20 maggio 2020
Scienza della logica di G. W. F. Hegel
La questione del fondamento è importante, il fondamento come la ragion d’essere. Il principio di ragione, così lo chiamava Leibniz, è ciò che appunto dà ragione del perché si dice quello che si dice. Il fondamento è stato cercato da sempre dagli umani come quell’elemento che dovrebbe garantire della verità di ciò che si afferma. Come sapete, la ricerca del fondamento è sempre stata una ricerca vana, nel senso che si è sempre cercato – ed è questo che ha vanificato necessariamente ogni tentativo – di trovare il fondamento all’interno della cosa stessa. Facendo questo si incontrano paradossi. Questo problema del fondamento è ciò che poi ha condotto agli inizi del secolo scorso a quel momento particolare noto come crisi dei fondamenti. Il progetto di Hilbert era quello di assiomatizzare la matematica. Dopo averlo fatto con la geometria ha tentato di farlo con la matematica, ma è intervenuto Gödel a rendere la cosa impossibile. Ha mostrato, in effetti, la validità del paradosso di Epimenide: “Tutti i cretesi mentono”; il problema è che anche lui era cretese. Questa crisi dei fondamenti è incominciata, sì, con la matematica, ma poi a macchia d’olio si è estesa ovunque, e allora si è abbandonata l’idea di trovare un fondamento, qualcosa di certo, di stabile. Uno degli effetti è stato quello di avvicinare tutto il pensiero scientifico alla retorica. Uno dei fautori di questo avvicinamento fu Feyerabend. Quale teoria scientifica vince? Quella vera? No, vince quella che è più persuasiva, più convincente, quella che riesce a persuadere di più le persone. Questa è quella vincente. Tutto questo ci conduce a una questione che invece Hegel affronta in un altro modo. Dicevo che è impossibile trovare un fondamento in una struttura come quella matematica senza uscire da quella struttura; se esco dalla struttura siamo daccapo: c’è un elemento che fonda il tutto, e quest’altro elemento? E tutto ricomincia. E, allora, occorrerebbe trovarlo all’interno della struttura, che è quello che fa Hegel. Lui naturalmente si accorge dell’impossibilità di trovare un fondamento e del problema di trovare un qualche cosa che si fondi da sé, che cioè abbia all’interno di sé il proprio fondamento. Era questa la difficoltà. Hegel la affronta in modo interessante. Come sappiamo, Hegel non parla praticamente mai del linguaggio, non era nei suoi interessi, però ciò che articola, ciò che esplora non è altro che il modo in cui funziona, ed è questo il motivo per cui ci interessa. Dunque, che cosa ha in se stesso il proprio fondamento? Il linguaggio, che non ha bisogno di elementi esterni a sé. È questo che a un certo punto intende Hegel quando parla del fondamento, e riconduce il fondamento al movimento stesso del linguaggio. Cioè: tolta la possibilità, che è fallimentare di trovare un elemento esterno, allora vediamo che cosa c’è all’interno che possa funzionare da fondamento, da ragione. L’unica cosa che può funzionare – cosa che lui aveva già rilevato nella Fenomenologia – è questo movimento. Movimento che noi abbiamo ricondotto in modo più semplice, attraverso la linguistica e in parte la semiotica, al movimento della parola, al movimento tra il dire e il detto o, per dirla alla de Saussure, tra il significante e il significato. Questi sono in continuo movimento nel senso che il significante da sé, senza il significato, è niente. Il significante, participio presente del verbo significare, deve pur significare qualcosa; se non c’è un significato non è un significante e, quindi, è niente; quindi, ha bisogno del significato. Questo significato è l’infinito, mentre il significante è il finito, è qualcosa di immanente, di determinato: se io dico pane dico pane, non dico un’altra cosa. Ma quando incappo nel significato, che è quella cosa che rende “pane” un significante, mi trovo di fronte a un infinito, a una dispersione infinita di termini, di elementi, per cui teoricamente potrei non fermarmi mai. Ora, dice Hegel, ed è questo il concetto di riflessione, che questo significato, nel momento in cui fornisce al significante la sua ragion d’essere, è come se tornasse sul significante e a questo punto il significato scompare, dilegua, non c’è più. In effetti, ciò che rimane è il significante, che è lui che a questo punto significa. La questione della riflessione è importante in Hegel, perché da prima pone un passare di un elemento al suo opposto, al suo contrapposto (l’essere e il nulla); poi, considera che, anziché separati questi due elementi, in realtà sono lo stesso, perché l’essere senza il non essere non c’è, e viceversa. Quindi, sono la stessa cosa, sono due momenti dello stesso. Quindi, la riflessione non è altro che – il termine usato da Hegel è Aufhebung – l’integrare dell’opposto nel primo elemento. E, allora, tornando al significante e al significato, il significato viene integrato nel significante, che solo da quel momento diventa significante. È chiaro che non c’è un prima e un dopo, è un’operazione simultanea. Hegel lo dice quando parla del tempo: il tempo non è altro che simultaneità, perché se parlo del passato ne parlo adesso, se parlo del futuro ne parlo comunque adesso, se parlo del presente questo è già passato; che cosa mi rimane in realtà? Mi rimane una simultaneità. Questi elementi sono tutti simultanei, in questo istante in cui parlo. La riflessione è uno degli elementi cardini del pensiero di Hegel, perché in questa riflessione, dove un elemento è quello che è a condizione di non essere quello che è, cioè di avere in sé anche il suo contrario, è ciò che lui pone come fondamento; perché è la parola che funziona così, cioè, dicendo qualche cosa ciò che dico è altro, per esempio, rispetto a ciò che volevo dire. Se io devo descrivere un qualche cosa, per dire che cosa questa cosa è, dovrò dire ciò che quella cosa, di fatto, non è, perché tutto ciò che dirò non sarà comunque mai questa cosa, sarà altro, e così via all’infinito. È questo che trova Hegel; è come se avesse, in effetti, trovato, senza cercarlo perché non era nelle sue intenzioni, come funziona la parola, cosa accade parlando. Questo movimento, potremmo dire a questo punto, tra significante e significato, è continuo e necessario, dove il significato scompare, non c’è mentre parlo, mentre parlo ci sono significanti e non significati. Potremmo dire che il significato è il trascendente, mentre il significante è l’immanente, è ciò che c’è qui e adesso. Dicevo l’ultima volta, facendo un accostamento con Hjelmslev che distingueva nel segno, anziché significante e significato, l’espressione e il contenuto, individuando in ciascuno dei due una forma e una materia. Per esempio, la parola pane ha una forma, che è la forma che ha la parola, la forma sintattica, la sua morfologia, e ha una materia, composta dai singoli fonemi di cui è fatta questa parola. Questa divisione tra significante e significato, tra espressione e contenuto, è sempre presente nella linguistica e nella semiotica, ma non tiene conto, in effetti, della cosa importante, forse una delle più importanti che pone Hegel quando ci dice che questi due elementi sono lo stesso e che non c’è l’uno senza l’altro: ciascuno dei due è la condizione dell’altro. Quindi, porre come fondamento il movimento è come dire che l’unico fondamento, l’unica ragione d’essere del linguaggio è il fatto che si parla, si dice, non c’è un altro fondamento. In effetti, nessuno prima di lui aveva posta una questione del genere perché si era sempre cercato il fondamento da qualche altra parte, non trovandolo, ovviamente. Quindi, l’unica cosa che possiamo porre a fondamento è l’atto di parola, l’unica cosa sulla quale possiamo fondarci, ammesso che dobbiamo farlo. Perché si cerca il fondamento? A che scopo? Potremmo dire: per continuare a parlare. In un certo senso è vero, perché se non posso concludere con un’affermazione vera non posso utilizzare quell’affermazione per proseguire. Ma perché non posso continuare? Qui interviene Nietzsche, naturalmente. Si cerca il fondamento, direbbe Nietzsche, per volontà di potenza, per dominare. C’è un altro motivo? Sì, certo, se ne possono trovare quanti se ne vuole, ma ciascuno è riconducibile alla volontà di potenza. La volontà di potenza è quella cosa che ha fatto cercare agli umani il fondamento, la ragione d’essere. La ragione: io ho ragione perché conosco il fondamento, e se io ho ragione tu dovrai fare come dico io. Ciò che a noi interessa di più è porre le condizioni per potere tenere conto di tutto questo, tenere conto cioè del fatto che ogni volta che dico qualche cosa, questo qualche cosa è altro rispetto a ciò che, per esempio, volevo che fosse. Il fondamento, la ragione d’essere, è quel tentativo di aggrapparsi a qualcosa di necessario. Hegel giunge a considerare che il fondamento è tutt’uno con il fondato – se è fondamento è fondamento di qualche cosa, questo qualcosa di cui è fondamento è il fondato – e giungerà a dire che questo fondamento è infondato. Perché? Qui è sottile la questione che pone Hegel, perché il fondamento è tale soltanto in questa relazione tra il fondamento e il fondato. Anche il fondamento è preso in un movimento dove ciò che importa è la relazione stessa. È in questa relazione che sia il fondamento che il fondato scompaiono. Faccio l‘esempio che ho fatto altre volte: nella relazione A e B, riprendendo Peirce, questi due elementi esistono nella relazione; una volta che c’è la relazione A e B scompaiono; sono necessari, sono posti, ma, come dice Hegel, sono posti in quanto tolti; si tolgono e ciò che rimane è la relazione, non ci sono più i due elementi. Questi due elementi sono certamente necessari, ma una volta posti in relazione – occorrerebbe aggiungere che non possono non essere in relazione – questi elementi dileguano e rimane la relazione. Questa relazione è ciò che Hegel, nelle pagine successive, chiamerà esistenza, e cioè le cose esistono in quanto sono relazioni, sennò non sarebbero mai esistite. Sono relazioni, cioè, sono nella parola, perché è la parola che è relazione, relazione tra il dire e il detto. Questa distanza, che si instaura quando si incomincia a parlare è fondamentale, ed esiste soltanto nel linguaggio. Questa distanza è ciò per cui le cose incominciano a esistere, sennò non esistono. Io sono quelle cose; per il leone che corre nella savana non c’è per lui la savana, lui è tutte quelle cose, non è un’altra cosa, ammesso che si faccia questa domanda, che non può farsi, naturalmente. Siamo soltanto noi, attraverso il linguaggio, che instauriamo una distanza tra noi e qualcosa. Il fatto è che questo qualcosa è parola. Il primo qualcosa con cui ciascuno ha a che fare è la parola, è la parola che incomincia a fare esistere le cose, che inaugura questa distanza per cui ci sono io e la cosa. Finché non c’è questo non c’è nessuna possibilità di pensare alcunché. Ho parlato di distanza ma, di fatto, non è che una relazione tra il significante e il significato, tra il dire e il detto. Senza questa distanza le cose non sarebbero mai esistite perché non ci sarebbe stato quel momento in cui io sono qui e la cosa è lì, immaginariamente, naturalmente. Questo movimento della parola è poi la condizione per potere pensare qualunque movimento, anche quello della mia mano in questo istante. Questa è l’importanza del lavoro che ha fatto Hegel. Lui ha detto che c’è questa distanza e che è fondamentale, perché senza questa distanza non c’è niente, anzi, non ci sarebbe mai stato niente. La distanza è ciò che ha consentito agli umani di pensare di avere delle cose da guardare, perché finché non c’è questa distanza non c’è niente da guardare, e quindi è incominciata quella che comunemente si chiama scienza, a partire dal conoscere, elaborare, ecc. Senza questa distanza tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere. Da qui l’importanza che ha il linguaggio e, oltre a questo, il fatto che gli umani sono questa cosa, il linguaggio, non sono altro che questo; questo continuo dire cose che si rilanciano, che si trasformano, che mutano. Il motivo per cui gli umani fanno tutte queste cose, ammesso che ce ne sia uno, è che ciò che si dice, per poterlo dire, deve affermarsi, cioè, deve letteralmente fermarsi, deve essere così, perché, come dicevo prima, soltanto se so che qualcosa è così posso utilizzare questo qualcosa come un utilizzabile, come qualcosa che mi consente di costruirci sopra altre cose, cioè altri discorsi, altre fantasie. La volontà di potenza si riconduce a questo, alla necessità di affermare qualcosa; non posso parlare senza affermare qualcosa continuamente. Qui sta la volontà di potenza, essenzialmente: nel volere che ciò che dico sia quello che dico. Come lo so che è quello che dico? Non lo so, naturalmente, ma glielo impongo. In questo Hilbert non aveva torto dicendo che la matematica è un gioco: perché due più due fanno quattro? Per lo stesso motivo per cui, giocando a poker, due re battono due jack. Il motivo è lo stesso, poi è chiaro che la matematica è un gioco più complesso del poker. Le cose sono così a condizione che io imponga alle cose di essere quello che io voglio che siano; è l’unico modo per pensare che siano quello che sono: imporglielo. Quando parlo, affermando delle cose, qualunque esse siano, compio questa operazione: impongo alle cose di essere quella cosa lì; provvisoriamente, come volete, però, in quel momento, mentre lo dico glielo impongo, perché io non so e non ho nessun modo di sapere se le cose sono veramente così. Certo, posso verificarlo: adesso sono le 21,25. Bene, ma che cosa ho fatto esattamente? Ho eseguito un gioco, con le sue regole, non ho fatto niente di più di questo. È esattamente ciò che diceva Wittgenstein quando parlava della dimostrazione: quando ho fatto la mia dimostrazione, che cosa ho fatto esattamente? Ho fatto una serie di passaggi, si spera coerenti tra loro, e sono giunto a una conclusione che in quel caso era un teorema. L’unica cosa che posso dire è che sono stato bravo a eseguire quel gioco. Posso dire altro? No, nient’altro che questo. Questa considerazione è una fra le tante che hanno contribuito alla crisi dei fondamenti. Ma ciò che impedisce di vedere ciò che Hegel e Nietzsche, anche se quest’ultimo in modo diverso, hanno detto per migliaia e migliaia di pagine è la volontà di potenza, e l’impossibilità di rinunciare alla volontà di potenza, all’idea di potere dominare le cose, come se, e in effetti viene da pensare questo, il dominare le cose sia la sola cosa da cui gli umani traggono soddisfazione. Se gli si leva loro la soddisfazione diventa un problema; se non c’è più nulla che dia soddisfazione, in teoria non c’è più nessun motivo per continuare a parlare. Come ho detto in altre occasioni, l’unico motivo per cui si continua a parlare è la volontà di potenza. Se, per assurdo, dovesse cessare la volontà di potenza, perché dovremmo parlare? A che scopo? Per trasmetterci informazioni? E che ce ne facciamo? Per sopravvivere? Perché? A questo punto non c’è più effettivamente nulla. Ovviamente, è un discorso per assurdo, non c’è nessuna possibilità che si verifichi una cosa del genere, ma giusto per mostrare quanto incida, quanto sia pesante la volontà di potenza presso gli umani. La volontà di potenza non è altro che la struttura del linguaggio, non si può evitare di metterla in atto, si può soltanto accorgersi di ciò che si sta facendo, non è possibile fare nient’altro. Qualunque cosa si affermi non si esce dalla volontà di potenza, non si esce dalla necessità di imporre qualcosa, nel momento in cui dico non si esce dall’idea che ciò che sto dicendo sia proprio quella cosa lì e non il suo contrario. Mentre Hegel ci dice, certo, è quella cosa che lì che stai dicendo ma è anche il suo contrario. Quindi, a questo punto che se ne fa l’umano del pensiero di Hegel se gli toglie da sotto i piedi la volontà di potenza? Perché se le cose stanno così, a condizione che siano il loro contrario, come le domino? Come impongo il potere su di loro o sulle persone? In genere l’avere potere sulle persone è la cosa che dà più soddisfazione. Come si esercita soprattutto il potere su una persona? Vietandogli di fare cose, è così che si mette in atto il potere, non si mette in atto regalandogli cose, ma vietandogli di fare cose, cose che vuole fare evidentemente. Al di là di questo, ciò che rimane è che ciascuna volta in cui parlo, e senza saperlo il più delle volte, ciò che dico e che affermo può essere affermato perché ha una condizione, che è quella di non essere ciò che io penso o credo o voglio che sia. È quello che io voglio che sia, ma non solo, è anche il suo contrario. Che anche sia necessariamente il suo contrario, questo lo aveva indicato anche Severino in quella formulazione rispetto all’essere e al non essere: se metto solo l’essere, questo essere è essere di cosa? Posso metterlo in discussione, in dubbio. Ma se aggiungo il non essere all’essere e poi lo tolgo, allora mi rimane l’essere che diventa il non-non essere. Solo a questa condizione, diceva Severino, l’essere diventa l’incontrovertibile, perché ho tolto il suo contrario, ma per poterlo togliere devo prima porlo, deve esserci. A Severino è però in parte sfuggito che una volta fatta questa opera l’essere non è più quello di prima. È questo che aveva inteso Hegel, per via della riflessione, cioè, l’essere si è riflettuto su se stesso, quella cosa che Hegel chiama essenza: l’essere che riflette se stesso. Faccio un esempio molto banale: immaginate una fanciulla che si guarda allo specchio. Ora, lei vede lo specchio, ma lo specchio non è lei, sono due cose diverse, e questa è la prima negazione perché io non sono lo specchio. Tuttavia, questa immagine che riflette ha una conseguenza sulla fanciulla perché se si alza la mattina e si vede bella, la giornata sarà radiosa, se invece si vede brutta, sarà una pessima giornata. Questo per dire che questa riflessione modifica anche ciò che si sta riflettendo. Questa riflessione su di sé è ciò che Hegel indicava come la seconda negazione, perché questa immagine viene tolta, non c’è più, rimane la fanciulla che pensa di sé di essere bella o brutta, a seconda dei casi. In questo caso si è modificata, così come l’essere di Severino si modifica se pongo il non essere e lo tolgo. Una volta che l’ho posto c’è, e su questo Hegel non transige, come tolto, ma c’è, viene integrato nell’elemento stesso e, quindi, non è più quello di prima.
Intervento: Neuroni a specchio…
Hegel si discosta da una cosa del genere, anche perché allora non si parlava di queste cose. Ma qui si pone una questione interessante perché si torna alla questione del fondamento, della ragione d’essere. Il problema che aveva sollevato Hegel era quello di trovare il fondamento all’interno della struttura stessa, perché se trovo qualche altra cosa al di fuori, poi questa cosa deve provare di sé di essere quella che io dico che sia, innescando un percorso all’infinito. Quindi, tutto ciò Hegel lo va cercando, potremmo dire, all’interno della parola, cioè nell’unica cosa di cui disponiamo. È grazie alla parola che si sono inventate tutte le cose, compresi i neuroni a specchio, cose che non sarebbero mai esistite, ammesso che esistano. Trovare, dunque, il fondamento all’interno della struttura stessa. Solo che facendo questa operazione all’interno della struttura stessa si incontra un paradosso, come Epimenide insegna. E, allora, ecco l’idea geniale di Hegel: certo, c’è la contraddizione, ma si toglie, così come tra l’essere e il non essere, si toglie, e cosa rimane? Rimane qualche cosa che non è più quello di prima perché ha integrato in sé il suo opposto, il suo negativo. Questo è il processo che si attua parlando, non è un processo ideale. È un processo che avviene ciascuna volta che si apre bocca. Tutto ciò che dico rivela, intanto di essere totalmente infondato, non può avere un fondamento. Lo stesso fondamento, dice a un certo punto Hegel, è infondato perché diventa altro da sé nel momento in cui si integra con il suo opposto, cioè con il fondato, che è qualcosa che il fondamento non è, e quindi è ciò che è ma anche ciò che non è. Questo fondamento, dicevo, non poteva essere trovato che all’interno del sistema, ma il fondamento all’interno del sistema comporta una contraddizione. Hegel toglie la contraddizione dicendo che questa contraddizione si integra con lo stesso elemento, il quale diventa altro, non è più quello di prima. Già parlava, ve lo ricordate, nelle prime pagine della Fenomenologia dello spirito dell’in sé e del per sé. L’in sé, cioè l’immediato, è quello che è perché diventa un per sé, perché trova un significato, ma soltanto a quel punto, tornando su di sé, l’in sé è veramente il Sé, direbbe Hegel. Questa è un’altra questione interessante, e cioè che è impossibile, Hegel lo dice ovunque, reperire il punto di partenza se non a posteriori. Solo dopo esiste il punto di partenza perché soltanto l’intero processo può mostrare il punto di partenza, che non esiste finché non c’è l’intero, cioè, finché non c’è il linguaggio. È questo che cercavano in tanti quando cercavano l’origine del linguaggio: non la si trova nel senso che quando mi pongo questo problema, cioè di trovare l’origine del linguaggio, sono ovviamente già nel linguaggio, e allora posso solo fare delle ipotesi, che posso anche prendere per buone, ma questo dipende da me. Tutta la Fenomenologia dello spirito, la sua architettura è stata fatta così appositamente: soltanto alla fine si intende che cosa voleva dire all’inizio, solo alla fine, cioè, quando ha spiegato di fatto che l’incominciamento, il punto di partenza, incomincia a esistere quando c’è il tutto, l’intero, il linguaggio; solo allora c’è il punto di inizio. Per molti questo potrebbe costituire un problema perché toglie la linearità del percorso, percorso trasformato in una sorta di circolo, in parte ermeneutico. Ma più che circolo a questo punto dovremmo dire che è una spirale, in quanto ciascuna volta che ritorna, questo ritorno non è esattamente ciò che era prima, c’è uno spostamento, uno sfasamento. Le pagine in cui dice queste ultime cose sono qui, a pag. 525, La condizione. Dice che il fondamento deve avere una condizione. Quale condizione? La condizione, dice, è un presupposto. Questo è interessante: che il fondamento abbia una condizione lo presuppongo. Il fondamento è l’immediato, e il fondato è il mediato. L’immediato per Hegel è la coscienza immediata, ciò che è immediatamente presente. Ma il fondamento è riflessione che pone… È una riflessione su di sé che pone. Ciascuna volta che c’è una riflessione si pone qualcosa che non c’era prima. …e come tale fa di sé un esser posto, ed è riflessione che presuppone; così si riferisce a sé come a un tolto,… È chiaro che il fondamento si riferisce a sé come a un tolto, perché riferendosi a sé compie questa operazione per cui il fondamento non è più quello di prima, c’è un’operazione in più per cui è come un tolto, cioè non è più quello di prima, che è identico a sé. …per cui è esso stesso mediato. Questa mediazione, come progresso dall’immediato al fondamento, non è una riflessione esterna… Cioè, qualcosa che viene dal di fuori. …ma è, come si è veduto, la propria attività del fondamento, ossia, che è lo stesso, la relazione fondamentale è, come riflessione nell’identità con sé, altrettanto essenzialmente una riflessione che si estrinseca. Dice che c’è questa riflessione in sé, che è la relazione fondamentale, mettendo in atto questa riflessione in sé non ha bisogno di qualcosa di estrinseco; è un processo che avviene all’interno, diciamo, della struttura. L’immediato, cui il fondamento si riferisce come alla sua presupposizione essenziale… Se parlo di un fondamento presuppongo che questo fondamento si riferisca a qualcosa. L’immediato, cui il fondamento si riferisce come alla sua presupposizione essenziale, è la condizione. Quindi, la condizione è una presupposizione. Questa è una questione interessante perché incomincia a dirci come si impara a parlare. Si impara a parlare attraverso supposizioni: presuppongo che quello che dico abbia un fondamento, presuppongo che le cose stiano così, presuppongo di sapere per bene tutto quanto: è sempre una presupposizione. Questa presupposizione, ci sta dicendo in modo interessante, è la condizione del fondamento. Husserl diceva che la condizione di ogni cosa è quella che lui chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, il ciò che facciamo tutti i giorni, le nostre paure, le nostre presupposizioni, tutte le cose in cui crediamo. Tutte queste cose sono le cose da cui muoviamo, da cui cominciamo e che permangono, naturalmente. Come si può notare facilmente, queste presupposizioni permangono in tutto ciò che segue, che sia qualunque cosa, dalla lista della spesa alla teoria della relatività generale. Il fondamento reale è quindi essenzialmente condizionato. Da che? Da una presupposizione. La determinatezza, ch’esso contiene, è l’esser altro di lui stesso. Perché questa determinatezza, di cui è fatto il fondamento – ché se è fondamento è qualcosa, se è qualcosa è determinato – è l’esser altro di lui stesso, perché si è riflesso in se stesso per potere fare queste cose. A pag. 527. La condizione è l’essere in sé del fondamento… Ciò che il fondamento di fatto è. …essa è a tal punto un momento essenziale della relazione del fondamento, che è la semplice identità di questo con sé. L’identità del fondamento con sé. Qui bisogna intendere, Hegel parla di identità del fondamento ma dicendoci che il fondamento è lui ma anche altro, per cui è un’identità sempre presupposta. A pag. 529. In egual maniera nel fondamento condizionato l’essere in sé non è soltanto come apparire di un altro in lui. Questo è il fondamento, cioè, l’apparire di un altro in sé. Prima parlava di identità del fondamento, per cui vedete che è un’identità particolare. Quel fondamento è l’indipendente riflessione del porre, ossia cotesta riflessione come riferentesi a se stessa, epperò l’identico con sé… Qui ci sono sempre questi due elementi che intervengono, apparentemente complessi in Hegel, ma si intendono molto semplicemente se consideriamo che quando dico una parola qualunque, ad es. pane, questa parola deve essere identica con sé, deve essere quella che è, perché ho detto quella e non un’altra, ma al tempo stesso non è identica a sé, perché per significare quello che significa, cioè per essere sé, occorre che sia altro da sé, in questo caso altre parole. Ma in pari tempo è riflessione che presuppone; si riferisce negativamente a se stesso, e si pone di contro il suo essere in sé come altro da lui, e la condizione così secondo il suo momento dell’essere in sé come secondo quello dell’immediato esserci è il momento proprio della relazione fondamentale;… La relazione che si instaura tra il fondamento e il suo riferirsi a sé. …l’immediato esserci è essenzialmente solo mediante il suo fondamento, ed è il suo momento come presupporre. Quello è quindi parimenti l’intiero stesso. Ci sta dicendo che l’immediato esserci è essenzialmente solo mediante il suo fondamento, ma questo fondamento è altro da sé. È per questo che l’immediato esserci non può che essere una presupposizione. La presuppongo, certo, faccio come se esistesse, come fa il linguaggio continuamente: presuppone continuamente che esistano cose di cui non può dimostrare assolutamente niente, ma le presuppone per potere continuare a parlare; per potere imparare a parlare devo presupporre che qualcosa sia quello che è, devo presupporre che sia proprio così, perché sennò non posso proseguire. Quando poi gli umani crescendo hanno incominciato a chiedere conto di questa cosa, ecco che si sono trovati di fronte a un baratro infinito, cioè, non c’è nessun fondamento. C’è voluto un po’ di tempo, qualche millennio, ma alla fine, ecco la crisi dei fondamenti: siamo perduti, non c’è più niente. Il pensiero degli umani ha sempre oscillato tra la scienza e la religione. Se pensate, partendo dall’illuminismo, ha fatto seguito il romanticismo, al quale ha fatto seguito il positivismo, al quale hanno fatto seguito le avanguardie artistiche, fino ad arrivare al neopositivismo, cioè alla filosofia analitica contrapposta alla filosofia continentale, il cui esponente maggiore era Heidegger. Questo ripete esattamente ciò che Hegel diceva della religione: la religione tiene separati i momenti, il vero e il falso, il dio e l’inferno. Siamo rimasti lì, in effetti. Perché si fa questo anziché non farlo? Beh, perché è la via più breve e più comoda per esercitare il potere, per potere supporre di dominare le cose. Se distinguo ho più facilità a controllarle. Come faccio, p. es., a controllare un popolo? Faccio in modo che siano l’uno contro l’altro: divide et impera, Tommaso. La stessa cosa, dice Hegel, avviene con la struttura della religione: tenere separate le cose al fine di immaginare di poterle dominare. Anche Heidegger se ne rende conto: la scienza non può non fare questo, se cessasse di farlo allora cesserebbe di fare tutte le cose che fa; il che va benissimo, naturalmente.
Intervento: Questo dimostra che ha una struttura religiosa.
Sì, certo. Ma non per questo non funziona, la religione funziona da migliaia di anni. Però, è ciò che si continua a ripetere: il separare il vero dal falso, un elemento e il suo contrario. Ciò su cui Hegel ha costruito la Fenomenologia dello spirito e La scienza della logica è esattamente il contrario, continuando a dirci che i due elementi non sono separabili. Sono distinti, certo, non sono identici, ma non sono separabili, in nessun modo, perché uno è la condizione dell’altro. Non è che c’è prima l’uno e poi l’altro; sono simultanei, come sono simultanei due elementi nella relazione, simultanei nell’atto. A pag. 534. Quando si son verificate tutte le condizioni di una cosa, essa entra nell’esistenza. La cosa è, prima che esista; e precisamente è in primo luogo come essenza, o come incondizionato; secondariamente ha un esserci, ossia è determinata, e questo nell’accennata doppia maniera, da un lato nelle sue condizioni, dall’altro lato nella sua ragion d’essere. Dice La cosa è, prima che esista. Se volessi parafrasare direi che occorre il linguaggio perché le cose esistano, cioè, c’è il linguaggio e poi l’esistenza delle cose; senza il linguaggio non può esistere niente, perché non c’è neppure il concetto di esistenza: un bruco non si pone domande sull’esistenza. La cosa sorge dal fondamento o ragion d’essere. È da lì che viene fuori, che incomincia la sua esistenza: dalla sua ragion d’essere, dal fondamento. Il fondamento ha come condizione la presupposizione, cioè che presuppone che ci sia qualcosa di cui il fondamento è vero fondamento. Non viene fondata ossia posta da quello in modo ch’esso le rimanga ancora sotto,… Non è che la cosa è fondata dal fatto che c’è un fondamento che sta di sotto e la sostiene. …ma il porre è il movimento all’infuori del fondamento che torna a se stesso, ed è il suo semplice sparire. La cosa, quindi, esiste in questo movimento. Il fondamento non rimane dunque indietro come un diverso dal fondato, ma la verità del fondare è che il fondamento vi si unisce con se stesso, e che quindi la sua riflessione in altro è la riflessione in se stesso. Riflettendosi in se stesso si riflette in altro. Come la cosa è pertanto l’incondizionato, così anche l’infondato,… la cosa è anche l’infondato. …e sorge dal fondamento solo in quanto questo è andato giù e non è più; dall’infondato, vale a dire dalla propria essenziale negatività o pura forma. Il fondamento è andato giù, come dice Hegel, non c’è più, perché è diventato relazione, è diventato questo movimento.
Intervento: Rimane il significante.
Sì, rimane il significante, ma non è più il significante “di prima”, lo dico tra virgolette perché in realtà non c’era prima, è una presupposizione che ci fosse prima.