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20 agosto 2025

 

Agostino d’Ippona De Trinitate

 

Dobbiamo riflettere su una questione importante, quella del segno, della semiotica. La semiotica in Sant’Agostino. La questione della tripartizione del segno pare sorgere, almeno così come viene pensata generalmente, con Agostino. La tripartizione del segno: Padre, Figlio e Spirito. Ora, certo, c’era questo aspetto del di Dio, del Padre, del Figlio, ecc., che è l’aspetto folkloristico, ma ciò che a noi interessa è intendere la questione del segno, che nasce con Agostino e prosegue poi fino al giorno d’oggi con la tripartizione, che è sempre presente. Prima di Agostino, lo vedremo a breve, la tripartizione non esisteva. Potremmo dire intanto che la tripartizione sorge dalla necessità di mantenere separate le tre persone in Agostino. Lo stesso Beierwaltes ha insistito tantissimo su questo aspetto, sul quale insiste a sua volta Agostino, e cioè di mantenere separate le tre persone: stessa sostanza ma separate. Vedremo che più che di teoria del segno, probabilmente si tratta di dottrina del segno, perché a che scopo il segno mantiene la tripartizione? C’è sempre anche nella semiotica la tripartizione, il triangolo, la tripartizione di de Saussure, significante, significato, referente; poi, enunciazione, enunciato e riferimento, le varie tripartizioni come quella di Ogden e Richards, quella di Jakobson; ognuno ha il suo triangolino e poi ci mette i nomi che preferisce. Non cambia niente, il triangolino c’è sempre, che è sempre quello di Dio, cioè, della Trinità. Da lì si parte, dalla Trinità, dalla necessità di stabilire e di mantenere la Trinità. Ora, ciò che a noi interessa è vedere se la teoria del segno, dalla quale sorge la semiotica, in particolare con de Saussure, mantiene la stessa forma della Trinità e soprattutto la stessa necessità di mantenere separati i tre elementi - nel caso di de Saussure significante, significato e referente. Perché, se fosse così, allora tutta la semiotica, e buona parte del pensiero contemporaneo, a maggior ragione ci apparirebbe una teologia. Dicevo che la tripartizione ha prevalentemente la funzione di mantenere separati questi momenti o persone, e adesso vediamo perché. Apparentemente questa tripartizione la troviamo anche in Aristotele: δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ. Ma qual è la differenza fondamentale? Consideriamo l’έντελέχειᾳ nel modo in cui la pensa e la pone Heidegger, che la scompone in ἒν, τέλος, ἕκειν, ciò che ha il compimento, ciò che è compiuto. Ora, quindi, verrebbe da pensare che Aristotele abbia posto, sì, δύναμις, νέργεια, significante, significato, ponendo però questi due elementi come ciò che indica il compiuto, ed è compiuto nel senso che la δύναμις non c’è senza l’ἐνέργεια e l’ἐνέργεια non c’è senza la δύναμις: non possono essere separati, se li separo scompare tutto. Il fatto che questi elementi, questi momenti, non possano essere separati in nessun modo, ecco questa è la differenza sostanziale tra pensiero teoretico e pensiero religioso. Il pensiero religioso ha bisogno della separazione, cioè, ha bisogno che ciascun elemento della tripartizione sia quello che è. E così il segno. Il referente, l’albero di de Saussure funziona da garanzia che il significante e il significato siano quello che devono essere. Il significante lo indica come l’immagine acustica, cioè, l’immagine del suono; il suono è quello, per cui se dico libro dico libro, non dico un’altra cosa, è l’immagine, la forma del suono; il significato è ciò che questa forma dice, il famoso λέγειν τί, se dico, dico qualcosa; un significante deve dire un significato, necessariamente, non li posso separare, non sono identificabili l’uno senza l’altro. Ora, l’alberello qui serve da terzo elemento e ha una sua funzione, perché senza l’alberello ci si sarebbe potuto chiedere: di cosa stiamo parlando? Ecco il κατά τίνός. Di cosa stiamo parlando se non c’è un riferimento ultimo, se non c’è quindi un qualche cosa che mette in relazione i due e li fa stare dentro la relazione? Agostino qui a un certo punto, lo vedremo, parla dello Spirito Santo in termini particolari, perché non ne aveva mai parlato prima, e cioè come la relazione tra Padre e Figlio, né più né meno, come ciò che li tiene insieme. E qui la questione si fa complicata, molto complicata.

Intervento: Qual è stata la necessità per cui a un certo punto si è inventata la Trinità?

Se andiamo dall’altra parte, qual è il pericolo connesso con il linguaggio? Il pericolo è che il significato non sia univoco, e cioè che ciascuna parola possa significare qualunque altra e, quindi, non sia possibile stabilire nessuna verità. Ora, questo pericolo, che Agostino avverte nel porsi per primo il problema del linguaggio, già nel De Magistro cerca di risolvere il problema. Nel De Magistro, in fondo, qual è la questione? C’è il significante, il significato, ciò che il dire che dice e Dio che fa da garante, perché sennò, appunto come dicevo prima, de Saussure si sarebbe potuto domandare: ma di cosa stiamo parlando senza una garanzia? E allora può pensare così: il problema del linguaggio: il significante, il significato e Dio. Ma Dio qui funziona anche da relazione, come ciò che tiene insieme queste due cose, come se tra significante e significato, tra δύναμις e νέργεια ci fosse una relazione. Ma c’è? Chi lo stabilisce? Mi vengono in mente le parole di Aristotele: non c’è nulla al mondo che possa garantire un’inferenza (se A allora B), che ci sia un passaggio effettivamente dall’uno all’altro, cioè, che ci sia una relazione. Devo pensare che tra questi elementi ci sia la relazione, lo dice anche Greimas: c’è l’enunciazione, l’enunciato e poi la relazione che tiene insieme i due. E qui, ecco, la questione complicata: siamo sicuri che ci sia una relazione che li tiene insieme oppure no? Difficile a dirsi. Certo, posso stabilirlo, posso fare quello che mi pare, ma posso argomentare una cosa del genere? Perché il terzo elemento qui serve per garantire che il linguaggio sia possibile e naturalmente chi lo garantisce è sempre e soltanto Dio, oppure l’alberello, cioè, qualche cosa che da fuori il significante e il significato garantisca il tutto. Perché sennò significante e significato, δύναμις e ἐνέργεια, lasciati da soli, diventano la stessa cosa e non sono più né separabili né individuabili, sono lo stesso. Parlando di significante parlo necessariamente di significato, e viceversa. Ma, allora, a questo punto la domanda, che così per finta ponevamo in bocca a de Saussure, diventa tragica: di cosa stiamo parlando? Abbiamo un riferimento, qualcosa che garantisca che ciò che diciamo corrisponda a qualcosa o corrisponde a niente? La teoria del segno pare avere questa funzione già in Agostino; il terzo elemento, lo Spirito Santo, ha la funzione di tenere insieme perché è la relazione tra i due, è ciò che li tiene insieme, è ciò che dà una ragione per cui questi elementi sono insieme. Perché il problema è sempre il problema del linguaggio, cioè il fatto che ciascuna cosa, per potere essere ciò che è, è necessario che non sia ciò che è; cioè, il significante per essere tale necessita del significato, il significato non è il significante in quanto è i molti. È sempre, naturalmente, il problema dell’uno e dei molti, non siamo mai usciti da lì. Se metto insieme l’uno e i molti, chi mi garantisce che tra l’uno e i molti ci sia una relazione e che, quindi, posso metterli insieme, cioè, dall’uno posso passare ai molti e viceversa? Chi è che mi garantisce che sia possibile fare una cosa del genere, cioè, che sia possibile parlare? E questo è il dramma, in fondo, appena accennato dai presocratici, da Parmenide in parte o da Anassimandro, appena sfiorato, come se avessero visto la cosa ma poi se ne fossero ritratti, perché è una cosa di una tale devastazione che non è neanche immaginabile. Ora, però, per tornare alla teoria del segno, il segno ha questa virtù: ci sono i due elementi, enunciazione ed enunciato, significante e significato, e poi un terzo elemento che li tiene insieme, che garantisce che questi due elementi stanno insieme. Aristotele aveva vista la questione, ne accennavo prima rispetto all’inferenza: cosa garantisce che ci sia questo passaggio da un elemento a un altro? Per Zenone era impossibile, e bell’e fatto. Però, viene quasi naturalmente da pensare che il problema è quello dell’uno e dei molti. Uno e i molti, ci sono entrambi perché se dico, dico necessariamente qualcosa, non posso sottrarmi a una cosa del genere. Ma sono in relazione queste due cose? In che modo sono tenute insieme? Da che? Come? Perché? Ecco le domande fatidiche, alle quali non c’è risposta, praticamente. Nessuno si è mai neanche azzardato a formularla. Eppure, è una questione con la quale dobbiamo fare i conti a questo punto, e ce la suggerisce, in fondo, Agostino con la questione del segno, della sua tripartizione. Giustamente Sandro si chiedeva: perché questa tripartizione, a cosa serve? Apparentemente a niente.

Intervento: Potrebbe servire a dare univocità al significato?

Sì. Se l’alberello è lì, ben piantato, vuole dire che significa quello e non altro. È quello che in fondo garantisce - accennavo prima dell’unicità del significato - il significato è questo, è l’alberello.

Intervento: Quindi, l’idea di Dio è l’idea di qualcosa oltre la quale non si va.

Questo lo diceva già Plotino, oltre all’Uno non c’è nulla, l’Uno è ineffabile, indicibile, ecc. Non c’è qualche cosa oltre l’Uno perché sarebbe qualcosa che a questo punto è più grande dell’Uno e questo non è pensabile. Questo ci rimanda in qualche modo almeno indirettamente alla questione che lei poneva prima, Sandro, quella della ragione. La ragione è sorretta da una verità. Come dire, c’è la ragione che utilizziamo, ma c’è la Ragione che sta da qualche parte, che garantisce che i ragionamenti che facciamo siano corretti. E questa ragione, che illumina, da cui l’illuminismo, è quella che garantisce. E qui torniamo sempre alla necessità di qualche cosa che garantisca il linguaggio, e cioè che sbarazzi della impossibilità connessa con il linguaggio e che, quindi, dia almeno l’illusione del fatto che, quando parliamo, parliamo di qualche cosa, sappiamo più o meno di cosa stiamo parlando e che, quindi, non vaghiamo nel nulla ma abbiamo dei riferimenti. Come diceva non mi ricordo chi: la verità non sappiamo quale sia, ma una verità ci deve essere, bisogna solo cercarla. In fondo, è la posizione di Popper: la verità c’è, dobbiamo trovarla, ma c’è. Chi l’ha detto? Lo pensano perché, in effetti, altrimenti non è possibile stabilire niente, ci si trovano in quella posizione di Eraclito, posizione nefasta per cui ciascuna cosa sorgendo dilegua, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. Ma se ciascuna cosa sorgendo dilegua come l’afferro? Come la stabilisco, come la utilizzo? Per potere essere una qualunque cosa, un utilizzabile, c’è la necessità di un referente, di un riferimento: Dio, l’alberello, l’Uno, quello che più vi piace. Ma solo così è utilizzabile. Quindi, è una cosa che ha la sua ragione, in fondo, perché senza questa verità, che fa da sfondo, che non esiste ma che si suppone faccia da sfondo, non è possibile dominare assolutamente niente e non è possibile stabilire alcunché, determinare niente. E, quindi, per potere parlare, quindi affermare qualche cosa - sappiamo che parlando, come sto facendo in questo istante, si affermano continuamente cose - ciascuna di queste affermazioni si presuppone che abbia una sua ragione. Quale? La sua verità, e cioè che in fondo descriva uno stato di cose, cioè, descriva l’alberello o Dio, a seconda dei casi. E, quindi, per tornare alla teoria dei segni, la teoria del segno è una teoria che dà un’impostazione apparentemente logica alla teologia, perché mantiene il tre, cioè, mantiene il terzo elemento che garantisce che ci sia una relazione tra i due. Pensate a Aristotele, δύναμις, ἐνέργεια: c’è una relazione tra i due? No, non c’è. Non c’è perché ciascuno dei due è simultaneamente l’altro e non può essere in relazione con se stesso. Certo, possiamo anche pensare così, ma si tratterebbe a questo punto di ridefinire il concetto di relazione, probabilmente. Il termine relazione viene da relatum, composto da re e latum, participio passato di ferre, che significa portare, riportare; quindi, qualcosa che riporta a qualche cos’altro; in definitiva, non è nient’altro che un rinvio: dire riferimento o dire rinvio etimologicamente è la stessa cosa. Ma la cosa in Aristotele, almeno letta così come in qualche modo già suggeriva Heidegger, va molto oltre, perché posso mettere la δύναμις in relazione alla ἐνέργεια quando la δύναμις non può essere determinata senza l’ἐνέργεια? Come faccio? Occorre che i due elementi siano determinabili per dire che sono in relazione. L’ἐνέργεια insieme con la δύναμις. Ma se ciascuno dei due elementi non è determinabile perché è simultaneamente l’altro, metto in relazione cosa con che cosa? Questo è il problema serissimo. Il problema della Trinità sorge da lì ed è rimasto nella teoria del segno esattamente allo stesso modo: ci sono due elementi e un terzo, che li tiene insieme. La teoria del segno ha sempre questo, diciamo, problema. In effetti, Greimas sottolinea che c’è l’enunciazione, l’enunciato e poi c’è la relazione tra i due che garantisce che ci sia una connessione tra enunciazione e enunciato, tra significante e significato. Ma, come già aveva inteso Aristotele, non c’è niente al mondo che ci garantisce una cosa del genere. E se non c’è allora non c’è effettivamente relazione tra significante e significato, perché non c’è neanche l’alberello. In effetti, per un bruco che, come sappiamo, non parla, non c’è l’alberello, non esiste. Noi abbiamo inventato il concetto di esistenza, per via del fatto che c’è il λέγειν e c’è il τί, c’è il qualcosa: se diciamo, diciamo qualcosa, questo qualche cosa è ciò che ci ha allontanati irrimediabilmente da quella cosa che chiamiamo natura. Chiamiamo natura perché non sappiamo cosa sia, ma ci ha allontanati in modo irreversibile; da quel momento in poi, da quando abbiamo iniziato a parlare, noi siamo noi, quella cosa è quella cosa, cioè, è sorto il “qualcosa”. Il qualcosa, cioè, qualcosa che non sono io, un qualche cosa da cui poi è partita la scienza, è partito il sapere, la conoscenza, tutto quanto. Ma senza questo τί, senza questo qualcosa, non c’è neanche il λέγειν, naturalmente, quindi non c’è la parola effettivamente. Solo che non c’è neppure a questo punto, così appare, il κατά τίνός. Infatti, è Platone che ne parla, Aristotele non parla del κατά τίνός, cioè dire qualcosa in relazione a qualche cos’altro. Lo dice Platone, perché questo κατά τίνός - κατά è verso, τίνός è qualche cos’altro – è necessario a questo punto? Perché già il τί è qualche cosa e, se è qualche cosa, è già necessariamente connesso con qualche cos’altro, questo κατά τίνός non serve a niente. infatti, come dicevo, Aristotele non ne parla. Per Platone allora si può intendere, cioè: dico qualcosa in relazione alle idee. allora sì, allora ha un senso per Platone. Però, in effetti, λέγειν τί κατά τίνός… perché questo κατά τίνός? Sì, certo, in relazione a qualche cos’altro, ma è già il τί l’essere, il dire in relazione a qualche cos’altro.

Intervento: Ma il κατά τίνός non serve a determinare il τί?

Questo sarebbe un problema. Sarebbe un problema perché a questo punto lo determina circolarmente, tornando indietro, compiendo quell’operazione che i greci chiamavano ἐπιστροφή (epistrophé) e che Hegel chiamava Aufhebung, che è la caratteristica del discorso religioso: il ritorno. Che poi sia eterno o provvisorio, cambia poco, ma è sempre un ritorno, un ritornare, cosa che in Aristotele, rispetto all’έντελέχειᾳ, cioè questo compiuto, non c’è, non c’è nessuno ritorno; a che cosa ritorno? Alla δύναμις? La δύναμις non è altro che l’ἐνέργεια, l’ἐνέργεια non è altro che la δύναμις. Dove ritorno? Non mi sono mai allontanato, per così dire, non c’è nessuna possibilità di ritorno. Infatti, per il greco antico questo ritorno non è che fosse molto presente, non c’è nei presocratici, di questo non se ne occupavano. Il ritorno viene stabilito e istituzionalizzato da Plotino, in lui sì, c’è il ritorno all’Uno.

Intervento: Già in Platone con l’idea. Come dire che se io dico qualcosa c’è un riferimento all’idea per cui, tornando indietro all’idea, questa mi conferma.

È vero quello che dice, in effetti, è già il primo abbozzo di una teoria del segno, perché in questo caso il terzo elemento è l’idea, che fa la parte dell’alberello o di Dio o dell’Uno, ecc. È il primo abbozzo nel senso che già lì l’idea ha questa funzione di garantire che questa sia una penna, questo un accendino, quello Cesare.

Intervento: E soprattutto importante perché si incomincia a pensare il referente come qualcosa che è fuori, è al di là.

Esatto, è trascendente, non si vede, non si può toccare, non si può conoscere, non si può argomentare, sta lassù, nell’Iperuranio. Con Platone si pongono le basi per una teoria del segno che ha bisogno del terzo elemento, di un elemento che funzioni da garanzia: se dico qualche cosa, questo qualche cosa è quello che è perché c’è l’idea che lo garantisce.

Intervento: Per questo Nietzsche diceva che Platone ha inventato il pensiero occidentale.

Sì, ed è per questo che ce l’aveva a morte con lui, come il responsabile della metafisica. È vero, è lui che ha inventato la metafisica, di sicuro non Aristotele, che anzi ha messo fortemente in discussione, nonostante sia rimasto celebre nella storia come l’autore della metafisica.

Intervento: Cacciari si sofferma molto sulla questione della relazione.

Della relazione, già negli anni ‘70 si parlava molto, divenuta di moda con lo strutturalismo. Ciascuna cosa è all’interno di una struttura perché ciascun elemento è in relazione con tutti gli altri. La struttura è un insieme di elementi dove ciascuno dei quali è in stretta relazione con ciascun altro e, quindi, non può togliersi un elemento senza che si modifichi la struttura. Questo è il concetto base dello strutturalismo, per cui la nozione di relazione in quel caso era fondamentale perché, appunto, è quella che teneva insieme tutto quanto, che dava un senso a tutto quanto. Ponendo δύναμις e ἐνέργεια così come li abbiamo posti prima, non c’è questa relazione, perché non ci sono gli elementi. Per avere una relazione devo potere avere determinati gli elementi della relazione. Se metto in relazione A con B, sia A che B devono essere determinati in un qualche modo. E, allora, c’è la relazione? Certo che c’è, l’abbiamo inventata, così come la verità epistemica, così come Dio, come l’Uno, l’abbiamo inventato, siamo dei grandi inventori. Non abbiamo inventato solo la macchina a vapore, ma anche cose più complesse.

Intervento: La questione è l’esistenza o meno del referente.

Sì, perché, se non ci fosse, che facciamo senza referente? Dobbiamo inventarlo. Ma un referente di quelli importanti, non uno qualunque. Dio, chi meglio di lui fa da garanzia? Gli antichi, in effetti, non si ponevano la questione in questi termini. Ora, è vero che noi non possiamo più pensare come pensavano gli antichi, questo Heidegger ce l’ha insegnato, perché, dopo duemila anni di cristianesimo, siamo avvezzi, addestrati a pensare in un modo che allora non esisteva; quindi, non possiamo più pensare come pensavano allora, è inutile che cerchiamo di affaccendarci, non lo possiamo fare. Però, possiamo tenere conto delle cose che hanno dette, scritte, lasciate. Questa questione del segno non era presente: non c’è il terzo elemento. Certo, compare in Platone con l’idea, ma trovatemelo per esempio in Aristotele o in Eraclito, Parmenide, Anassimandro, Democrito, trovate il terzo elemento, non c’è.

Intervento: Il referente ha a che fare con la questione della paura?

Il problema è sempre il linguaggio. Aveva torto Wittgenstein quando diceva che non esistono problemi filosofici ma solo problemi logici. Non è vero, la logica non fa problema, basta non interrogarne i fondamenti; se non lo si fa non c’è problema con la logica.

Intervento: Ma anche la logica è subentrata in qualche maniera proprio per cercare arginare...

È il tentativo di Aristotele: finalmente stabiliamo come stanno veramente le cose. Poi, le cose hanno preso un’altra piega. Però, l’intendimento era quello.

Intervento: Perché questa paura?

Sì, la paura dell’ignoto, la paura dello sconosciuto, cioè, dell’indominabile, dell’ingestibile, dell’ingovernabile, che, in fondo, è soltanto un modo di manifestare il proprio disappunto di fronte all’incapacità o impossibilità di dominare qualcosa. La reazione che si ha di fronte a questo noi la chiamiamo paura. Ma la paura è di fronte all’ignoto come termine generale, qualche cosa che quindi non posso gestire, controllare, perché appena so che cos’è la paura scompare, so gestirla. Tutto questo ci ha portati a considerare che la teoria dei segni è, in effetti, una dottrina del segno, perché prevede la dottrina della Trinità, e cioè che ci sia un terzo elemento, che non si sa da dove arrivi che però c’è e tiene unite le cose in modo che abbiano un senso e, quindi, siano gestibili. Perché così come l’ha posta Aristotele, come Heidegger ci ha mostrato - diciamo che ci ha mostrato come è preferibile leggerlo - non c’è nessuna possibilità di gestione, non c’è una relazione che li tiene insieme, non c’è qualcosa che li tiene insieme perché sono lo stesso. È questo il loro compimento, l’essere la stessa cosa, έντελέχει. Ogni teoria del segno, da questo momento in poi, si è sempre fondata sulla tripartizione, sul tre. Anche il manicheismo, che distingue nettamente il bene dal male, e Dio non può avere permesso il male; quindi, non è quello che dicono loro. Ma questa distinzione fra bene e male ha comunque un terzo elemento di riferimento, quello che mi consente di stabilire ciò che è bene e ciò che è male o di dividere il bene dal male; c’è inesorabilmente, strutturalmente c’è bisogno di questo terzo elemento. Anche parlando c’è bisogno del terzo elemento, che idealmente garantisca che ciò che sto dicendo sia qualche cosa anziché assolutamente nulla. Si tratta di tenerne conto, di sapere ciò che si sta facendo e non essere travolti dalla teologia trinitaria, come in genere accade: la verità c’è, è una e trina. Come avrete notato, è sempre e comunque il problema dell’uno e dei molti, che ha interrogato fin da subito: com’è possibile che uno e i molti coesistano? Eppure, dico una cosa, dicendo quella cosa ne sorgono altre, sorgono i molti. Come succede questa cosa? Ecco il genio di Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, e non il tutto, come voleva tradurre Diels. L’uno è tutte le cose: è l’unica cosa che possiamo dire. C’è una relazione? A questo punto non ha neanche più tanto senso porsi la questione in questi termini: sono la stessa cosa, il λέγειν e il τί sono la stessa cosa perché, se dico, dico qualcosa, non c’è possibilità di separazione. Se c’è l’uno ci sono i molti perché l’uno è fatto di molti, è quello che Aristotele trova negli analitici secondi: l’universale è i particolari, ma l’aveva già detto nelle Categorie che la sostanza non è altro che ciò che se ne dice. È questo, non è altro, non è qualcosa che sta chissà dove, non è trascendente; è ciò che se ne dice, è tutto lì. Ecco perché Porfirio si è dovuto inventare un’altra sostanza che sta lassù. Aristotele ha veramente minato le basi stesse del pensiero, cercando invece il fondamento definitivo, cioè, il principio primo. il suo tentativo inizialmente era proprio questo, però non utilizzando la tecnica utilizzata da Platone e si è trovato a dovere fare i conti con il problema del linguaggio, che Platone semplicemente elimina con l’idea che sta lassù e che garantisce tutto e va bene così. La garanzia dovrebbe essere universale, sì, ma l’universale è fatto di molti e senza i molti non c’è nessun universale. Agostino continua a volere assolutamente stabilire la separazione delle persone. Che cos’è per lui la relazione? È l’amore, cosa che poi è rimasta nel cristianesimo: l’amore come ciò che unisce. La conoscenza no, non unisce, ma l’amore sì. L’amore mette insieme, è la relazione. Parla di amore, ma in realtà intenda la relazione. D’altra parte, anche nel luogo comune l’amore è relazione.