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20 luglio 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Proseguiamo con la lettura de I presocratici. C’è però una cosa sulla quale volevo riflettere con voi. Una questione che è stata poco affrontata, stavo per dire nei secoli ma potremmo dire nei millenni: la questione del numero e della numerabilità. Comporta un’altra questione, che ha dominato tutto il pensiero sino a tutt’oggi, e cioè la questione dell’esattezza. Di sicuro non è un caso che il primo personaggio considerato dalla filosofia greca fosse un matematico. In tutti i manuali il primo filosofo è Talete, che era un matematico. Ora, ciò che a noi interessa non è tanto come si adoperano i numeri, ma ci occuperemo dei numeri in un altro modo. Intanto, questa parola: numero. In greco è αριθμός, che originariamente significava collegamento, rapporto, unione, connessione, ecc. Quindi, si parte già con l’idea di numero come relazione, come connessione. Invece, i latini usavano il termine numerus, che pare venga dal sanscrito numate o qualcosa del genere, che originariamente era la divisione, un dividere le cose. L’idea di numero pare comportare fin dalle origini l’idea della divisione, della divisibilità. Non è casuale che presso i Latini ci fosse questo modo di dire: dividi e domina, impera sulle cose, perché solo separandole è possibile dominarle. Qui verrebbe da pensare a qualcosa che diceva Severino rispetto al concreto e all’astratto. Possiamo porre il concreto come il linguaggio, come il tutto, mentre gli astratti sono le varie cose di cui si parla, si pensa, ecc. Ora, proviamo a considerare questo. Quando divido ovviamente separo, ma separo da che cosa? Verrebbe da pensare che ciò da cui si separa l’astratto sia il linguaggio, il concreto, e lo si separa per poterlo considerare. È impossibile non fare questa operazione, perché ogni volta che penso qualcosa lo penso come un astratto, come un finito, un determinato. Pensando l’infinito, l’indeterminato, se lo penso, lo penso come determinato, non posso pensare l’infinito. Dunque, la divisibilità di qualcosa, la sua numerabilità, quindi, anche la sua ordinabilità: sono tutte cose che seguono l’una dopo l’altra. Questa operazione è possibile a una condizione, cioè, pensando a queste cose come fuori del linguaggio; solo se penso a un elemento come fuori del linguaggio posso pensarlo come isolato, separato. Il numero possiamo anche definirlo come l’espressione di un rapporto, di una grandezza, ma compiamo una sorta di petizione di principio, perché anche il rapporto e la grandezza sono elementi che già prevedono una ordinabilità, quindi, una numerabilità. Invece, il numero pare avere assunto nei millenni questa prerogativa, quella dell’esattezza. È un luogo comune quello per cui si dice che la matematica è una scienza esatta. Ma che cosa significa esattamente? Esatto viene da ex agere, che è un portare fuori, un condurre fuori per poterlo isolare, quindi, considerare. Ora, potremmo addirittura spingerci a pensare che l’esattezza è tale a condizione di pensarsi come qualcosa che è fuori del linguaggio, cioè, ciascun elemento che considero è, sì, un rapporto – un numero è un rapporto –, ma questo rapporto con altri numeri appare come un qualche cosa di immutabile. Torniamo alla questione della divisibilità. Dividere le cose per poterle dominare, ovviamente. Ma c’è qualcosa in più qui, rispetto all’esattezza. L’esattezza dovrebbe corrispondere a qualcosa che è quello che è, non posso pensare l’esattezza rispetto a cose che mutano. Quindi, qualche cosa che è quello che è, potremmo dire, per virtù propria. Perché è sempre stato così difficile determinare il numero? Pensate a Peano. Lui dice semplicemente che il numero è una classe, che zero è un numero e il successore di un numero è un numero. Va bene, ma considera queste cose, che lui chiama idee primitive, come non ulteriormente indagabili. Questo “non ulteriormente indagabili” ci fa tornare alla mente gli inviti di Aristotele e di Platone a non andare oltre. Il numero si trova ad avere questa particolare caratteristica: da una parte è un’unità, ma questa unità non può darsi senza essere in rapporto con altro, come il significante rispetto al significato o il dire rispetto a ciò che il dire dice, è la stessa cosa. Quindi, riflettere sul numero porta a considerare questo aspetto, e cioè anche in questo caso la struttura del linguaggio. Vale a dire, la simultaneità di una cifra con il rapporto in cui questa cifra esiste. È, di nuovo, la questione antichissima dell’uno e dei molti. Il tre è uno, perché il numero tre è quello, ma senza tutti gli altri numeri non esiste. Ci arrivò anche de Saussure migliaia di anni dopo: si tratta sempre di elementi posti in una relazione differenziale con tutti gli altri. Il tre è il tre perché non è il quattro, non è il cinque e neanche l’uno; quindi, è determinato, è quello, ma senza tutti gli altri numeri non c’è, non significa niente. Ma perché la matematica ha avuto così tanta fortuna? Per dire una banalità, ha avuto fortuna per l’utilizzo che ne è stato fatto, un grande utilizzo. Ma torniamo alla questione dell’esattezza. Perché si suppone che il calcolo sia esatto? Da dove viene questa idea? Dall’idea che ciascun numero significhi esattamente quello che significa e nient’altro che quello. D’altra parte, se un numero significasse simultaneamente tutti gli altri numeri, il calcolo sarebbe impossibile. L’idea, dunque, è che il numero sia quello che è. Qui torniamo di nuovo alla questione antica: è come l’ente, che per Platone è quello che è. Sì, ma devo determinarlo per poterne dire qualche cosa, per sapere come usarlo. Con il numero è la stessa cosa. Quindi, posso parlare di esattezza a condizione che il numero significhi esattamente quello che significa e, quindi, facendo come se fosse isolato rispetto a tutta la combinatoria in cui e per cui esiste. Adesso stiamo solo approcciando la questione, la proseguiremo con i pitagorici, provando a dare una direzione alla questione. Parrebbe che tutto si rivolga di nuovo alla stessa questione, che incontriamo ininterrottamente, e cioè, poiché l’ente è determinato da altro che non è quello, anche il numero – anch’esso è un ente – viene determinato dalla presenza simultanea di tutti gli altri numeri. Ma proprio così come l’ente, per poterlo utilizzare, certo, devo determinarlo, ma questa determinazione che utilizzo non deve essere infinita, sennò non lo posso utilizzare. Devo immaginare che l’ente sia quella certa cosa che io voglio che sia, solo allora lo posso utilizzare. Parlando si utilizzano continuamente parole, ciascuna delle quali ha un utilizzo all’interno del discorso, utilizzo che è funzionale al discorso e che prevede che quella parola abbia un significato che tutti, più o meno, conoscono. Ma è quello il significato della parola? Anche, ma non soltanto. Quindi, anche nel caso del numero si tratta della stessa e identica cosa: per poterlo utilizzare devo fare come se il numero fosse isolabile dall’infinita serie di numeri. Il che non è poi tanto diverso da ciò che l’aritmetica mette in atto con la teoria dei limiti, il calcolo infinitesimale, è costretta a fare così. E, allora, saremmo quasi inclini a dire che, certo, un numero è un utilizzabile, lo si utilizza continuamente, ma è soltanto questo? No. È come ciascuna parola che interviene in un discorso. Certo, è un utilizzabile all’interno del discorso, ma ciascuna parola, ciascuna cosa che dico è un problema, perché esiste soltanto a condizione della sua negazione. È applicabile questo con i numeri? Dovrei giungere ad affermare questo, e cioè che il tre, per esempio, è utilizzabile a condizione che non sia tre. È un’affermazione impegnativa, perché se non è tre, che cos’è? Qui naturalmente sorgono una serie di problemi. Sappiamo che il tre, per essere utilizzato, deve essere il tre e basta. Certo, ma il tre, di per sé, che cos’è? Intanto, diciamo che è in una relazione differenziale con tutti gli altri numeri, quindi è il tre perché non è il cinque, se fosse anche il cinque non sarebbe utilizzabile. È ovvio che qui parliamo di numeri non in un’accezione operativa, perché questa considera il numero per quello che è e basta, come se non dipendesse per nulla da ciò che costituisce la sua negazione. C’è differenza tra il dire che il tre possiamo utilizzarlo perché non è il tre? Questo nell’accezione che indicavo prima: perché sia il tre occorre che non sia una serie di altre cose. Possiamo accostare questo con il discorso che faceva Platone intorno all’ente e al non-ente, quando dice che l’ente e il non-ente sono lo stesso? Sotto l’aspetto ontologico, sì; sotto l’aspetto operativo, sicuramente no. Il tre è fatto di ciò che il tre non è, cioè della negazione di tutti gli altri numeri: tolti tutti gli altri numeri del tre cosa rimane? Nulla. A questo punto, perché sia esatto, deve essere pensato fuori del linguaggio. Soltanto a questa condizione è possibile pensare l’esattezza, perché se utilizzando il numero lo penso ontologicamente, lo posso utilizzare, certo, ma non posso non tenere conto che questo tre esiste nella relazione differenziale di cui dicevamo prima. E, allora, ecco che ci troviamo in quella situazione bizzarra in cui anche Heidegger poneva la scienza: se la scienza incominciasse a pensare a quello che sta facendo, cesserebbe di essere scienza, sarebbe un’altra cosa. E così il numero posto ontologicamente è chiaro che non è il numero operativo, non sono la stessa cosa. Il numero posto ontologicamente non potrei utilizzarlo o, più propriamente, potrei utilizzarlo ma tenendo conto di ciò che più propriamente è, il che rallenterebbe decisamente il lavoro del matematico. Si troverebbe ad avere a che fare di volta in volta con cose che si mostrano in un processo dialettico, e cioè che il tre è tale sempre in relazione a ciò che tre non è. Ma il tre, per essere quello che è, occorre che sia in quella relazione sennò non è nulla, perché è quella relazione che lo fa esistere in quanto tale. Parlare di esattezza è, sì, certo, possibile se poniamo la matematica unicamente come un gioco. Se giochiamo a poker e io ho due assi e tu due jack, vinco io, e tutto ciò è esatto, all’interno di quel gioco e con quelle regole. Ma tutto questo, che sicuramente sarà venuto in mente a qualcun altro, perché non è mai stato preso in considerazione? Perché l’esattezza è uno degli strumenti di cui si avvale fortemente la volontà di potenza, come dire: è esatto il calcolo, quindi, è così, le cose stanno così. Se il calcolo è esatto allora il risultato ci mostra come stanno le cose, ci mostra la realtà. Quindi, rinunciare all’esattezza in questo senso è rinunciare alla volontà di potenza, alla possibilità di usare il calcolo, la scienza, ecc., per imporre la propria volontà. Lo dicono i numeri: quante volte vi sarà capitato di sentire questo, al di là del fatto che i numeri non dicono niente, però è una frase che tende a mettere a tacere ogni contestazione. In effetti, non è che si contesti che 2+2= 4, è che non significa niente al di fuori di un’operatività, ontologicamente non significa nulla. I numeri hanno sempre fornito alla volontà di potenza uno degli strumenti più forti, più facilmente utilizzabili, perché i numeri sono quelle cose che danno più facilmente di altre adito a pensare che se il calcolo è esatto allora, come i numeri si immagina che rappresentino cose, rapporti, relazioni, ecc., abbiamo di fronte a noi il modo in cui stanno le cose. È chiaro che la cosa che sto dicendo è più o meno nuova, anche perché, per esempio, pensate a Eraclito, diceva che “uno è tutto, tutto è uno”. Quindi, questo uno, da cui generalmente facciamo partire il conteggio, è tutto. Capite subito che la questione si complica rispetto all’utilizzabilità di questo uno. Operativamente no, certo, perché continua a considerare l’uno come se fosse fuori del linguaggio, come se fosse qualcosa che esiste di per sé, come voleva Platone essere l’ente. Poi, si è accorto della maledizione del linguaggio, e cioè che l’ente, se non lo determino, non è nulla, ma se lo determino, lo determino con altre cose che l’ente non è: questo è “il problema” del linguaggio, non ce ne sono altri. Quindi, ecco questa era la questione centrale, l’uno e i molti, cioè, il numero tre è quello che è, ma è quello che è in relazione ai molti, cioè l’infinita serie di altri numeri che il tre non è. Se non ci fossero questi altri, non ci sarebbe neanche il tre. Esattamente come per l’ente, non cambia nulla. Queste erano solo delle prime considerazioni attorno alla questione del numero, che è importante per la piega che ha storicamente preso per quanto riguarda ciò che chiamavo esattezza. L’esattezza è ciò che dà subito l’idea del potere: se il calcolo è esatto le cose stanno così, non c’è un’alternativa, 2+2=4.

Intervento: Questo spiega anche perché il linguaggio è volontà di potenza… di come non ci si avveda…

Sembra quasi impossibile, se non attraverso uno sforzo immane, uscire fuori da questa trappola micidiale e provare a vedere di che cosa è fatta. Un matematico potrà mai uscirne? Impossibile, non è neanche pensabile. E così in generale il parlante. Il matematico è ancora abbastanza vicino al gioco, in un certo senso. C’è il famoso aneddoto di Hilbert, quando mandò via uno studente perché non aveva abbastanza fantasia per fare il matematico. Non rigoroso, logico, ma fantasioso: lavorare di fantasia, inventarsi delle cose, per giocare, in fondo. La matematica è più vicina alla sofistica, anche se è un po’ tirata per i capelli, però, giusto per intenderci. Adesso leggeremo I presocratici compiendo un percorso di questo tipo, perché dei pitagorici ne parla in varie parti, in quanto ci sono state varie riprese dei pitagorici. Quindi, leggeremo tutti i pitagorici, saltando Eraclito, che lo mette prima, ma che comunque leggeremo, dopodiché i fisici, poi gli atomisti, Democrito e Leucippo, e alla fine riprenderemo Eraclito, gli eleati e i sofisti. Questo libro è straordinario, ma ripete anche tantissime cose perché moltissimi frammenti ripetono le stesse cose in un altro frammento. Ora, questa è una manna dal cielo per un filologo, perché trova molte conferme di una certa tesi, di una certa posizione. A pag. 217. Prima dell’opera di Filolao non esisteva nessuno scritto di Pitagora e c’era solo una tradizione orale della scuola vera e propria; di conseguenza, non esiste alcuna sicura dossografia. La biografia deve quindi delimitarsi alle narrazioni leggendarie in generale, incominciate per tempo e proseguite fino ad Aristotele e alla sua scuola. Questo per dire già da subito che di Pitagora sappiamo quello che altri ci hanno detto attraverso i loro racconti, miti, ecc. A pag. 221. Dopo Talete, si ricorda, come studioso di geometria, Mamerco, fratello, del poeta Stesicoro… Oltre questi, ci fu Pitagora, che dello studio della geometria fece un insegnamento teoretico, risalendo con l’indagine ai principi e studiandone i problemi da un punto di vista puramente astratto e concettuale. Egli, infatti, iniziò la trattazione delle grandezze irrazionali, e trovò la costruzione delle figure cosmiche (poliedri regolari). /…/ Pitagora per primo chiamò l’insieme di tutte le cose Cosmo, per l’ordine che vi regna. Come sappiamo, κόσμος in greco vuol dire ordine. È l’idea che tutto sia ordinato, che tutto sia conoscibile, che tutto sia dominabile: questo è il principio guida di tutto il pensiero. È soltanto con Democrito che la cosa si incrinò. A pag. 245. Di Ippaso si racconta che fosse uno dei Pitagorici, ma che, per aver divulgato la costruzione della sfera di dodici pentagoni, perisse in mare come empio, e tuttavia gli rimanesse la gloria come inventore di essa, mentre invece tutto era “di quell’uomo”; così infatti, e non con il suo nome, usano chiamare Pitagora. Pubblicate che furono, queste dottrine matematiche si diffusero per tutta la Grecia, e progredirono per opera soprattutto dei due matematici più famosi di allora, Teodoro di Cirene e Ippocrate di Chio. I Pitagorici, poi, raccontano che la geometria fu divulgata così: uno dei Pitagorici aveva perduto la propria sostanza, e per questo infortunio gli fu concesso di trarre guadagno dall’insegnamento della geometria. Colui che per primo rivelò la natura delle grandezze commensurabili e incommensurabili a coloro che non erano degni di partecipare a tali cognizioni, si dice che incorresse in tanto odio, che non solo fu escluso da ogni compagnia e convivenza, ma che gli fu anche costruita una tomba, come se colui che una volta era un compagno, avesse davvero cessato di vivere. Per loro queste cose erano per pochissimi, quasi dei misteri. Infatti, si narra che Pitagora parlasse da dietro una tenda, per non essere visto, si sentiva solo la sua voce. Altri dicono, che anche la divinità si adirasse con i divulgatori delle dottrine di Pitagora. Si può anche capire il perché: Pitagora rendeva tutto misurabile, tutto dominabile, e per questo motivo doveva rimanere nelle mani di pochi. Infatti, perì come empio in mare, colui che rivelò come si inscrive nella sfera l’icosagono, cioè il dodecaedro, una delle cinque figure dette solide. Alcuni, però, narrano che questo sia accaduto a colui che aveva divulgato la dottrina degli irrazionali e degli incommensurabili. – Si racconta che il Pitagorico Ipparco, sotto l’accusa di avere pubblicato le dottrine pitagoriche, fu espulso dalla comunità, e che a lui, come a un morto, fu eretta una stele funebre. A pag. 249. Alcuni dei Pitagorici fanno corrispondere il numero all’anima, semplicemente; invece Senocrate fa corrispondere l’anima al numero in quanto esso è semovente, il Pitagorico Moderato in quanto contiene dei rapporti “armonici”, e Ippaso acusmatico dei Pitagorici (acusmatici erano quelli che ascoltavano quello che parlava non visto) in quanto è “strumento di giudizio di Dio creatore”, – Gli acusmatici della scuola d’Ippaso chiamavano il numero “primo paradigma della creazione”, e anche “strumento di giudizio d Dio creatore”. Questa è l’opinione che avevano dei numeri, come qualcosa di divino. Si può anche capire perché. In effetti, i numeri davano l’opportunità di pensare di avere immediatamente tutto sotto il proprio dominio: se il calcolo è esatto, così stanno le cose. Passiamo a Senofane, altro Pitagorico. A pag. 265. Sozione dice, poi, che egli fu il primo a sostenere che tutte le realtà sono incomprensibili; ma si sbaglia. Tutte le realtà sono incomprensibili. Già, ma con la matematica possiamo renderle tutte comprensibili, perché le misuriamo, le dividiamo, fino all’atomo, che è l’indiviso per definizione. A pag. 267. Senofane, vissuto poco prima rispetto ad Anassagora, sostenne che tutto è uno. È un pensiero questo che esisteva già agli albori. ν πάντα εναι, dirà Eraclito, chiaramente pensando il numero ontologicamente. Ci sono poi gli Apoftegmi, che sono detti brevi, come delle sentenze. A pag. 269. Un altro (argomento di carattere retorico) si basa sulla seguente considerazione: qualora la conseguenza sia la stessa, anche le premesse da cui deriva sono le stesse. Per esempio, Senofane soleva dire che “Commettono un’empietà quanti affermano che gli dei nascono, alla pari di quanti dicono che muoiono”. In entrambi i casi, infatti, risulta che gli dei, in un determinato tempo, non esistono. Mentre l’idea è che siano eterni. Da qui, poi, Severino ha tratto tutte le sue considerazioni. A pag. 287. Dichiara, inoltre, a proposito degli dei, che tra loro non c’è nessuna preminenza: sarebbe empio, infatti, che qualcuno degli dei fosse sottomesso a un padrone; e nessuno di loro ha assolutamente bisogno di nulla; essi vedono e odono nell’interezza, e non nelle parti. Egli dichiara, poi, anche che la terra è illimitata e che non è circondata dall’aria in ogni parte; tutto nasce dalla terra; dice, poi, che il sole e gli astri nascono dalle nubi. Gli dei vedono il tutto e non le parti, vedono il concreto e non gli astratti: questo è quello che fanno gli dei, coloro che sanno. A pag. 407. Risulta, poi, manifesto che anche Platone riprende molti pensieri che sono di Epicarmo. Si consideri quanto segue. Platone afferma che il sensibile è ciò che mai permane invariato, né in qualità né in quantità, ma sempre scorre e muta; cosicché, se alle realtà sensibili si sottrae il numero, non sono né uguali né determinate né dotate di una certa quantità né di una certa qualità. Queste sono realtà sempre in divenire di cui non c’è mai un essere sostanziale. Intelligibile, invece, è ciò da cui nulla è sottratto né aggiunto. Questa è, dunque, la natura delle cose eterne, che risulta essere sempre uguale e la stessa. Epicarmo ha detto in modo limpido, a proposito delle realtà sensibili e di quelle intelligibili, quanto segue: – Sempre gli dei esistettero e non vennero mai meno / queste realtà sono sempre uguali, e sempre per se stesse. / Però si dice che il Caos fu il primo tra gli dei a venire all’essere. / E come mai? Essendo il primo, non avena qualcosa / da cui proveniva né qualcosa verso cui procedeva? /Nulla, allora, procedette per primo? – E neppure, per Zeus, per secondo, / almeno di queste cose, di cui ora discorriamo, ma queste sempre furono. Qui c’è una cosa interessante. Diceva se alle realtà sensibili si sottrae il numero, non sono né uguali né determinate né dotate di una certa quantità né di una certa qualità. Ci sta dicendo qui in modo chiarissimo a che cosa serve di fatto il numero, e cioè serve a dominare, perché se a queste cose togliamo il numero, è come se non le dominassimo più, diventano indeterminate, un πείρων, quindi, indomate; mentre, per domare le cose, occorre ordinarle, metterle in ordine, disporle in un certo modo. C’è una frase curiosa. A pag. 419. Tu non sei proprio amico degli uomini, hai una malattia: godi nel dare. La volontà di potenza: il godimento nel dare, nell’essere generosi, nell’essere prodighi verso il prossimo. In queste due righe c’è tutto Nietzsche, in effetti. A pag. 425. Il poeta comico Epicarmo parla con chiarezza del logos nella Repubblica nel modo che segue: La vita degli uomini ha molto bisogno di calcolo e di numero: noi viviamo con numero e con calcolo: proprio queste sono le cose che servono agli uomini. Il calcolo, il numero sono degli utilizzabili per la propria volontà di potenza. L’ordine, mettere ordine nelle cose è uno degli obiettivi finali. Siamo a Ippone, altro pitagorico. A pag. 789. Secondo Ippone, l’anima deriva dall’acqua. Coloro che invece pongono come principio uno dei due opposti, come il caldo e il freddo o qualcos’altro del genere, sostengono che, similmente, anche l’anima consista di uno di questi principi, e perciò lo denominano anche di conseguenza: alcuni, infatti, la chiamano “il caldo” (thermon), poiché in base a questo ha preso nome anche il vivere (zen), altri “il freddo”, poiché l’anima (psyché) sarebbe stata chiamata così in base all’inspirazione e al raffreddamento. Ippone ed Eraclito pongono come principio ciascuno uno dei due contrari. Eraclito pone il caldo, poiché sostiene che principio sia il fuoco; Ippone il freddo, in quanto stabilisce come principio l’acqua. Ciascuno di questi due tenta anche di fornire l’etimologia del nome dell’anima (psyché), in base alla propria opinione filosofica, l’uno affermando che si dice che gli esseri animati (émpsycha) vivano, con derivazione del verbo “vivere” (zen) da “scaldare” (zein), che è tipico del caldo. Ippone, invece, sostiene che l’anima (psyché) abbia preso nome dal freddo (psychron), da cui trae anche la sua stessa esistenza, in quanto risulta essere per noi la causa del raffreddamento (psyxis) per mezzo dell’inspirazione. Poiché dunque la vita viene dall’anima, e l’anima viene dal freddo, provenendo dall’acqua, per questo l’anima ha bisogno dell’inspirazione, che con il freddo temperi il calore della zona del cuore… Danno un’idea ben precisa di che cosa sia l’etimologia. A seconda di quello che pensi, accogli oppure no un termine; se ne accogli uno allora deriva in un certo modo, portandosi appresso tutta una serie di concettualizzazioni; se preferisci quell’altro… Per questo con l’etimologia è sempre meglio andare abbastanza cauti. Siamo a Enopide. A pag. 813. Zenodoto, che fa parte dei successori di Enopide, uno dei discepoli di Androne, distingueva il teorema dal problema, in quanto il teorema ricerca che cosa sia la proprietà predicata della materia che in esso è data, mentre il problema ricerca che cosa debba esserci perché si dia una certa proprietà. È un po’ la distinzione che facevano qualche tempo fa tra teoria e teoresi. La teoria ricerca che cosa sia la proprietà predicata della materia, quindi, predica cose sulla materia; mentre il problema ricerca che cosa debba esserci perché si dia una certa proprietà, cioè, ricerca le condizioni. Siamo a Filolao, che è uno dei pitagorici più importanti. È colui che ci ha consentito di saperne di più su Pitagora. A pag. 823. Filolao di Crotone. Pitagorico. Platone scrisse a Dione di comprargli da lui i libri Pitagorici. (Morì condannato in quanto sospetto di aspirare alla tirannide. Ci sono anche dei nostri versi riferiti a lui: Affermo che del sospetto tutti sono vittime in sommo grado: / perché, se anche non fai nulla, / ma sembri farlo, sei spacciato. / Così un tempo Crotone, la sua patria, uccise / Filolao, poiché parve spirare alla tirannide. A pag. 827. Secondo Filolao la geometria è origine e madrepatria… delle altre scienze. Sappiamo che il pensiero nasce con Talete che era prevalentemente un geometra. Il mordace Timone scrisse un libro pieno di malignità intitolato Sillo; in questo libro apostrofa il filosofo Platone con termini ingiuriosi, accusandolo di aver comprato per denaro un libro di scienza pitagorica, dal quale avrebbe tratto e messo insieme quel suo famoso dialogo intitolato Timeo. Ecco i versi di Timone su questo argomento: Anche tu, Platone! Ha preso anche tu l’uzzolo del sapere, / e hai dato molto denaro in cambio di un piccolo libro, / e scegliendone la parte migliore, hai imparato a scrivere il Timeo. Dicono alcuni, fra cui anche Satiro, che Platone dette incarico a Dione in Sicilia di comprargli tre libri di dottrine pitagoriche da Filolao per cento mine. Che Pitagora abbia detto determinate cose no può affermarlo neppure il celeberrimo Platone, che più di ogni altro condivise la filosofia di Pitagora; né Archita; né colui stesso che affidò alla scrittura le conversazioni di Pitagora, cioè Filolao. La conclusione è: non si sa che cosa abbia detto Pitagora. Il Pitagorico Filolao pone come principi il limite e l’illimite. Le cose imperfette sono sottoposte alle divine e il cosmo risulta uno dall’accordo dei contrari, costituito da “limitanti” e da “illimitati” secondo Filolao. Filolao qui coglie quello che coglierà molto tempo dopo Hegel: c’è il limitato e l’illimitato, l’in sé e il per sé. Questo accordo dei contrari è quello che Hegel chiama Aufhebung. Era già presente qui: il limitato e l’illimitato sono in accordo tra loro, sono come due momenti dello stesso, avrebbe detto Hegel.