per parlare a voce tanto più alta di mancanze. Ma nel richiamo il Si-stesso è richiamato all’esser-colpevole che è più proprio del suo se-Stesso. Nel richiamo il Si è richiamato a essere colpevole ed è colpevole perché l’Esserci si trova a essere senza fondamento, cioè ad avere come fondamento nulla e, quindi, a trovarsi, nel suo continuo progettarsi, a progettare un progetto che è nullo. Potremmo dire che non significa niente ma che allo stesso tempo non può non fare. È come parlare: parlando si dicono cose che, se proprio vogliamo dirla tutta, non significano niente ma non possiamo non farlo. E questa, per Heidegger, è la condizione dell’angoscia: che cosa sto dicendo, perché parlo? Per niente. Questa sarebbe la condizione dell’angoscia per Heidegger. Passiamo al § 59, a pag. 345. La coscienza è la chiamata della Cura… Infatti, per Heidegger la coscienza che si manifesta in questo tornare indietro dell’Esserci verso se stesso. Infatti, lo diceva a pag. 343: Comprensione del richiamo significa: voler-avere-coscienza. C’è un atto di volontà: io voglio. Infatti, non si esce dal Si senza un atto di volontà, c’è un voler uscire, un volere avere coscienza… per sapere cosa sta succedendo, per dirla in un modo un po' rozzo. La coscienza è la chiamata della Cura, proveniente dallo spaesamento dell’essere-nel-mondo; essa richiama l‘Esserci al suo poter-essere-colpevole più proprio. Questo fa la coscienza, cioè richiama l‘Esserci a ciò che gli è più proprio, a questa sua assenza di fondamento. Il voler-avere-coscienza risultò come la corrispondente comprensione del richiamo. Quando l’Esserci riflette su di sé, è lì che vuole avere coscienza, è lì che vuole sapere cosa sta succedendo davvero. Per dirla rispetto al linguaggio, è quando riflette intorno al linguaggio, è lì che voglio sapere che cosa sta succedendo mentre esisto, mentre parlo. Se, innanzi tutto e per lo più, l’Esserci si comprende a partire da ciò di cui si prende cura e di conseguenza interpreta tutti i suoi comportamenti come prendersi-cura, non accadrà allora che esso interpreti in modo deiettivo e coprente anche quella maniera del suo essere che, in quanto chiamata, vuole strapparlo alla dispersione nelle cure quotidiane del Si? La quotidianità assume l’Esserci come un utilizzabile di cui si prende cura come oggetto di impiego e di calcolo. Il “vivere” è un “affare”, copra o no i suoi costi. Se l’Esserci si comprende a partire da ciò di cui si prende cura, cioè dalle cose del mondo, allora non accadrà che prendendosi cura l’Esserci non si trovi comunque preso nel Si, nella deiezione, e prenda se stesso, l’Esserci, come uno dei tanti enti che sono a disposizione, come un utilizzabile al pari di qualunque altro? Questa è una domanda che si pone Heidegger, dice che non così immediato, così scontato, che l’Esserci, riflettendo su di sé, pensi in modo autentico, perché può prendere se stesso come una delle tante cose che ci sono. Poi dice altre che, però, non ci interessano. Parla a un certo punto della cattiva coscienza dicendo che se c’è una coscienza questa è sempre cattiva; non c’è buona coscienza, perché se uno dice “sono buono” già questo la coscienza lo mette in dubbio: “Ma come? Se sei così buono come mai ti pavoneggi…? Passiamo al § 60 a pag. 352. L’interpretazione esistenziale della coscienza… Come sappiamo, l’interpretazione per Heidegger procede dalla comprensione, comprensione che è aprente, è apertura, mentre generalmente si pensa che ci sia un’interpretazione delle cose che consente di comprenderle. Heidegger rovescia questa posizione. L’interpretazione esistenziale della coscienza deve reperire un’attestazione, insita nell’Esserci stesso, del suo poter-essere più proprio. Occorre che questa interpretazione giunga a farci intendere, ad attestare qualche cosa che è l’essere più proprio dell’Esserci. La maniera in cui la coscienza attesta non ha il carattere di un’informazione indifferente, ma è un risveglio che pone innanzi all’esser-colpevole. Qui si riallaccia un po' a ciò che diceva prima, cioè la maniera in cui la coscienza attesta non ha il carattere di un’informazione qualunque ma, dice, è un risveglio che pone innanzi all’esser colpevole, cioè, alla nullità del fondamento. Ciò che risulta così attestato e “afferrato” dall’udire che comprende genuinamente la chiamata nel senso che essa intende. Solo la comprensione della chiamata, in quanto modo di essere dell’Esserci, offre il contenuto fenomenico di ciò che la chiamata della coscienza attesta. Per cogliere ciò che questa chiamata attesta, cioè l’Esserci stesso, occorre la comprensione della chiamata. Ma che cos’è la comprensione della chiamata? È l’apertura che consente all’Esserci di riflettere su se stesso. L’apertura, ovviamente, si contrappone alla chiusura del Si. È solo nell’apertura che è possibile, secondo Heidegger, attestare l’esistenza dell’Esserci, altrimenti l’Esserci è uno dei tanti enti possibili del mondo. Abbiamo caratterizzato la comprensione autentica della chiamata come voler-avere-coscienza. Di nuovo ci sottolinea che ci vuole una volontà, un volere qualche cosa. Il voler-avere-coscienza, in quanto autocomprensione del poter-essere più proprio, è una modalità dell’apertura dell’Esserci. Questo volere avere coscienza è una delle modalità dell’apertura dell’Esserci. L’Esserci non è altro che apertura, apertura verso possibilità. Questa, oltre che dalla comprensione, è costituita dalla situazione emotiva e dal discorso. Comprensione esistentiva significa progettarsi nella possibilità effettiva più propria del poter-essere-nel-mondo. Ma un poter-essere è compreso soltanto esistendo in questa possibilità. Qui c’è, per così dire, un gioco di rinvii. Comprensione esistentiva significa progettarsi nella possibilità più propria del poter essere, ma il poter essere è inteso solamente esistendo in questa possibilità. Se l’Esserci non fosse possibilità pura non potrebbe in nessun modo comprendersi come possibilità.