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20-7-2016

 

HEIDEGGER: La questione della cosa (1935-1936). Vedremo mano a mano perché ci occupiamo della “cosa”. Quando si dice, si dice sempre qualcosa, quando si parla si parla di qualcosa. Questo “qualcosa” in qualunque dire è già un dato esistente. Dall’introduzione di Vincenzo Vitiello: Due sono i luoghi di Essere e Tempo cui dobbiamo ora riferirci, il paragrafo 43 nel quale Heidegger prende in esame e critica la confutazione del liberismo e paragrafo 64 dove discute la determinazione kantiana dell’Io penso. Riguardo alla confutazione afferma che il vero scandalo della filosofia non sta nel fatto che non è stata ancora data una dimostrazione sufficiente dell’esistenza delle cose fuori di noi bensì nel fatto che tale dimostrazione è sempre di nuovo attesa e tentata. Pag, 23: sorge ad un certo punto una domanda: Perché solo il tempo e non anche lo spazio? (questo a proposito di Kant) non è anche questo un orizzonte puro predisposto per la manifestazione dell’ente? L’intuizione non è affetta anche dallo spazio? Certamente, però il tempo diversamente dallo spazio ha un doppio significato e questo spiega il suo primato e il motivo per cui nello schematismo si fa riferimento soltanto ad esso. (perché ciò che determina la “cosa” è il fatto che è quella che è, quindi essendo quella che è, è differente da altre per cui si individua per quella che è, si individua rispetto allo spazio che occupa in determinato tempo. Ancora Vitiello) precisa Heidegger: Kant non si ferma al concetto tradizionale di realtà, come sempre rielabora i concetti della tradizione razionalistica in senso critico “il reale nel fenomeno non è, nel significato kantiano, ciò che effettivamente esiste nell’apparenza distinto da ciò che non esiste essendo mera e fumosa parvenza, “reale” è ciò che in generale deve esser dato perché si possa decidere riguardo alla sua effettiva esistenza o inesistenza. Il reale è il puro e il primo necessario qualcosa in quanto tale. Senza il reale, senza la materia essenziale, senza cioè qualcosa che lo determina come questo o quello, l’oggetto è non solo inesistente ma non è in generale niente. Per questo qualcosa, per il reale l’oggetto si caratterizza come ciò che viene incontro in questo o quel modo. Il reale è il primo quale dell’oggetto. (la qualità dell’oggetto, ciò che lo distingue da ciascun’altra cosa. qui invece siamo con Heidegger e vediamo cosa ci dice lui rispetto alla “cosa”) Pag. 52: (si interroga sulla “cosa”, “cosa” che è il termine più generale per indicare qualsiasi cosa) Ma anche ammesso che due cose singole siano assolutamente eguali, ciascuna tuttavia è sempre “questa” cosa, un “questo”, poiché ognuno (lui faceva prima l’esempio dei due aghi di abete) dei due aghi d’abete è in un luogo diverso e se debbono occupare lo stesso luogo allora può accadere soltanto in un punto del tempo affatto diverso (questo è il motivo per cui si interrogava sulla questione del tempo e dello spazio, ciò un oggetto occupa un certo spazio che lo determina per quello che è, ma un certo spazio in un certo tempo però, perché in un tempo successivo questo stesso spazio può essere occupato da un’altra cosa) il luogo e il punto del tempo fanno anche di due cose assolutamente uguali dei “questi” cioè dei diversi (perché ciascuno è un questo, cioè è identificato) e dunque in quanto ogni cosa ha il suo luogo, il suo punto nel tempo e la sua durata, non ci non mai due cose uguali. La nostra domanda “Che è una cosa? include dunque in sé queste altre due “che è lo spazio?” e “che è il tempo?” (quindi altre due questioni che si pongono e vediamo come, facciamo un salto, procediamo così soltanto per alcune cose e poi vi dirò perché, giusto per intendere una traccia rispetto alla questione della “cosa” che a noi interessa di più, qui siamo a pag. 72): La visione naturale del mondo cui costantemente ci richiamiamo non è di per sé evidente è anzi problematica, questo “abusato” naturale è in senso eminente storico ciò che a noi appare come naturale, quindi qualcosa che è e che ha un’essenza che mi appartiene e che è sempre la stessa, che sarà sempre così, è qualcosa di storico e cioè qualcosa che appare a me qui ed ora, mi appare in questo momento così com’è, perché è un evento storico cioè situato all’interno della mia storia, del mio progetto, potrebbe darsi quindi che mentre la nostra visione naturale del mondo è dominata da una secolare interpretazione dell’essere della cosa in generale, le cose stesse intanto ci vengono incontro in tutt’altro modo (siamo abituati a pensare, a pensare di vedere le cose in un certo modo ma questo certo modo in cui le vediamo è un modo storicamente determinato da tutto ciò che abbiamo imparato, saputo, creduto eccetera) Possiamo fermarci a ciò che è “naturale” e su cui non si pensa ulteriormente, possiamo lasciare che questa mancanza di pensiero valga come criterio di valutazione delle cose, il tram continuerà a viaggiare. Perché le decisioni vengano prese o non, riguardano non il tram e la motocicletta ma un altro ambito quello della libertà storica dove l’esserci storicamente determinato decide della sua ragion d’essere e del modo in cui si sceglie il grado di libertà del proprio sapere e ciò che intende come libertà (continua a dire che la questione fondamentale è il pensare, l’“Esserci” storicamente, il Dasein, perché solo pensandolo storicamente, solo pensandolo come il progetto in cui sono gettato, il progetto che sono, solo in questo modo le cose mi vengono incontro “liberamente”. Cosa vuole dire liberamente? Non vincolate a pregiudizi, non vincolate a un pre sapere, a un pre supposto) /…/ Interrogarsi storicamente significa mettere in libertà e in movimento la storia rimasta incatenata e immobilizzata nel problema. Intendere la domanda “che è una cosa?” come un problema storico non significa dunque né fare un resoconto storiografico delle opinioni del passato né criticandole cercare in esse quanto vi è di esatto per ricavarne una nuova definizione della cosa, piuttosto si tratta di rimettere in moto l’originaria storia interna di questo problema (come fa lui, cioè riprendere un elemento oppure una parola antica, come λόγος, e ri problematizzarla, cioè riprendere quello stesso problema che avevano colto i primi pensatori e continuare a interrogare. Infatti dice “si tratta piuttosto di rimettere in moto l’originaria storia interna di questo problema, seguendo i tratti più semplice del suo movimento irrigidito nella quiete, una storia questa che non giace lontano da noi in qualche remoto passato ma che è anzi presente in ogni proposizione, in ogni opinione quotidiana, in ogni approccio alle cose”. Ciò che è intervenuto storicamente è ancora presente qui oggi mentre ne parliamo. Pensate alla questione della verità, il volgimento da λήθεια a veritas, ha segnato fortemente e in modo decisivo la storia degli umani, e il modo latino di porre la veritas è ancora presente ogni volta che ci riferiamo alla “verità”) Si tratterebbe in primo luogo di mettere in movimento l’inizio greco della definizione dell’essenza della cosa, e della proposizione ma non per apprenderlo come fu nel passato, bensì per decidere com’è ancora oggi nell’essenziale (non per sapere come pensavano gli antichi greci, ma per sapere che cosa di ciò che loro pensavano è ancora qui che ci interroga, ancora presente in quello che diciamo, in quanto domanda) Dobbiamo però in questo corso (questo testo è la traduzione di un corso che ha fatto) rinunciare all’attuazione di questo fondamentale compito per due motivi. /…/ la risposta alla domanda “che è una cosa?” ha un diverso carattere, non è una proposizione ma un mutamento della posizione fondamentale riguardo alle cose o meglio e più cautamente è un iniziale mutamento della posizione tradizionale, un mutamento dell’interrogare e del valutare, del vedere e del decidere, in breve un mutamento dell’esserci in mezzo all’ente (che significa che quando ci chiediamo “che è una cosa?” questa domanda, questo domandare Heidegger dice che è un mutamento, è qualche cosa che muta in noi mentre ci poniamo la domanda, cioè porci questa domanda comporta in noi già un mutamento, un mutamento nel progetto che siamo in quanto ci consente di approcciare la questione in modo, come diceva, prima libero, non vincolato alla chiacchiera, a ciò che si è sentito, a ciò che altri hanno detto, ma rimetterlo in questione, rimetterlo in gioco. Dice “è un mutamento dell’esserci in mezzo all’ente” un mutamento quindi dell’essere progetto fra i vari enti ma un mutamento del mio progetto, in quanto muta in che cosa voglio fare, cioè non voglio trovare la risposta in questa cosa, voglio che questa cosa mostrandosi mi consenta di potere domandare ancora. Questo nel senso più autentico di Heidegger) La moderna scienza matematica della natura è la nascita della Critica della Ragion pura (Kant si è interrogato sulle condizioni per cui un concetto di un qualche cosa possa darsi, dirsi, e questo concetto, cioè il modo in cui si articola, si analizza la cosa per Kant avviene attraverso il giudizio. Kant considera che l’approccio alla cosa si configuri in tre modi particolari di accesso alla cosa e cioè o la cosa manifesta da sé intuitivamente, senza che ci sia né esperienza né altro ma il concetto si mostra inesorabilmente come qualcosa di puro, lui fa l’esempio del corpo, cioè pensare un corpo comporta pensare immediatamente un estensione, se è un corpo ha un’estensione, questa cosa non viene né dall’esperienza né da un calcolo ma è il concetto stesso di corpo che comporta in sé l’idea di spazio, cioè è un concetto non ulteriormente scomponibile. Dunque analitica perché mostra necessariamente ciò che è, quando parlo di corpo parlo necessariamente anche di estensione. Questo è il giudizio analitico che è sempre a priori, nel senso che si dà prima ancora che io pensi qualcosa, prima ancora che calcoli qualcosa, prima ancora della mia esperienza. In Kant questa posizione dell’analitica a priori mostra quali sono i primi elementi su cui si muove il ragionamento, da cui parte la ragione, senza i giudizi analitici a priori non si può ragionare perché il giudizio analitico a priori dice che un qualche cosa è quello che è e in base a questo mostra la sua prerogativa, la sua caratteristica che è intrinseca a quella cosa, il pensiero non può che cogliere immediatamente questo fatto e cioè “se è un corpo ha un’estensione”. Ma pone dei giudizi che non sono analitici ma sintetici, cioè derivano dalla sintesi di altre cose che si sanno, quindi sono derivati, mentre il giudizio analitico non è derivato da nulla ma si impone da sé. Distingue ancora il giudizio a priori e a posteriori, il giudizio sintetico a priori è un giudizio che non è né intuitivo come il giudizio analitico né procede dall’esperienza, per esempio il calcolo aritmetico, sapere che due più due fa quattro non è qualcosa di intuitivo e non viene neanche dall’esperienza, però è sintetico perché devo già avere delle nozioni, delle acquisizioni per potere concludere che due più due fanno quattro, però non è intuitivo, cioè non è un giudizio analitico e non è frutto dell’esperienza cioè non è un giudizio sintetico a posteriori, tutti i giudizi, la più parte, degli umani sono, per Kant, giudizi sintetici a posteriori cioè quelli prodotti dall’esperienza: se io affermo che un libro è fatto di pagine, questo non è intuitivo ma viene dall’esperienza, dal fatto che ogni volta che ho aperto un libro questo era fatto di pagine e quindi anche questo libro è fatto di pagine. Questo modo di approcciare la cosa in Kant ha segnato in buona parte tutto il pensiero occidentale, questo modo di affrontare la questione lui la chiama “analitica trascendentale” che non è esattamente trascendente, un significato leggermente diverso anche se sono connessi, voi sapete bene che trascendente è ciò che non è immanente, cioè ciò che si dà ma non in modo evidente, non immediatamente evidente. Questi giudizi si danno però non in modo immediato evidente, si danno in modo trascendentale cioè non è presente mentre io formulo un giudizio che questo giudizio venga dall’esperienza eccetera, un giudizio avviene, è qualche cosa che avviene qui e adesso però è legato a un procedimento che lui chiama “trascendentale” e che può essere appunto “analitico” “sintetico” a priori o a posteriori ma rinvia comunque sempre a qualche cosa che non è qui presente in questo istante, in questo senso “trascendentale”. Dunque si occupa delle condizioni del sapere, si occupa delle condizioni per cui posso conoscere una cosa, e le condizioni per cui posso conoscere la cosa non sono presenti, qui immanenti, trascendono ciò che è qui in questo istante e quindi sono trascendenti. Kant preferisce “trascendentali”, tutto ciò che è “trascendentale” per Kant è ciò che si riferisce alle condizioni della conoscenza, alle condizioni di qualunque cosa) Come si è già detto per la determinazione dell’essenza della cosa è stato decisivo, a parte l’inizio greco, l’avvento della scienza moderna della natura, la trasformazione dell’esistenza che sta alla base di questo evento mutò il carattere del pensiero moderno e quindi della metafisica, preparando le condizioni necessarie al sorgere della Critica della Ragion pura. È quindi indispensabile per molteplici motivi farsi un’idea più precisa del carattere della scienza moderna, a tal fine dobbiamo rinunciare a entrare in questioni particolari, non possiamo seguire neppure le fasi principali della sua storia. La maggior parte dei fatti di questa storia è nota e tuttavia la nostra conoscenza delle sue più integre e multi motivazioni e connessioni è ancora molto manchevole e oscura, soltanto questo è del tutto chiaro che il mutamento nella scienza si compì attraverso un dibattito durato secoli sui concetti e i principi fondamentali del pensiero cioè sulla posizione fondamentale riguardo alle cose e all’ente in generale (e quindi riguardo alla domanda “che è una cosa?”) Tale dibattito deve essere condotto solo conoscendo perfettamente le teorie della natura della tradizione medioevale e antica e richiedeva un pensiero straordinariamente ampio e sicuro dei suoi concetti, infine la piena padronanza delle nuove conoscenze e dei nuovi metodi, tutto ciò presupponeva una singola brama di sapere quale si trova solo nei greci e di un sapere costitutivo tale cioè da porre in questione anzi tutto e costantemente i propri presupposti per cercare di dar loro un fondamento, perseverare in questa problematicità sembra l’unica via concessa all’uomo per custodire le cose nella loro inesauribilità cioè nella loro genuina essenza (preservare questa problematicità vale a dire mantenere quella brama di sapere, il quale, dice lui, si trova solo nei greci, e porre in questione anzitutto e costantemente i propri presupposti, questo è stato tipico del pensiero greco cioè la domanda, la domanda circa i propri presupposti) Pag. 97: La grandezza e la superiorità della scienza naturale del XVI e XVII secolo sta in ciò che quegli scienziati erano tutti filosofi (in questo dice sta la grandezza della scienza, quella scienza che poi è diventata la scienza moderna, che è rimasto l’impianto della scienza, non della tecnica ma della scienza) Essi erano consapevoli che non ci sono fatti puri e semplici ma che un fatto è quello che è solo alla luce del concetto che lo fonda e nell’ambito di tale fondazione (cosa che è lontanissima dagli scienziati moderni, non si pongono assolutamente questioni del genere) per contro il positivismo nel quale siamo immersi da decenni, e oggi più che mai, ritiene che bastino i fatti, i sempre nuovi fatti mentre i concetti sono solo degli espedienti necessari con cui non ci si deve impegnare troppo ché questa sarebbe filosofia. Il comico o a dir bene il tragico della situazione attuale della scienza è che ora si pensa che si possa superare il positivismo con il positivismo, certo questo atteggiamento prevale solo là dove si svolge un lavoro di secondo ordine, dove si fa ricerca vera, quella che apre nuove strade, la situazione non è diversa da quella di trecento anni fa, anche qui il tempo aveva le sue ottusaggini così come all’inverso oggi i migliori ingegni della fisica atomica, Niels Bohr, Heisemberg pensano sempre filosoficamente e per questo creano nuove prospettive di ricerche e si mantengono fedeli al loro atteggiamento problematico innanzi tutto (sta dicendo che lo scienziato autentico, è tale in quanto sta facendo della filosofia cioè si sta domandando delle cose, non sta cercando nuovi aggeggi, nuovi trabiccoli da fare funzionare, si sta interrogando sulle cose, si sta domandando “cos’è qualcosa?”: per incominciare a ragionare su qualcosa occorre che io dia per acquisito che questo qualcosa esista e sia quel qualcosa, come condizione, se non c’è questo non si va da nessuna parte. Pag. 103): Come parlare del carattere matematico, la μθησις (la μθησις in italiano, è l’insegnamento) se non lo si può spiegare con la matematica? (ovviamente la matematica non può spiegare matematicamente se stessa) Nell’affrontare questo problema facciamo bene a fermarci sulla parola, certo non sempre là dove è la parola si trova anche la cosa, ma con i greci che coniarono questa parola μθησις possiamo ben fare ipotesi senza pericolo, “matematico” deriva quanto alla sua formazione dal greco τ μαθματα “ciò che si può imparare” ed insieme insegnare, μανθνειν significa “imparare”, μθησις, insegnamento nel duplice senso dell’apprendere seguendo un insegnamento e di ciò che di questo viene insegnato. I μαθματα, la μθησις è ciò che in vero già conosciamo delle cose (ché se io insegno qualcosa si suppone che sappia qualche cosa di ciò che vado insegnando) ciò che conseguentemente non prendiamo soltanto da loro ma in un certo modo rechiamo già in noi, possiamo ora comprendere perché ad esempio il numero è qualcosa di matematico, vediamo tre sedie e diciamo “sono tre”, che cosa sia il “tre” non ce lo dicono le tre sedie, e neppure tre mele o tre gatti o tre altre cose qualsiasi, piuttosto noi possiamo contare tre cose se già conosciamo il tre (sta incominciando ad avvicinarsi alla domanda fondamentale e cioè “che cosa devo sapere già” perché qualche cosa per me appaia come qualcosa, anziché come nulla) Così comprendendo il numero tre come tale prendiamo esplicitamente conoscenza di ciò che in qualche modo già abbiamo (sappiamo che queste cose sono appunto due perché conosciamo già il due) Questo prendere conoscenza è il vero apprendere (“prendere conoscenza” dice)il numero è in senso proprio ciò che può essere appreso (μθημα è l’oggetto dell’apprendimento) ossia qualcosa di matematico (è chiaro che qui “matematico” in Heidegger interviene in modo un po’ diverso da come interviene il termine “matematico” quando si impara la tabellina del tre) Per comprendere il “tre” come tale, la triade, in niente ci aiutano le cose (sta parlando del giudizio sintetico a priori, che non c’è l’esperienza né l’intuizione, quindi come facciamo a saperlo?) Il tre che cos’è propriamente? Il numero che nella serie numerica naturale sta al terzo posto, al “terzo”! (come dire: siamo da capo) ma è il terzo numero solo perché è il tre e “posto”, donde i posti (il tre ha un posto ma questi posti da dove arrivano?) il tre non è il terzo numero ma il primo, non però il numero uno, ad esempio abbiamo davanti a noi un pezzo di pane e un coltello, l’uno e l’altro quando li prendiamo insieme diciamo “entrambi l’uno e l’altro, ma non questi due, non uno più uno, solo quando al pane e al coltello si aggiunge ad esempio una coppa e noi sommandoli diciamo “tutti” solo allora noi li prendiamo come una somma, come un insieme, come una determinata quantità. E solo a partire dal terzo il precedente uno diviene il primo, e il precedente altro il secondo. Solo a partire dal terzo sono uno e due, e la “e” diviene “più”, ed è possibile che ci siano dei posti e una serie, ciò di cui ora prendiamo conoscenza non lo ricaviamo da nessuna cosa, noi prendiamo ciò in qualche modo che già abbiamo, ed è appunto questo che così può essere appreso, che deve essere concepito come “matematico” (incomincia a parlare del numero tre, si chiede “come facciamo a sapere che il tre è il terzo numero? Che occupa la terza posizione? eccetera. A un certo punto dice “il terzo, il terzo elemento, dice, forse non è il terzo nella posizione compiuta ma il primo”, cos’è che glielo fa dire? quando prendiamo due elementi, faceva l’esempio del pane, del coltello, prendiamo l’uno e l’altro e diciamo “entrambi” ma non diciamo questi due, dice Heidegger ovviamente, quindi non è uno più uno, sono entrambi, lui dice che soltanto a condizione che si aggiunga un terzo elemento, in questo caso una coppa, solo allora noi li prendiamo come una somma mentre i due “questo” e “questo” non li prendiamo come una somma ma come questi due, se aggiungo anche questo allora dico che li prendo tutti, dal terzo in poi, ma occorre che ci sia un terzo perché io possa dire “li prendo tutti”, se no dice lui, li prendo entrambi, è soltanto a partire dal terzo che il precedente uno, il terzo sarebbe uno più uno, più uno, però soltanto a partire dal terzo dice “il precedente uno diviene il primo nella serie” soltanto quando c’è questo terzo elemento allora questo è il primo, questo il secondo, questo è il terzo. Se fossero solo due secondo Heidegger non ci sarebbe questa possibilità ché il due è tale solo perché segue l’uno. Come se occorresse un terzo elemento per potere stabilire una successione che non si stabilisce finché gli elementi sono soltanto due. Dunque noi prendiamo ciò che in qualche modo già abbiamo “ed è appunto questo che così può essere appreso, che deve essere concepito come “matematico” soltanto ciò che già abbiamo”. Dopo quanto si è detto tale affermazione non può più significare che nella scienza moderna è fatto uso della matematica ma che i problemi sono stati posti in modo tale che conseguentemente si è dovuti impiegare la matematica in senso stretto (quindi non è la matematica che ha risolto dei problemi, è che sono stati posti in modo tale che la matematica li potesse risolvere, che è ben diverso. “Matematico” non è nient’altro che la possibilità di apprendere qualche cosa se questo qualche cosa in qualche modo è già dato, ed è molto kantiano in effetti, occorre questo primo elemento perché possano seguire tutti gli altri e questo primo elemento nella serie, nella successione matematica secondo lui diventa primo solo se possiamo stabilire un terzo, perché se no uno e due diventano uno più uno ma rimangono disgiunti tra loro, non sono mai un tutto. Per apprendere i numeri occorre che ci siano degli elementi ma in modo particolare cioè occorre che ci siano almeno tre elementi perché io possa così dire che c’è uno poi c’è più uno però col terzo elemento diventano un tutto e cioè a questo punto posso capire che cosa è l’uno, posso capire che cosa è il due solo se c’è il terzo) Pag. 117: L’essenza del progetto matematico e l’esperimento galileiano della caduta dei corpi, ci resta da considerare anzi tutto il problema dell’applicazione di questo primo principio e più precisamente come in tale applicazione diviene determinante la μθησις, che dice questo principio? Esso parla di un corpo, di un corpo lasciato a se stesso (dice dove lo troviamo tale corpo?) Un tale corpo non c’è (un corpo lasciato a se stesso che esista di per sé, avulso da qualunque cosa, è come la parola senza linguaggio) né c’è un esperimento che possa mai darci la rappresentazione intuitiva di un tal corpo ma la scienza moderna diversamente dalle funzioni concettuali meramente dialettiche della scolastica e della scienza medioevali, deve fondarsi sull’esperienza e invece al vertice della scienza moderna c’è un principio che parla di una cosa che non c’è, che postula una rappresentazione del fondamento delle cose che contraddice quella comune (la scienza è fondata dal fatto che qualche cosa si dia, qualche cosa sia quello che è necessariamente e cioè sul presupposto che ci sia un oggetto, che esista. Dicevamo dell’oggetto rispetto al soggetto, un qualche cosa di individuabile, quindi di oggettivabile, quindi di manipolabile, questo oggetto dice Heidegger sulla scorta di Kant, questo oggetto non c’è, quindi la scienza si fonda, per potere procedere, su un oggetto che di fatto non c’è) su questa pretesa poggia la μθησις ossia l’assunzione di una determinazione della cosa che non si ricava per esperienza dalla cosa stessa ma che non di meno è alla base di tutte le determinazioni delle cose, le rende possibili e le fa essere, una tale concezione del fondamento delle cose non è né arbitraria né di per sé evidente (pone una questione importante: l’oggetto dell’insegnamento, il μθημα, questo oggetto di per sé non c’è, non posso determinarlo perché sarebbe un corpo, sarebbe un elemento, se voglio identificarlo devo ritagliarlo da tutto ciò che lo circonda, ma tutto ciò che lo circonda è ciò che lo fa essere quello che è, dunque se lo ritaglio da tutto ciò che lo circonda, scomparendo tutto ciò che lo circonda scompare anche l’oggetto) Galilei afferma: “mi figuro col pensiero un mobile lasciato completamente a se stesso” (un corpo lasciato totalmente a se stesso, potremmo dirla con Heidegger, quell’elemento, quell’ente che non ha l’essere, è l’ente fuori dal progetto, l’ente così immerso nel nulla) dunque questo figurarsi col pensiero è quel dare a se stesso la conoscenza di una determinazione delle cose, quel procedimento che Platone riferendosi alla μθησις definì una volta in questo modo “accogliendo la conoscenza dall’alto e in alto al di sopra di ogni altra cosa e insieme prendendola da se stesso” (sta dicendo che questa posizione di Galilei è metafisica, addirittura platonica, cioè Galilei si raffigura un qualche cosa, si figura col pensiero, qui Heidegger dice “dare a se stesso la conoscenza di una determinazione delle cose” non è esattamente la stessa cosa che fa Platone quando dice che un elemento è quello che è per via dell’idea che sta lassù? Dice a proposito dell’essenza della μθησις): La sua caratteristica generale (dell’insegnamento) consiste come si è detto nell’essere un prendere conoscenza siffatto che ciò che prende esso stesso se lo dà, per cui esso si dà ciò che già ha (ciò che già ha. Cosa fa dunque la μθησις? L’insegnamento deve determinare qualche cosa per poterlo insegnare, per poterlo trasmettere, ma la caratteristica generale di questo consiste appunto nello strano prendere coscienza delle cose, perché dice nel “prendere coscienza” ciò che prende, nel senso di ciò che acquisisce se lo dà esso stesso, non lo prende dalla cosa, se lo dà da sé, per cui esso si dà ciò che già ha. Se io volessi interrogare questo posacenere, adesso mettiamola così molto rozzamente, tutto ciò che io dico di quel posacenere appartiene al posacenere? Beh intanto se prendo questo posacenere come un oggetto devo ritagliarlo da tutto il contesto, da tutto ciò che, come dicevamo prima, lo fa esistere come posacenere, se io faccio questo allora tutto ciò che dirò di questo posacenere è qualcosa che io so già e che io attribuisco al posacenere, per questo io ricevo dal posacenere ciò che io gli ho attribuito, perché sono io che gli attribuisco delle cose e poi stabilisco che queste cose me le dia il posacenere, ma sono cose che io ho già. È un po’ come quando si fanno parlare gli animali) Riassumiamo ora in un prospetto tutto quello che si è esposto al fine di cogliere in modo più preciso l’essenza della μθησις, la sua caratteristica. Punto 1) la μθησις è in quanto “mente concipere” (la mente che con- prende, un pensiero che apprende) un “progetto” che per così dire scavalca le cose in vista del loro esser cosa, il “progetto” apre anzi tutto un libero spazio nel quale le cose cioè i fatti si mostrano (e qui c’è tutto Heidegger, dunque la μθησις, l’insegnamento, la conoscenza stessa è un progetto, questo progetto, tenete conto di come Heidegger intende progetto, scavalca le cose in vista del loro esser cose, è come se trascendesse la cosa in sé, la cosa in quanto tale, ma che cosa fa piuttosto? Dice Heidegger “apre un libero spazio nel quale le cose cioè i fatti si mostrano”, ma si mostrano nel progetto” non fuori dal progetto) Punto 2) in questo progetto è posto ciò in base a cui le cose vengono giudicate e in anticipo valutate per quello che veramente sono e come sono (cioè appartiene a questo progetto ciò in base a cui le cose vengono valutate, vengono considerate, è all’interno di questo progetto dell’Esserci, del Dasein, fuori dal progetto, e torniamo alla cosa ritagliata da tutto ciò che la circonda, fuori dal progetto la cosa è niente, è questo che continua a dire Heidegger.