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20 giugno 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Heidegger individua questi tre concetti: mondo, finitezza, solitudine. Il mondo per Heidegger è importante perché dal mondo procedono anche tutti gli altri. Wittgenstein diceva che il mondo è tutto ciò che accade, la totalità non degli enti ma degli eventi. Il mondo, questa totalità, è ciò in cui ciascuno è immerso. Naturalmente, quando si parla di totalità degli enti o degli eventi, si parla anche della totalità degli enti o degli eventi che sono stati, anche perché in questo momento io sono il prodotto di tutto ciò che ho fatto, pensato, non pensato, in questi lunghissimi anni in cui ho vissuto. Il mondo è tutte queste cose di cui io sono fatto. Su questo Heidegger ha insistito molto: il mondo non è qualcosa che è fuori di me. Questa è una fantasia di Cartesio, pensare che il mondo sia una cosa che sta là e io sto qua, per cui lo guardo, lo osservo. Per Heidegger è completamente diverso, lui ha spostato totalmente la questione: l’essere non è più qualcosa che sta lì fermo a garantire che le cose stiano a loro volta lì, ferme, ma è il mio progetto, progetto che è sempre in atto, sempre in fieri, cioè si sta facendo continuamente. Quindi, il mondo per Heidegger è diverso dal mondo di cui si parla generalmente in ambito filosofico, appunto come la totalità degli enti che stanno lì. Per Heidegger questa totalità degli enti sono io, sono tutte quelle cose che fanno di me quello che sono. Per esempio, se Sandro non fosse posto lì alla mia sinistra, io non sarei quello che sono in questo momento. Tutto ciò che mi accade, e in questo senso si può parlare di eventi, costituisce il mio mondo. Heidegger diceva qui una cosa importante, e cioè che c’è una relazione con tutti questi enti di cui sono fatto in cui compartecipo ininterrottamente, c’è uno “scambio ininterrotto”, diceva: sono con-afferrato da queste cose, che mi prendono. Però, perché io sia preso da queste cose occorre la Stimmung, cioè la tonalità affettiva, l’umore. Perché dice questo? Anche perché uno potrebbe stare in relazione con gli enti stando fuori da ogni sensazione, emozione, tonalità affettiva. Per Heidegger no, c’è sempre una tonalità affettiva, perché ogni cosa, ogni ente, ogni evento che accade mi cambia, mi muta. Se adesso Sandro si alzasse e facesse delle cose, questo in qualche modo mi cambierebbe, se non altro perché lo inviterei a tornare dov’era. Quindi, ogni cosa che accade, ogni evento, mi cambia, mi modifica, è in questo senso sono con-afferrato dalle cose. Freud l’avrebbe detta diversamente: c’è una tonalità affettiva perché sono preso dalle mie fantasie. Ma anche Freud non è giunto a fare il passo successivo: ogni fantasia che interviene mi cambia, mi modifica. Questo è stato il colpo di genio, e non solo questo, di Heidegger: accorgersi che ogni cosa che accade, ogni evento, mi cambia, cambia il modo in cui io sono, il modo in cui mi rapporto alle cose. Per pensare questo ovviamente ha dovuto spazzare via tutto il cartesianesimo, il soggetto qui e l’oggetto là per conto suo. No, il fatto che sia lì comporta già che io ci abbia a che fare, comporta che mi modifichi.

Intervento: Il linguaggio… Parlando mi modifico continuamente.

Esatto. Heidegger non ha approfondito più di tanto la questione del linguaggio, è sempre lì come se dovesse parlarne, però, non esplicita in modo diretto la questione. Ecco, quindi, i concetti fondamentali. Sono quei concetti con cui ciascuno inesorabilmente si confronta, che lo voglia o no, che lo sappia o no. Il mondo è questa cosa di cui io sono fatto, cioè, tutte le cose con cui ho a che fare e che continuamente, avvenendo, mi modificano, mi cambiano. Il mondo è ciò di cui ciascuno è fatto. Fatta questa premessa, vediamo di andare avanti. Siamo a pag. 175, Capitolo Quarto, dove considera la terza forma di noia. La prima era il treno, la seconda la serata, la terza è la noia strutturale, la noia profonda. Il titolo è: La terza forma di noia: la noia profonda come l’uno si annoia. In tedesco c’è l’Es impersonale, che io forse avrei tradotto con “Ci si annoia”, anche perché in italiano rende meglio di “Uno si annoia”. Vogliamo introdurci in un filosofare determinato, che si muova nell’orizzonte di questioni essenziali, vale a dire oggi per noi necessarie. Abbiamo definito il filosofare come interrogare che afferra concettualmente a partire da un essenziale essere-afferrato dell’esser-ci. È essenziale che io sia afferrato da questa cosa per poterla pensare. Sta dicendo, in altri termini, piegandolo un po’, che per potere pensare qualche cosa io devo essere afferrato da questa cosa, cioè, devo accorgermi che questa cosa stessa in un certo senso mi sta interrogando, mi sta mettendo in questione. Ma tale essere-afferrato è possibile soltanto a partire da e in uno stato d’animo fondamentale dell’esser-ci. Sappiamo che lo stato d’animo fondamentale è la noia, ma perché dice che è necessario partire da uno stato d’animo? Perché devo accorgermi che qualcosa mi modifica, quindi, è cambiato il mio stato d’animo, in qualche modo. Questo stato d’animo stesso non può essere uno qualsiasi, bensì deve pervadere il nostro esser-ci nel fondo della sua essenza. Ecco perché la noia è qualcosa che va nel profondo, cioè, ci mette davanti… per esempio, lui ci parlava dell’essere abbandonati, dell’essere vuoti, ci mette di fronte a ciò che accade di fatto parlando; è di questo che si tratta. Un tale stato d’animo fondamentale non può essere constatabile come qualcosa cui ci richiamiamo in quanto sussistente e sul quale ci poniamo come su qualcosa di fisso, bensì deve venir destato, destato nel senso di lasciato-esser-sveglio. È ciò su cui insisteva nelle pagine precedenti: non dobbiamo cacciare la noia, dobbiamo accoglierla come stato d’animo fondamentale, perché soltanto a questa condizione possiamo vedere il problema, problema qui non in senso negativo ma come ciò che è da pensare. Un po’ come se dicessi che soltanto se c’è questa noia siamo in grado di pensare, perché siamo disposti ad accogliere il fatto che ci sia qualche cosa che dà da pensare. Questo stato d’animo emerge solamente se non gli siamo contrari, ma gli diamo spazio e libertà. Gli diamo libertà, se lo accogliamo in modo giusto, lasciando per così dire che sorga e si avvicini a noi, così come ogni attesa autentica (per esempio come il rapporto umano tra due persone) non è un’attesa che si mantiene nella lontananza, bensì una possibilità nella quale l’uno può essere verso l’altro che l’attende, più vicino di quanto non sia qualora si trovi nelle sue immediate vicinanze. È nel senso di questa attesa che uno stato d’animo fondamentale del nostro esser-ci deve avvicinarsi. Non è l’attesa che accada chissà che cosa ma mettersi a disposizione di una possibilità. Per questo abbiamo domandato se per caso l’uomo oggi sia diventato noioso a se stesso, e se una profonda noia sia uno stato d’animo fondamentale dell’esser-ci odierno. La profondità della noia a cui fa riferimento è la profondità stessa dell’essenza della questione, che però, dice, non abbiamo ancora colta. Andiamo a pag. 181 al sottoparagrafo a) L’essere-lasciati-vuoti come esser-consegnato dell’esser-ci all’ente che si nega nella sua totalità. Questo capitoletto è importante perché ci dice che cosa lui intende esattamente con essere lasciati vuoti. C’è un essere consegnato all’ente, da parte dell’esser-ci, ma questo ente si nega nella sua totalità; ecco perché lascia vuoti. È chiaro che l’ente si nega nella sua totalità, non posso cogliere tutti gli enti o l’ente in toto. Certo, il concetto tenta di farlo, il concetto universalizza l’ente e, quindi, lo fa diventare un tutto; però, sappiamo che questa operazione lascia in sospeso tutto ciò che non ho di fronte in questo momento. È una questione che riprendeva Severino: io ho sempre di fronte il particolare, non ho mai di fronte il tutto; il tutto è un’astrazione, non lo vedo mai, non posso possederlo, posso vedere e possedere solo una parte particolare del tutto, solo quella. Per esempio, se io guardo un quadro fisso un punto, poi un altro e dopo ancora un altro, ma la totalità non la posso vedere, non posso coglierla; quindi, qualche cosa si nega e questo, dice Heidegger, mi lascia vuoto. In questo “uno si annoia”, non cerchiamo il venir-colmato di un vuoto determinato, fatto sorgere e reso sussistente da una situazione determinata per mezzo di un ente determinato accessibile in una situazione a sua volta determinata. Quando uno si annoia non è che cerca qualche cosa di specifico, vuole qualcosa ma in genere non sa che cosa vuole. Capita spessissimo, magari uno chiede “cosa vuoi fare?” e l’altro risponde “non lo so!”, cioè, qualunque cosa voglia fare non è mai quella giusta. Non abbiamo fretta di colmare un vuoto determinato che ci deriva da circostanze determinate, come per esempio dall’essere arrivati troppo presto alla stazione. Qui il vuoto non è un restare assente di tale riempimento determinato. Non è che manca qualcosa propriamente. Ma neppure è un formarsi di quel vuoto nel senso del dimenticare il proprio sé autentico, quel lasciarsi-alle-spalle che si accompagna al lasciarsi andare ed è in se stesso un lasciarsi andare a quanto si offre nel momento. Adesso parlerà della terza forma di noia. In questo “uno si annoia” non si trova un tale lasciarsi andare all’te determinato di una situazione a sua volta determinata, eppure in questo “uno si annoia” proprio il vuoto e l’esser-lasciati-vuoti sono chiarissimi e inequivocabili. Ma quale vuoto, dato che qui non cerchiamo di proposito alcun riempimento determinato, dato che in questo esser-lasciati-vuoti non lasciamo neppure alle spalle il nostro proprio sé? La persona è assolutamente presente, chiacchiera, conversa, beve, fuma, ecc. Quale vuoto visto, che non veniamo annoiati da enti determinati, né ci annoiamo in quanto persone determinate? Un vuoto, proprio qui dove non vogliamo nulla di un ente determinato da una situazione casuale. Ma il fatto che proprio qui non vogliamo nulla, dipende dalla noia. Infatti con questo “uno si annoia” non siamo semplicemente dispensati dalla personalità quotidiana, in qualche modo lontani ed estranei ad essa, bensì allo stesso tempo siamo anche sollevati al di sopra della situazione di volta in volta determinata e al di sopra del relativo ente che in essa ci circonda. Sempre in riferimento al secondo caso, quello della cena, sono presente ma è come se fossi sollevato dal mio progetto. È questo che poi alla fine diventa insopportabile. L’intera situazione e noi stessi in quanto questo soggetto individuale sono indifferenti; questa noia impedisce persino che tali cose abbiano per noi valore come qualcosa di particolare e anzi fa sì che tutto valga indifferentemente molto o poco. Che cosa è questo tutto e in che senso è indifferente? Questa noia ci porta indietro proprio al fatto che noi non cerchiamo in primo luogo questo o quell’altro ente, e per noi, in questa situazione determinata; ci porta indietro al punto in tutte le cose ci appaiono fra loro egualmente indifferenti. Come dire che non c’è nessun progetto, perché è il progetto che fa di qualche cosa un qualche cosa che mi interessa. A pag. 186. L’ente nella sua totalità ci è diventato indifferente. Ma non solo: insieme a ciò si mostra anche qualcos’altro, accade l’emergere delle possibilità, che l’esser-ci potrebbe avere ma che proprio in questo annoiarsi giacciono inutilizzate, e in quanto inutilizzate ci piantano in asso. Ecco, qui riassume tutta la questione: accade l’emergere delle possibilità che non cogliamo. Ovviamente, le possibilità sono legate al progetto, ma qui è come se ci avessero abbandonati e, quindi, non abbiamo più nessuna direzione, non sappiamo cosa fare o dove andare. Questo, secondo Heidegger, è il punto centrale della noia. In ogni caso vediamo che nel diniego è insito un rimando a qualcosa d’altro. Questo rimando è l’annuncio delle possibilità che giacciono inutilizzate. Se il vuoto di questa terza forma di noia consiste in questo negarsi dell’ente nella sua totalità, e di conseguenza l’esser-lasciati-vuoti nell’esser-consegnati ad esso, allora, sulla base del rimando che è insito nel diniego, l’esser-lasciati-vuoti ha nondimeno un riferimento strutturato a qualcosa d’altro. Dopo tutte le analisi precedenti possiamo supporre che forse questo dire che è insito nel negare stesso… È l’ente che si nega e si nega perché io non colgo le possibilità. …questo indicare le possibilità che giacciono inutilizzate, è l‘essere–tenuti-in-sospeso che appartiene a questo essere-lasciati-vuoti. Queste possibilità vengono lasciate lì, in sospeso. È in questo senso che vengo tenuto in sospeso: questa possibilità, questo rinvio - una possibilità è un rinvio - è in sospeso, non accade. A pag. 188. Abbiamo definito l’esser-lasciati-vuoti in questa terza forma di noia come esser-consegnati all’ente che si nega nella sua totalità. Questo diniego è n sé – non casualmente, bensì in conformità alla sua essenza di diniego – un annunciare le possibilità dell’esser-ci che giacciono inutilizzate, il quale esser-ci in un tale esser-consegnato si sente situato al centro dell’ente. Quindi, è un annunciare le possibilità dell’essere che giacciono inutilizzate. Questa è la noia: queste possibilità sono lasciate lì. Per esempio, sono a quella cena famosa; una possibilità è quella di proseguire un certo lavoro che stavo facendo, una certa idea che mi era venuta e che volevo proseguire, ma non lo posso fare. Questa possibilità rimane sospesa, come dicevo la volta scorsa, in questa sorta di bolla dove tutto si è fermato, per cui quando arrivo a casa penso che è stata una noia infinita. In tale annunciare le possibilità è insito il richiamo a qualcosa d’altro, alle possibilità in quanto tali, alle possibilità che giacciono inutilizzate in quanto possibilità dell’esserci. Al diniego dunque è associato questo annunciante richiamare a… Diniego: sono gli enti che si negano, perché non li colgo. Eppure, in questo diniego è sottolineato un richiamare a…, un richiamare a qualcosa che io ho tenuto in sospeso. Dobbiamo ora caratterizzare ciò in modo più preciso. Solo così, infatti, porteremo in luce l’esser-tenuti-in-sospeso specifico della terza forma, e precisamente nel suo rapporto con l’esser-lasciati-vuoti. Ora, se questo annunciante richiamare le possibilità dell’esser-ci si accompagna al diniego, il carattere specifico dell’annunciare, e dunque dell’esser-tenuti-in-sospeso che cerchiamo, sarà con-determinato dal carattere specifico del negarsi dell’ente nella sua totalità. È un trovarsi continuamente presi in questo essere richiamati dalle possibilità, che noi per qualche motivo in quel momento non vogliamo cogliere e, quindi, restano lì e ci tengono in sospeso. Non è da questo o da quell’altro ente che veniamo annoiati. Non siamo noi che, di volta in volta, in occasione di questa situazione determinata, ci annoiamo, bensì c’è uno che si annoia. Non ci si nega questo o quell’ente nelle immediate vicinanze di questa situazione determinata, bensì ogni ente che in quella situazione ci circonda, si ritira nell’indifferenza; ma non soltanto ogni ente della situazione in questione in cui casualmente ci troviamo, nella quale uno si annoia, bensì questo annoiarsi spezza la situazione e ci immette pienamente nell’ampio spazio di ciò che di volta in volta è manifesto, lo è stato e potrebbe essere tale nella sua totalità per l’esser-ci in questione nella sua totalità. Questo ente nella sua totalità si nega, e ciò a sua volta non soltanto in un aspetto determinato, a proposito di qualcosa di determinato che noi magari avevamo intenzione di intraprendere con l’ente, ma ciò che si nega è questo ente nella sua totalità nell’ampiezza suddetta, sotto ogni aspetto e a ogni proposito e a ogni riguardo. In tal modo diviene nella sua totalità indifferente. È l’ente nella sua totalità che si nega, non è questa cosa o quell’altra, ma l’ente in quanto problema, in quanto nella sua totalità, che io vado cercando, non lo troverò mai, perché ho sempre a che fare con enti particolari. A quali condizioni, invece, potrei accorgermi di queste possibilità che rimangono in sospeso? Potrei accorgermene nel momento in cui accolgo le possibilità che mi si offrono. Possibilità di che cosa? Non di prendere il bicchiere di brandy, questo posso farlo benissimo, ma di pensare ciò che è da pensare effettivamente per me, cioè qualcosa che riguarda il mio progetto. Dice: In tal modo diviene nella sua totalità indifferente. Ma a chi lo diviene? Non a me in quanto me, non a me con questi determinati propositi, ecc. Dunque all’io privo di nome e di determinazioni? No, ma la sé, il cui nome, la condizione eccetera sono divenuti privi di importanza, sono stati anch’essi inclusi nell’indifferenza. Sta dicendo che è il mio mondo, il mio pensiero, che divengono indifferenti, e che tengo in sospeso in questa totale indifferenza. Se io sospendo questo, cioè metto me nella totale indifferenza, allora tutto diventa indifferente. Eppure il sé, che diviene privo di importanza rispetto a tutto ciò, non perde per questo la sua determinatezza, ma al contrario, questo peculiare impoverimento, che ha inizio con questo “annoiarsi” in riferimento alla nostra persona, porta per la prima volta il sé in tutta la sua nudità di fronte a se stesso come quel sé che ci è, e che ha assunto il proprio esser-ci. A quale scopo? Per esserlo. Non a me in quanto me, bensì all’esser-ci che è in me, si nega l’ente nella sua totalità, quando so di annoiarmi. Questo è importante. Questo sé non è altro che la consapevolezza del proprio progetto. Dice che questo annoiarsi mi porta ad accorgermi, in tutta la sua nudità, di questo me stesso, che è l’esser-ci, cioè, l’esser-ci è posto di fronte a se stesso. Ecco perché per lui la terza forma di noia è quella più importante, perché è quella che mette l’esser-ci di fronte a se stesso, vale a dire, costringe l’esser-ci a pensare se stesso. Come? Accogliendo le possibilità, accogliendo tutte quelle cose che mi questionano, che mi danno da pensare, che mi fanno esistere in quanto progetto. È l’esser-ci in quanto tale che viene colpito dall’ente che si nega nella sua totalità, cioè ciò che fa parte del suo poter-essere in quanto tale, ciò che riguarda la possibilità dell’esser-ci in quanto tale. Ma ciò che riguarda una possibilità in quanto tale, è ciò che la rende possibile, ciò che conferisce ad essa in quanto possibile la possibilità. Qui è un po’ come se riassumesse tutto ciò che stava dicendo. Dice È l’esser-ci in quanto tale che viene colpito dall’ente che si nega nella sua totalità, l’ente si nega nella sua totalità quando non colgo la possibilità, anche perché nella sua totalità non lo posso cogliere. Ma, dice, questo viene a colpire l’esser-ci, non è una considerazione estemporanea, ma colpisce l’esser-ci, la possibilità dell’esser-ci in quanto tale. L’esser-ci è possibilità; in Essere e tempo diceva che è possibilità pura, non è possibilità di questo o di quello, ma è pura possibilità. Ora, se questa possibilità viene da me sospesa, allora sospendo l’esser-ci, ovviamente. Ma ciò non significa che l’ente che si nega nella sua totalità, non annuncia una qualsivoglia possibilità di e stesso… Non dice che non posso fare questa o quest’altra cosa. …non racconta qualcosa su di esse, bensì questo annuncio nel diniego è una chiamata, è quanto autenticamente rende possibile l’esser-ci in me. Questo diniego, questo negarsi dell’ente, dice, è una chiamata. L’ente si nega ma, negandosi, mi chiama. A che cosa? Dice a quanto autenticamente rende possibile l’esser-ci in me, cioè mi chiama a essere presente a me, ai miei pensieri, a essere presente al mio progetto. L’ente, negandosi, mi richiama a questo, dice: “Bada, questo è il tuo progetto, questa è la tua direzione!”. Questa chiamata delle possibilità in quanto tali, che si accompagna al negarsi, non è un indeterminato richiamare a possibilità qualsivoglia e mutevoli dell’esser-ci, bensì è un puro e semplice, inequivocabile richiamare ciò che rende-possibile… Richiamare la possibilità stessa, non questa o quella possibilità, ma la possibilità stessa, cioè, il progetto. …il quale sorregge e guida tutte le possibilità essenziali dell’esser-ci e per il quale tuttavia non abbiamo apparentemente alcun contenuto, cosicché non possiamo dire che cosa esso sia nello stesso modo in cui indichiamo cose sussistenti e le definiamo come questo o quello. Perché è possibilità pura, non è possibilità di fare una certa cosa, è la pura possibilità, e ci sta dicendo che è questa di cui dobbiamo farci carico: accorgerci che siamo pura possibilità. È questo l’esser-ci, è questo che siamo noi: pura possibilità. Vi rendete conto che definire qui l’esser-ci, cioè l’uomo, come pura possibilità, è qualcosa di molto differente dal modo in cui è sempre stato posto dalla metafisica e dalla filosofia in generale, e cioè come qualcosa che è e basta. No, è solo pura e semplice possibilità. Questa singolare mancanza di contenuto… Essendo pura possibilità manca di contenuto, non è possibilità di… …di ciò che rende autenticamente possibile l’esser-ci non ci deve disturbare;… Cosa che invece succede sempre, disturba tantissimo, ciascuno vuole avere a disposizione cosa da maneggiare, da manipolare, da fare ininterrottamente. …il quale fa parte di questo “annoiarsi”, se in generale siamo in grado di lasciar risonare fino in fondo questo stato d’animo “dell’annoiarsi” in tutta la sua ampiezza di oscillazione. Noi dobbiamo accogliere questo stato d’animo dell’annoiarsi in tutta la sua ampiezza, in tutte le sue possibilità, devo accoglierlo come possibilità pura. L’annoiarsi qui sembra approssimarsi al concetto stesso di esser-ci, cioè come possibilità pura. Uno si annoia. Alla piena ampiezza dell’ente che si nega nella sua totalità, ente nel mezzo del quale noi ci troviamo situati, corrisponde l’unico acuirsi dell’essere-tenuti-in-sospeso in direzione di ciò che rende originariamente possibile l’esser-ci nel mezzo dell’ente in tal modo manifesto nella sua totalità. A questo venir-piantati in asso dall’ente che si nega nella sua totalità appartiene al contempo il venir-costretti in questo culmine estremo della possibilizzazione autentica dell’esser-ci in quanto tale. Vale a dire, soltanto quando l’ente si nega nella sua totalità, cioè non possiamo afferrarlo come un tutto, soltanto a questa condizione ci troviamo nella possibilità autentica, perché, torno a dirlo, non è la possibilità di questo o di quello, ma è pura possibilità. Con ciò abbiamo determinato l’essere-tenuti-in-sospeso specifico della terza forma: esser-costretti nella possibilizzazione originaria dell’esser-ci in quanto tale. È ciò che abbiamo appena detto: il mantenersi all’interno di questa possibilizzazione, di questa pura possibilità. Entrambi i momenti, questa completa ampiezza dell’ente che si nega nella sua totalità… L’ente si nega nella sua totalità, quindi, ciò che ho di fronte è soltanto pura possibilità. …e l’unico culmine di ciò che rende possibile l’esser-ci in quanto tale, entrambi insieme, in una loro propria unità, si rivelano come ciò che è in movimento nell’esser-ci quando deve dire che si annoia. Quando l’esser-ci dice che si annoia si trova di fronte a queste cose. Dilatandosi fino ai confini che circondano l’ente nella sua totalità nel modo d’essere dell’acuirsi dell’esser-ci in direzione dell’unicum originario da cui scaturisce il rendere possibile se stesso – questa è la noia, la noia che intendiamo quando uno dice che si annoia. Questo è il terzo tipo di noia, quella con cui è necessario, secondo Heidegger, confrontarsi. Se non ci si confronta con questa noia, non si prende atto di essere pura possibilità. Quindi, trovarsi di fronte a questo vuoto assoluto, se non si fa questo non si è in grado di pensare, cioè, non si è nella disposizione d’animo per pensare. Questo lasciar-vuoti che trascina nell’ampiezza, in uno con l’acuente tenere-in-sospeso, è la modalità originaria del disporre dello stato d’animo che chiamiamo noia. Questo stato d’animo è quello necessario per pensare, cioè, farsi carico di questo vuoto, di questo nulla, come lo ha chiamato in Essere e tempo, che è il rivenire dell’esserci a se stesso. L’esserci, rivenendo a se stesso, che cosa trova? Il nulla, diceva lui, perché non trova altro che una pura possibilità, un vuoto di possibilità, un vuoto perché è pura e semplice possibilità. Siamo a pag. 194. Uno si annoia. Ciò implica l’esser-lasciati-vuoti ed esser consegnati all’ente che si nega nella sua totalità. Negandosi nella sua totalità si mostra come pura e semplice possibilità. Ma l’ente non c’è, si è negato, quindi, possibilità di che? Possibilità pura. Secondo tale disposizione, l’esser-ci non è in grado di strappare in alcun modo qualcosa all’ente nella sua totalità. Vuole strapparlo. Vedete che c’è già la volontà di potenza, l’impeto di afferrare, di cogliere, di manipolare, di possedere. L’ente nella sua totalità si sottrae, ma non come se l’esser-ci fosse lasciato solo. L’ente nella sua totalità si sottrae, ciò vuol dire: l’esser-ci esiste nel mezzo dell’ente nella sua totalità, lo ha intorno, sopra e dentro di sé, ma non si può piegare a questo sottrarsi. È completamente circondato dagli enti; tuttavia, l’ente nella sua totalità non c’è, si nega, e si nega perché mi trovo di fronte alla pura possibilità. Negandosi, cosa mi resta? La pura possibilità, l’ente diventa pura possibilità. Non può: lo stato d’animo dispone in modo tale che l’esser-ci in tal modo disposto non se la sente più di aspettarsi una qualunque cosa, sotto un qualunque aspetto, dall’ente nella sua totalità, perché nell’ente non c’è più nulla che attiri a sé. In questo stato d’animo, la noia profonda, non c’è più nulla dell’ente che interessi. … Dunque ciò che mantiene manifesto l’ente nella sua totalità e lo rende in generale accessibile in quanto, l’orizzonte temporale, proprio questo, deve al tempo stesso vincolare a sé l’esser-ci, incantarlo-e-incatenarlo. Ci sta dicendo che ciò che mantiene manifesto l’ente nella sua totalità, che lo mostra anche se non possiamo afferrarlo – un concetto universale, ad esempio, non possiamo afferrarlo ma possiamo dirlo, utilizzarlo – è l’orizzonte temporale, vale a dire, la situazione in cui questo accade. Ciò che rende manifesto l’ente nella sua totalità, vale a dire, ciò che cerchiamo, l’ente che vogliamo avere, ce lo rende disponibile la temporalità, cioè la situazione in quanto avviene, il mondo in cui questo accade. La temporalità: questa cosa accade qui, in questo momento; tutto ciò che accade in questo momento contribuisce a fare emergere, apparire, manifestare l’ente nella sua totalità. Il tempo incanta-e-incatena l’esser-ci, ma non come tempo che si è fermato nel suo differire dallo scorrere, bensì il tempo al di là di tale scorrere e del suo fermarsi, il tempo che è sempre l’esser-ci stesso ella sua totalità. Che il tempo fosse l’essere questo l’aveva già detto in Essere e tempo. Si trova di fronte non al tempo che si è fermato, che scorre, ecc., ma al tempo come ciò che è la totalità del mondo in cui io mi trovo. Quando parlo di totalità dell’ente posso anche parlare del mondo che i circonda, anche se è la totalità degli enti che non posso cogliere, ma in quel momento il mondo è la totalità, incanta e incatena l’esser-ci. Lo incanta in quanto il tempo è l’unica con cui l’esser-ci ha a che fare, cioè il momento in cui si manifesta, in cui accade; allo stesso temo, lo incatena, cioè lo vincola questo momento, cioè, non possiamo prendere questa cosa e metterla in un altro momento, avviene in quel momento, è tutto in quel momento. Incantato-e-incatenato dal tempo, l’esser-ci non può trovare le vie verso l’ente, il quale proprio in questo orizzonte del tempo che incanta-e-incatena, si mostra nella sua totalità come l’ente che si nega. In questo momento - temporalizziamo la cosa - come mi si mostra l’ente nella sua totalità? Come l’ente che si nega. Questo lo aveva colto bene Severino: la totalità è un’astrazione, io ho soltanto un ente immanente, qui davanti. Quindi, l’ente nella sua totalità mi si mostra come l’ente che si nega, si mostra negandosi. A pag. 191. Uno si annoia. Incantato-e-incatenato, eppure abituato a conoscere e a prendersi cura appunto di enti, e cioè sempre di questo e di quello, laddove l’ente si nega nella sua totalità, l’esser-ci non trova nulla che gli possa “spiegare” questo incanto-e-incatenamento. Da ciò ha origine l’enigmaticità e l’ascosità del potere che ci avvolge in questo “annoiarsi”. Infatti in questo stato d’animo non siamo soliti filosofare sulla noia, bensì – ci annoiamo. Noi lasciamo piuttosto a questo incanto-e-incatenamento il suo potere. Dice che l’esser-ci, incantato e incatenato da questo esser-ci temporalizzato, cioè dal momento, dal tempo, non si rende conto di quello che sta succedendo e, quindi, attribuisce questo al mistero, all’enigma, ecc. Viene dunque alla luce che l’esser-lasciati-vuoti è possibile solamente come incantati-e-incatenati dall’orizzonte temporale in quanto tale, e che in ciò l’ente proprio in virtù dell’essere incantati-e-incatenati può rifiutarsi e negarsi. Tutte cose che accadono per il semplice fatto che l’essere è tempo, che l’esser-ci è la temporalità in cui viviamo in questo momento. È questo che ci mostra l’ente nella sua totalità ma, nel momento in cui ce lo mostra, ce lo nega, perché è limitato nel tempo, è in questo momento e non per sempre. Ciò che in questo stato d’animo incanta-e-incatena non è il punto temporale determinato in cui sorge la noia in questione: questo determinato “ora” infatti scompare d’un colpo e il segno di ciò è che noi non ci preoccupiamo affatto dell’orologio e simili. Quando siamo annoiati in questa noia profonda, del tempo cronologico, quello dell’orologio, non ci curiamo minimamente, siamo presi da tutt’altro, siamo presi dal fatto che l’ente ci si manifesta in quanto negato. Ma ciò che incanta-e-incatena non è neppure un “ora” dilatato, come per esempio lo spazio di tempo durante il quale questa noia perdura. Essa non ha affatto bisogno di un tale spazio di tempo, può coglierci fulminea come un istante, eppure proprio in questo istante c’è l’intera ampiezza dell’intero tempo dell’esser-ci… Quindi, non è per nulla articolata e delimitata in direzione del passato o del futuro. C’è una bella questione che poi affronterà più avanti, nel momento in cui affronterà la questione del mondo. Ne prende in considerazione tre aspetti da cui vuole partire. Considera, sì, il mondo, però, nel mondo ci sono cose per cui non c’è il mondo, e allora fa l’esempio della pietra, dell’animale e dell’uomo: la pietra è ciò che è senza mondo; l’animale, secondo Heidegger, sarebbe povero di mondo; l’uomo, come colui che è costruttore del mondo. Qui c’è una questione interessante intorno all’animale. L’animale, secondo Heidegger e non solo, è colui che non ha linguaggio, cioè non può mettere una distanza fra sé e la cosa, non c’è soggetto e oggetto. Qui ci sarebbero da aggiungere altre cose, perché soggetto e oggetto appaiono necessari al funzionamento del linguaggio. Ma questo è un altro discorso ancora. Dunque, l’animale non può porre questa distanza, non può cogliere la cosa come altro da sé, perché non c’è linguaggio e, quindi, non c’è l’oggetto. È il linguaggio che inaugura la distanza, distanza fra un segno e un altro segno, tra ciò che dico e ciò che voglio dire, tra ciò che sono e ciò che non sono. Quindi, l’animale è tutt’uno con la cosa. Infatti, Heidegger dice che l’animale non ha mondo, ha un ambiente. Non c’è un mondo da cui è preso, ha un ambiente, ma lui è questo ambiente. Lo diceva anche Sini parlando del leone: il leone non è nella savana, lui “è” la savana, lui è tutte queste cose, perché non ha la possibilità di accorgersi di questa distanza: gli umani, in generale, si comportano come gli animali? Vale a dire, non tengono conto di questa distanza, che è quella che consentirebbe di incominciare a pensare alle cose, ma sono immersi nelle cose, proprio come l’animale che vive nel suo ambiente, che è quell’ambiente, ed è quell’ambiente perché non può accorgersi di quella distanza che c’è fra lui e le cose. Distanza che solo il linguaggio può instaurare. Perché ci sia effettivamente questa distanza, occorre rendersene conto, sennò è come se si fosse quello stesso ambiente, senza accorgersi di nulla. Solo il linguaggio può produrre questa distanza, però se non lo so, se non ho la possibilità di pensarlo, vivo come se questa distanza non ci fosse, vivo nell’ambiente, sono questo ambiente. Per il momento è solo un abbozzo, è da pensare ancora, però, è una questione interessante e da proseguire.